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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 5 dicembre 2013

RE GIORGIO E I COMPRIMARI di Norberto Fragiacomo




RE GIORGIO E I COMPRIMARI
di
Norberto Fragiacomo


Neanche il tempo di riporre i bignami nel cassetto che già le mareggiate della politica (rectius: dell’economia – la politica è, oggi più che mai, mero travestimento degli interessi economici, squallida pochade) disperdono quel poco di ottimismo accumulato in una mattina romana. In verità, non è che la tormenta si fosse placata: ero io a “sonnecchiare” sui libri, dimentico del mondo esterno. Il pianeta, però, seguitava a ruotare, la crisi a infierire sugli estranei all’elite globalizzata: il pomeriggio del 20 novembre avevo annotato con inquietudine la massiccia presenza di poliziotti e blindati nel centro di Roma. Una città occupata, pareva: soltanto la sera avrei appreso, dalla tivù, dell’assalto dimostrativo dei No Tav alla sede del PD, e dei successivi scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. 

Contemporaneamente stava accadendo qualcosa di più grave (per un Paese che si professa democratico), ma non di inatteso: Letta, d’ordine del Colle, poneva una fiducia extra ordinem all’assemblea del PD, salvando un ministro dalle pessime frequentazioni e certificando, a beneficio degli ingenui, che il “dovere di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore” (art. 54 Cost.), “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98), vale solo per impiegatucci e politici di quarta fila. A quel diktat il PD reagiva da par suo: piegando lamentosamente il capo. Avevo ascoltato la sera prima, alla radio, la requisitoria di Felice Casson contro la Cancellieri: una condanna (politica) motivata e senza appello. Risultato? L’uomo che non risponde ai giudici scende in campo, e tutti si mettono sull’attenti, come i corazzieri di Crozza. A Pippo Civati sfugge uno “stronzi” deluso ma assai poco incisivo: anche lui si adegua alla circolare. Confesso di avere un minimo di simpatia per Civati, mio quasi coetaneo (lui è più giovane di qualche anno), ma quando lo sento dire che “cambierà il PD” - se il giorno dell’Immacolata fosse eletto segretario, s’intende - non riesco a trattenere un sogghigno: chi s’inchina, su una vicenda in apparenza marginale, alla ragion del Quirinale ben difficilmente troverà la forza, domani o dopodomani, di resistere allo strapotere della troika schiavista. In ogni modo il trentottenne lombardo non diventerà segretario: la carega è già prenotata da uno assai più scaltro e “italiano” di lui, che miete consensi parlando come i compagnoni di Amici miei. Anche Renzi ha velleità di innovatore, ma tra la sua supercazzola pop e i moniti di Re Giorgio non potrà mai esserci partita. Mille volte meglio (di entrambi) il conte Mascetti, comunque.
Il Presidente a vita e il suo portavoce Letta junior danno ordini, il resto della combriccola esegue. E Berlusconi? Sembra proprio che, stavolta, il signore degli inganni sia stato ingannato, preso per il naso come un vecchierello cui il cinico promotore finanziario è riuscito a rifilare un derivato. Dopo aver aderito alle larghe intese all’italiana pensava di essere in una botte di ferro: purtroppo per lui, è finito in quella di Attilio Regolo. Decaduto, come un mariuolo qualunque. Il fatto che se lo meriti è politicamente irrilevante: la grandinata di condanne e accuse indica che appoggiare l’esecutivo del Presidente non gli ha arrecato alcun beneficio. La sua attuale linea difensiva è una Maginot di paglia e fango: difficile che le fantomatiche “carte americane”, cui affida le speranze di revisione della recente condanna definitiva, siano quelle “nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto (art. 630 lett. c) c.p.p.)”, anche perché – se fossero autentiche – sarebbero state già prodotte in precedenza dai suoi costosissimi principi del foro (quegli stessi che, secondo la procura, istruiscono testimoni semianalfabeti a parlare come legulei… quale machiavellica astuzia!); quanto alla presunta retroattività della legge Severino, sarebbe opportuno ricordare ai giuristi fai da te del NCD e della rinata Forza Italia – due nomi, stessa robaccia – che le sanzioni accessorie hanno carattere amministrativo, e non penale, e che di conseguenza possono essere comminate anche se non previste al tempus commissi delicti. Lo stesso vale, ad esempio, per le misure di sicurezza detentive, ben altrimenti lesive della libertà del reo. Il ricorso alla CEDU? Merita di essere ricordato soltanto per il particolare – spassosissimo – che il sen. Augello ha confuso la Corte di Strasburgo con quella del Lussemburgo, che invece si occupa di tutt’altro (dell’applicazione del diritto UE e della sua interpretazione, non di diritti del cittadino!).
Il 27 novembre, in Parlamento e in piazza, è andato in onda un film surreale: in aula i senatori berlusconiani hanno cercato di aggrapparsi all’art. 66 della Costituzione – che non stabilisce espressamente la decadenza automatica dalla carica in presenza di un caso di ineleggibilità o simile -, spacciando una dovuta presa d’atto per una decisione discrezionale, o addirittura politica; fuori, un vecchio dalla voce impastata ripeteva stancamente logori e ridicoli slogan a una folla di buzzurri. “Libertà! Democrazia!”, e giù applausi, in un prequel caricaturale della piazza di Kiev subornata, per conto dei finanzieri, dai media occidentali. Qualcuno si è stupito perché i supporter, ipnotizzati dalle parole d’ordine, non avevano manco idea di cosa fosse una decadenza, né del contenuto delle accuse all’amato leader, ma tanto stupore mi sorprende: chi vive da vent’anni in Berlusconistan dovrebbe sapere che il “popolo” di Silvio è questo qui, una massa starnazzante di poveri di spirito.

Per la prima volta, insomma, abbiamo visto un Berlusconi davvero in affanno – non vinto, perché il cavaliere non può concedersi il lusso della resa, e sparerà le sue cartucce fino all’ultima (Marina?), ma inequivocabilmente sulla difensiva, stretto com’è fra l’incudine dei processi penali e il martello dei signori dei mercati, che hanno già dimostrato di poterlo castigare in qualsiasi momento. A questo punto l’unica vera chance è un non inverosimile exploit elettorale, che però implica una fine anticipata della legislatura (prospettiva remota, finché l’Europa e Napolitano vegliano) e la ricomposizione di un centrodestra “berlusconicentrico”. La rottura autunnale con Alfano puzza, per alcuni, di manovra tattica, ma chi grida all’imbroglio esalta, senza volerlo, il genio del divo Silvio: da un megalomane alle corde – che mai, tra l’altro, ha tollerato di essere non dico sfidato, ma contraddetto – è eccessivo pretendere capolavori d’astuzia. Berlusconi non è Annibale a Zama: ha subito gli eventi, e adesso proverà a reagire. Se gli capitasse una campagna elettorale, riuscirebbe probabilmente a far dimenticare al suo elettorato lo smacco subito, e a riprendere i fuggitivi; in caso contrario rischia la marginalizzazione, (forse) il fallimento e (probabilmente) la galera. Se sparisce, non mi mancherà; ma non sarà il suo tramonto a rasserenare il cielo della crisi italiana.

Che dire a questo punto di Grillo e del suo movimento che, complice la loro brama di elezioni, potrebbero fare involontariamente il gioco di Berlusconi? Per ora niente (ce ne occuperemo a tempo debito), se non che, a parere di chi scrive, gli eletti a 5 Stelle in Parlamento si stanno disimpegnando egregiamente - Taverna compresa: il 27 ha detto pane al pane e vino al vino - e fanno le veci di una sinistra assente ingiustificata.

Una nota di colore sulle primarie del PD: ma chi glielo ha fatto fare, al mio concittadino Cuperlo, di scolarsi fino in fondo l’amaro calice? Gli è toccata in sorte la parte del candidato “di sinistra”, e lui cerca di interpretare il ruolo, salvo dover fare i conti con la realtà (che colloca il partito ex comunista nella palude dei liberisti) e con quel mostro chiamato tv. Non dubito che sia uomo di buone letture: tenta di spiegarsi, ragiona – ma di fronte al fuoco di fila delle interviste-interrogatorio si rivela, ogni santa volta, disarmato e indifeso. Un Musil alla corte di Gengis Khan. Renzi e lo stesso Civati sono animali da talk show, lui annaspa: pare che dopo il confronto su Sky – straperso – abbia twittato un sospiro di sollievo. Doveva essere l’anti Renzi, e corre il rischio di essere sorpassato dall’outsider Civati (che è più a sinistra di lui): per l’apparato – che è centrista quanto il fiorentino, ma vuole tenersi stretta la poltrona – sarebbe una cocente umiliazione.
Credo che neppure il favorito, però, dorma sonni tranquilli: sa che, se l’8 andasse a votare poca gente o, peggio ancora, la sua vittoria non fosse schiacciante, i nemici di dentro e di fuori gongolerebbero. Un segretario azzoppato, con mezzo partito contro, avrebbe seri problemi a battere i pugni (anche solo per finta) sul tavolo del governo. Il vero avversario è Letta, che rispetto al sindaco ha molti più appoggi e che difatti, finora, l’ha sempre battuto (v. caso Cancellieri). Il premier continuerà a predicare moderazione e misura, per Renzi non sarà facile mantenere neppure le promesse meno impegnative (sono tutte abbastanza vaghe, peraltro). Lui, che oltretutto non ha esperienza politica a livello nazionale, dovrà dal nove dicembre tralasciare le battute e cimentarsi con i fatti; dovrà evitare di scontentare gli elettori che, alla perenne italica ricerca del salvatore della patria, gli hanno dato e gli daranno un credito a termine.
Non farà certo uscire l’Italia dalla crisi, e lo sa (dalla crisi si esce solo con un cambio di sistema, e Renzi di questo sistema è un prodotto), ma credo che il suo prosaico e personalissimo timore sia  quello di non combinare nulla, di andare alla deriva nel mare insidioso della politica. Una politica che, come abbiamo detto in apertura, è decisa altrove, altrove e da altri.

Morale della favola: Berlusconi, ma persino Renzi e gli altri candidati alla segreteria sono nient’altro che comparse in una pellicola diretta da Giorgio Napolitano. L’attore principale è per il momento Enrico Letta, in quanto fiduciario del Colle e delle varie troike. Tutti i piovaschi (quelli metaforici, purtroppo) di questi ultimi tempi sono effetti digitali, i veri danni si producono da altre parti. In legge di stabilità, per esempio: le tasse passano di sigla in sigla, ma aumentano; le svendite sono prossime. Intanto, la Commissione europea e un borioso finlandese grasso che ha studiato da monetarista in Minnesota ci trattano come pezze da piedi, e nessuno li ammonisce che, senza il contributo economico italiano, la UE chiuderebbe bottega domattina.

Non solo notizie brutte o insignificanti: a Genova, in quest’ultimo mese, è successo qualcosa. Lo sciopero-rivolta dei tramvieri può essere un fuoco di paglia, oppure un’embrionale presa di coscienza che la strada che c’hanno imposto ha come unica uscita il precipizio. Il tempo fugge, dovremmo muoverci anche noi.    


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