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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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lunedì 27 maggio 2013

ROMA: UNO SGUARDO SULLA LOTTA PER LA CASA a cura di Stefano Macera




ROMA: UNO SGUARDO SULLA LOTTA PER LA CASA




Una delle principali espressioni del conflitto sociale nella capitale, è senz’altro il movimento di lotta per la casa. Come è noto esso ha una storia lunga, che viene dagli anni ’70. Ma oggi presenta delle caratteristiche peculiari, legate alle trasformazioni verificatesi nel tessuto urbano. Ne abbiamo parlato con Giacomo Gresta , dei Blocchi Precari Metropolitani, che abbiamo incontrato in un’occupazione dalla forte connotazione multietnica: Metropoliz, in via Predestina 913, nel quartiere Tor Sapienza.
 
C’è un elemento che colpisce immediatamente chiunque osservi la lotta per la casa che si svolge nella capitale. Ed è il suo carattere fortemente unitario: sembra che, in questo caso, le lacerazioni che connotano da anni l’antagonismo romano, siano del tutto superate…
Il punto è che noi partiamo dalla convinzione che le lotte vadano unite e che la frammentazione sin qui dominante, nella sinistra di classe, abbia prodotto danni notevoli. Le differenze che esistono fra le diverse anime della lotta per la casa non sono di poco conto, ma non ostacolano l’azione comune. Come si sa, il Coordinamento cittadino di lotta per la casa, la realtà di più antica origine, si lega alla storia dei Comitati Autonomi Operai. Invece Action è stata creata dai disobbedienti ed ha come tratto peculiare il fatto di ritenere prioritaria la partecipazione alle competizioni elettorali locali. Noi dei Blocchi Precari Metropolitani, che siamo gli ultimi nati (2007), abbiamo spinto da subito in una direzione di lotta unitaria. E ciò, a prescindere da differenze che non sono solo quelle storiche e politiche appena accennate, ma che rimandano talvolta al modo stesso di gestire le occupazioni. Dal nostro punto di vista, anche nell’ambito del sindacalismo di base dovrebbe affermarsi la stessa ottica.
 
Si può dire che, all’interno di questo composito movimento, la differenza più grande sia proprio quella relativa al discorso elettorale?
Certo. A nostro avviso, il terreno elettorale non è centrale per i movimenti: noi siamo fermamente convinti che si possa incidere meglio sui processi decisionali rimanendo fuori dalle istituzioni e producendo il conflitto. Ad ogni modo, non vi sono mai stati problemi con chi, sul punto, la pensa diversamente. Considera solo il fatto che il grosso dei comunicati relativi ad azioni congiunte da parte degli organismi di lotta prima citati, viene firmato con la sigla Movimenti per il diritto all’abitare, che non sempre è seguita dalle rispettive denominazioni. Come a dire che nessuno muove dall’assillo che la propria soggettività abbia maggiore visibilità rispetto alle altre.

Proprio perché voi dei Blocchi siete una realtà di più recente costituzione, ci piacerete sapere quante sono le occupazioni da voi gestite?
Sono 13.
 
Come è cominciato il vostro percorso?
La nostra prima azione si è svolta nella fase del ballottaggio tra Rutelli e Alemanno (primavera del 2008), quando abbiamo occupato delle case nuove presso il centro commerciale Porta di Roma, in via Carlo Ludovico Bragaglia. Il nostro obiettivo era quello di denunciare alcuni degli effetti più nefasti del veltronismo, chiedendo una discontinuità che poi non si è verificata: intendevamo in particolare sottolineare la spinta a favorire la speculazione edilizia con la creazione di quartieri nuovi dalle case a prezzi elevatissimi. Nei diversi passaggi di quella battaglia (incluso il presidio-tendopoli che abbiamo svolto nel centro di Roma dopo lo sgombero) abbiamo pagato un costo alto in termini repressivi: 9 di noi sono stati arrestati. E’ stata una conseguenza del fatto che ci siamo permessi di occupare palazzine private, invece che un edificio pubblico abbandonato. Ma abbiamo sollevato un problema circa la politica urbanistica che, nell’ultimo ventennio, ha contraddistinto questa metropoli.
 
In effetti, l’impressione è che ogni vostra occupazione contenga in sé un elemento di forte contestazione del modo di gestire la città da parte dell’amministrazione locale…
Sì, è vero. Le nostre azioni non rispondono solo a una logica immediata, di soddisfazione di un bisogno primario come quello di avere un tetto sopra la testa. Ogni obiettivo è scelto in base a criteri ben precisi, tali da mettere in discussione l’alleanza tra classe politica cittadina e palazzinari. Ad esempio, siamo stati i primi a segnalare – sempre attraverso la pratica delle occupazioni - quanto il grande quantitativo di abitazioni invendute e sfitte costituisca un problema. Oggi, della questione se ne sono accorti anche lorsignori. Persino Marchini – un costruttore presuntamene illuminato che è tra i candidati alla carica di sindaco della capitale – ha citato la questione in dibattiti pubblici, anche se ha proposto soluzioni diverse dalle nostre e si è anzi associato alla condanna che il ceto politico romano normalmente riserva alle iniziative del movimento di lotta per la casa. A parte ciò, un’altra occupazione dalle implicazioni politiche forti è stata quella che abbiamo fatto, al principio della nostra attività, a via Gian Maria Volontè 9 (sempre dietro Porta di Roma), in un edificio legato al cosiddetto social housing[1] per gli anziani. In verità si trattava di una costruzione con appartamenti da 40 metri affittati a 600-700 euro al mese. In sostanza, chi lo ha costruito si è giovato di fondi regionali e di altro tipo, ed ha goduto di agevolazioni come il terreno gratuito, però poi ha proposto affitti di mercato. Non a caso, l’edificio è stato sequestrato dalla magistratura.
Dunque, parliamo di un ulteriore simbolo dei guasti dell’era veltroniana, rivelatore di quanto la politica dell'housing sociale, spacciata come alternativa alle vecchie case popolari, sia a un tempo una truffa e un fallimento.
 
Però, oggi, l’eventuale ripresa del vecchio sistema delle case popolari, in una città ormai iper-cementificata, potrebbe significare un ulteriore consumo del suolo…
Guarda che la nostra linea è proprio quella di frenare la colata di cemento che di continuo si abbatte sulla capitale. A Roma vi è una quantità ragguardevole di stabili da recuperare e da riqualificare Pensa al luogo in cui siamo, Metropoliz: si tratta di una fabbrica dismessa, l’ex salumificio Fiorucci, che abbiamo occupato nel marzo del 2009. Nel riadattare questo posto alle esigenze di una comunità umana molto variegata (qui vi sono persone di molteplici etnie: africani, latinoamericani, ucraini, italiani e rom) ci stiamo facendo aiutare da architetti schierati come Antonello Sotgia.
Peraltro, questo discorso di riqualificazione di stabili abbandonati, per noi va di pari passo con un’altra problematica, sempre legata alla qualità della vita in una città come Roma.
Nella città eterna vi sono territori del tutto privi sia di servizi sociali che di luoghi di aggregazione. Si tratta sia di quartieri di edificazione recente, magari sorti attorno a grandi centri commerciali (come quelli di Parco Leonardo e Porta di Roma), sia di zone di più antica tradizione. In sostanza, stiamo parlando di quartieri dormitorio, che favoriscono la disgregazione sociale.
Le occupazioni che portiamo avanti – oltre a dare un tetto a tante persone e a segnalare dei problemi di gestione della città – sono aperte al territorio circostante. Metropoliz, ad esempio, oltre a essere un laboratorio di convivenza multietnica, è in costante rapporto con il tessuto associativo del quartiere, con cui sviluppa iniziative sociali e ricreative come il “Carnevale di Tor Sapienza.
 
 
A proposito del rapporto con il territorio, si sa che voi avete diversi sportelli, che non costituiscono solo il punto di riferimento per chi vuole entrare nelle liste di occupazione, ma forniscono anche una serie di importanti servizi…
Sì, ma tieni presente che, al principio della nostra attività, ci siamo appoggiati agli sportelli dell’ASIA (Associazione Inquilini e Abitanti), legata all’Unione Sindacale di Base. Solo in un secondo momento abbiamo aperto sportelli nostri. Il più grande si trova a Centocelle, in via dei Castani, al piano terra di un’occupazione dalla forte connotazione giovanile. Bene, qui, in considerazione della caratterizzazione multietnica del territorio, affrontiamo anche le molteplici problematiche che si presentano, nella quotidianità, agli immigrati, dal ricongiungimento familiare alla necessità di frequentare corsi di italiano.
 
Dunque, ricapitolando: promozione della convivenza e del confronto tra persone di diverse etnie, attività socio-culturali aperte ai territori, servizi di assistenza anche di carattere giuridico, per italiani e per immigrati…il cuore del discorso del movimento di lotta per la casa rimane però il conflitto, che si esprime spesso in forme di notevole radicalità. In una città che, a uno sguardo superficiale, sembrerebbe pacificata, colpiscono le immagini delle risposte agli sgomberi…
Indubbiamente, negli ultimi tempi, sotto questo profilo si è registrato un salto di qualità. Per quello che mi riguarda, un momento spartiacque può essere stato il tentativo di sgombero a Casal Boccone, l’anno scorso. Rispetto a quel sito, la giunta Alemanno e la Questura convergevano sulla linea dura. Stiamo parlando di una specie di atollo al centro di terreni agricoli di Ligresti, poi passati al Monte dei Paschi di Siena, in virtù dei debiti che Ligresti stesso aveva contratto con la nota, discussa banca.
Qui, si volevano costruire 4 grattacieli, introducendo 2000 persone in più in una zona già congestionata dall’edilizia intensiva.
Ma proprio in quella sede abbiamo dato il segnale che si può vincere. Era il 9 marzo del 2012. In mattinata molti di noi, in solidarietà con i No Tav, erano andati ad occupare simbolicamente il Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione economica), in via della Mercede, in cui si discuteva di come “comprarsi” un po’ di sindaci della Val Susa, dandogli un po’ di soldi. La polizia ha reagito con una carica violentissima e con l’arresto di quattro persone, tra cui Paolo di Vetta, uno dei fondatori dei Blocchi, e tre occupanti immigrati. Nel pomeriggio, mentre eravamo davanti al Commissariato Trevi, anche per avere notizie sui fermati, l’occupazione di Casal Boccone è stata attaccata. Hanno scelto un momento propizio, perché lì c’erano solo 60 persone.
Ne è scaturita una battaglia campale, piano per piano. Donne e bambini seduti per terra dicevano: “ci dovrete portare via uno per uno”. Mentre sopra, sul tetto, immigrati tunisini ed egiziani urlavano alle forze dell’ordine: “guardate che la primavera araba è arrivata pure qui”. Questa disponibilità alla lotta (e la consapevolezza, da parte della polizia, che il protrarsi dello scontro avrebbe potuto avere conseguenze imprevedibili) ha fatto sì che lo sgombero poi non sia stato portato a compimento. Un segnale davvero fortissimo.
Oggi, l’idea che bisogna resistere è diventata prevalente. Pensa all’ultima ondata di occupazioni, lo Tsunami tour che il 6 aprile si è dispiegato in diverse aree della città.
Finora, in risposta ad esso, le istituzioni hanno risposto con uno sgombero a Tor Tre Teste, effettuato il 2 maggio. Ma gli occupanti hanno prodotto una forma seria di barricamento, tanto che la controparte ha dovuto usare i vigili del fuoco per ottenere il risultato sperato.
Quello che m’interessa sottolineare è che questa volontà di opporre resistenza attiva non viene tanto dai compagni, impegnati da tanti anni nella lotta per la casa e in altri conflitti in città, ma dalla gente stessa, dagli occupanti, che non vedono altre strade per realizzare il proprio diritto all’abitare. In sostanza, c’è un’istanza di conflitto reale che non nasce dalla testa di qualche “avanguardia” politica.
 
Proprio questa radicalità viene stigmatizzata dai media, solitamente propensi ad affrontare la lotta per la casa come mero problema di ordine pubblico. In particolare, Il Messaggero porta avanti una campagna che spesso assume tratti diffamatori, con tanto di accuse relative a estorsioni…
Il Messaggero ha un proprietà ben definita, è il quotidiano di Caltagirone, il principale costruttore romano. La sua campagna sul presunto pizzo richiesto dai movimenti di lotta per la casa agli occupanti è di vecchia data. Iniziò nel settembre del 2009, quando – con questa infamante accusa – furono arrestati alcuni compagni all’occupazione di Magliana (la ex scuola 8 marzo). Titoli a caratteri cubitali, ma poi il processo ha rivelato la totale infondatezza dei capi d’accusa. Però il giornale in questione persevera d è arrivato a scrivere, qualche giorno dopo lo Tsunami Tour, che certe occupazioni prendono dagli occupanti ben 15 euro al giorno. In verità si tratta di un contributo della stessa entità, ma mensile! Questa manciata di soldi serve per fare i lavori, che talvolta non sono di poca portata e riguardano bagni rotti, infiltrazioni d’acqua e altri problemi che qualche spesa, da parte della collettività, la richiedono.
Il Messaggero, poi, condanna la prassi dell’occupazione in quanto tale: in questo senso, parla di rispetto della legalità, ma intende soprattutto l’inviolabilità della proprietà.
Il fatto più grave è che vi è una sorta di sinergia tra la stampa legata ai costruttori e le forze dell’ordine. Si pensi al fatto che molti immigrati vengono presi davanti alle occupazioni e portati in commissariato. E’ magari gente senza il permesso di soggiorno, che si cerca di convincere a collaborare, a denunciare le occupazioni con le parole che gli vengono suggerite dalla polizia. Ma queste cose funzionano poco. Le occupazioni sanno difendersi, non rimangono colpite dalla durezza dell’attacco nei loro confronti perché partono dalla consapevolezza che stanno sostenendo uno scontro reale con i poteri forti della città. Del resto, noi, Caltagirone non lo critichiamo solo in quanto palazzinaro. Il movimento di lotta per la casa non è cosa altra, rispetto all’insieme delle battaglie che si danno a Roma contro quella logica che vuole che ogni bene collettivo sia mercificato a vantaggio dei grandi interessi capitalistici. Noi siamo in stretto rapporto con le lotte per l’acqua pubblica e, ad esempio, attacchiamo Caltagirone per le mire che ha nei confronti dell’ACEA. Il Messaggero, come è noto, è da tempo schierato in favore dell’aumento della presenza dei privati nella azienda dell’acqua di Roma: ciò, nell’interesse del suo proprietario, che già ne possiede una quota azionaria. Bene, noi denunciamo queste mire con lo stesso vigore con cui ci opponiamo alla speculazione edilizia.
 
A cura di Stefano Macera
 
 
Intervista realizzata il 5 maggio 2013 per la rivista online Cassandra (www.cassandrarivista.it)

[1] Secondo il Cecodhas, Comitato Europeo per la promozione del diritto alla casa, il social housing può essere definito come “l’insieme delle attività atte a fornire alloggi adeguati, attraverso regole certe di assegnazione, a famiglie che hanno difficoltà nel trovare un alloggio alle condizioni di mercato perché incapaci di ottenere credito o perché afflitte da problematiche particolari”. I costruttori che realizzano tali alloggi possono beneficiare di alcune agevolazioni e/o contributi da parte degli enti locali. In Italia, in particolare, dietro l’housing sociale si sono talvolta celati fenomeni inquietanti di sostegno pubblico a palazzinari che realizzavano alloggi venduti proprio secondo i principi del “libero mercato”.

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