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venerdì 6 dicembre 2013

UNA PROPOSTA DI USCITA DALL'EURO-AUSTERITA' di Riccardo Achilli




UNA PROPOSTA DI USCITA DALL'EURO-AUSTERITA' 
di Riccardo Achilli



Il professor Shumpei Takemori, dell’Università di Tokio, si è chiesto, in un recentissimo convegno, come mai il Giappone, con un rapporto fra debito pubblico e PIL pari a quasi il 240%, non paghi lo stesso tasso di interesse che paga l’Italia, con un rapporto debito/PIL  pari a circa il 132%. Il Giappone, infatti, sui titoli del debito pubblico decennali, nel 2013 ha pagato interessi oscillanti fra un minimo dello 0,6% ed un massimo dello 0,85%, mentre l’analogo tasso di interesse su scadenze decennali, per l’Italia, ha oscillato fra un minimo del 4,15% ed un massimo del 7,2%.
E’ naturalmente ben noto che il livello del tasso di interesse sui bond pubblici misura il livello di fiducia e credibilità che i mercati assegnano al debito pubblico di un Paese, e che tassi di interesse elevati generano un effetto “palla di neve”, aumentando la quota capitale del debito per le esigenze di copertura degli stessi. Come mai il Giappone, ben più indebitato dell’Italia, può permettersi tassi di interesse più bassi sul suo debito pubblico?

La risposta del professor Takemori è semplice: la presenza dell’euro fa sì che i mercati finanziari europei siano completamente aperti. Non vi è alcun rischio di cambio nel trasferire capitali da un Paese all’altro, nell’ambito di tale zona e, peraltro, non esiste alcun controllo del movimento degli stessi. Basta un minimo di differenziale di reputazione e credibilità fra un Paese dell’eurozona e l’altro per indurre spostamenti di capitali che solo un più alto tasso di interesse offerto ai creditori, da parte dello Stato meno credibile, può frenare.
Se questa è la realtà, è chiaro che per uscire dalla trappola ci sono solo quattro strade possibili. Analizziamole:
1)      La deflazione interna tramite politiche di austerità finanziaria a carico dei Paesi più indebitati, per portarne il livello di credibilità vis-à-vis dei mercati su quello dei Paesi meno indebitati dell’area. E’ la strada imposta dai trattati europei e dal fiscal compact. Essa mira a omogeneizzare i livelli di credibilità imponendo allo Stato più indebitato politiche di controllo delle proprie finanze pubbliche e di riduzione dei costi interni di produzione, quindi dei prezzi, e dunque dei tassi di interesse, che sono correlati alla struttura dei prezzi. Questa strada è ovviamente perdente: la deflazione esercita tendenze al ribasso sui tassi di interesse solo a lungo termine, nell’immediato aumenta il tasso di interesse reale (cioè il rapporto fra tasso nominale ed inflazione) quindi l’onere reale a carico del Tesoro per sostenere il debito pubblico, e, abbattendo i salari, comprime la crescita e quindi aumenta il debito pubblico stesso, per il minor gettito fiscale e il maggior ricorso agli stabilizzatori automatici. Inoltre, essa non azzera completamente il differenziale di credibilità fra Stati più indebitati e Stati più “virtuosi” nell’ambito dell’eurozona. In condizioni in cui le frontiere sono completamente aperte, basta anche tale minimo differenziale di credibilità residuo per generare amplissimi movimenti di capitale. Tale strada porta dritti al default;
2)      L’uscita immediata dall’euro, finalizzata a ripristinare la barriera valutaria ai movimenti di capitale. Tale strada, se non concertata e unilaterale, è catastrofica perché azzera la credibilità del Paese debitore presso i mercati, comportando una fuga di capitali, porta ad una fiammata dei tassi di interesse e impone al Paese debitore di pagare la quota del suo debito estero in euro, acquistando gli euro con la valuta nazionale svalutata, il che si traduce in un aumento del costo del rimborso del debito estero;
3)      La messa in comune dei debiti pubblici nazionali tramite un fondo di mutualizzazione degli stessi, che azzera per definizione i differenziali interni di credibilità fra i debiti nazionali, riportandoli ad unità, in un unico debito garantito da un’entità politica superiore. Tale strada è ovviamente politicamente impraticabile, per via dell’ostilità della Germania, e perché sarebbe necessario un rapidissimo processo di integrazione politica europea, per avere il soggetto istituzionale in grado di garantire il debito comune. Un effetto analogo sarebbe legato all’eventuale concessione di licenza bancaria all’ESM, che ne permetterebbe l’acquisto di titoli del debito pubblico dei PIIGS, di fatto “monetizzandolo” e mettendolo così, per la parte acquistata, in comune. Naturalmente la Germania è fortemente contraria anche alla concessione della licenza bancaria all’ESM. Altre soluzioni, come una parziale messa in comune del debito inferiore all’anno per effettuare investimenti strategici, oppure un redemption fund sul solo servizio del debito, accompagnato peraltro da severe condizionalità che renderebbero ancor più dura l’austerità economica richiesta agli Stati iper-indebitati, sarebbero insufficienti, se non addirittura dannose, posto che gli effetti recessivi dell’austerità supererebbero il sollievo parziale sul pagamento degli interessi del debito ;
4)      La messa in pista dell’unione bancaria europea, ovvero di un meccanismo comune di sorveglianza bancaria che adotti gli stessi criteri sull’intero sistema creditizio e finanziario europeo. Tale meccanismo azzererebbe i differenziali di credibilità fra Stati, perché le regole di vigilanza comuni eviterebbero di avere crack a livello nazionale di istituti bancari o finanziari motivati dall’esigenza di assorbire titoli del debito pubblico nazionale considerati “spazzatura”. La politica monetaria comune e la sorveglianza bancaria comune consentirebbero di garantire ai mercati che ogni Stato membro, a prescindere dal suo livello di debito pubblico, adotterebbe gli stessi comportamenti nella gestione del debito stesso (ed in particolare nella quota che viene monetizzata ed in quella che viene assorbita dalle banche nazionali).
La quarta soluzione, secondo il professore di Tokio, dovrebbe quindi garantire il calo dello spread, fino ad un suo virtuale azzeramento, senza bisogno di politiche di austerità, che potrebbero quindi essere abbandonate, tornando a fare politiche di spesa per la crescita delle economie e dell’occupazione.
Tutto qui?
Ovviamente no. Non vi è dubbio che l’unione bancaria comporti benefici enormi soprattutto per quei PIIGS, come l’Italia, il cui problema non è tanto quello di una fragilità del sistema creditizio (che pure c’è, ma in misura minore rispetto alla Spagna) ma quello di un debito pubblico astronomico. Però una unione bancaria con l’efficacia descritta dal prof. Takemori dovrebbe avere perlomeno le seguenti caratteristiche:
-          Essere omnicomprensiva. Al contrario, il progetto di unione bancaria che si sta portando a compimento, su pressione tedesca, riguarda solo le grandi banche di rilevanza sistemica, lasciando alle Autorità nazionali la vigilanza sulle banche medio/piccole che, specie in Paesi come la Germania, sono costituite da una rete di landesbanken notoriamente in grande difficoltà patrimoniale e finanziaria;
-          Essere credibile. E’ però molto difficile credere che gli stress test condotti su Kommerzbank saranno di egual severità di quelli condotti su Unicredit, benché notoriamente Kommerzbank sia una banca in forte difficoltà.

In alternativa, un’unione bancaria che non possedesse i requisiti sopra descritti, per “unwillingness” della Germania, potrebbe prevedere una soluzione di compromesso: un’unione bancaria “debole”, come desiderano i tedeschi, accompagnata però da un meccanismo comune di garanzia sul debito pubblico sovrano nazionale, da erogare soltanto in caso di default nel rimborso delle quote di debito sovrano, utilizzando 116 dei 650 miliardi di dotazione dell’ESM (corrispondenti al  17,9%, cioè alla percentuale che l’Italia ha versato a detto fondo) come garanzia per l’eventuale default del debito sovrano italiano, con norme molto restrittive di condizionalità nel caso in cui tale garanzia fosse attivata anche solo in parte. Evidentemente, una garanzia pubblica europea sul pagamento del nostro debito nazionale ridurrebbe notevolmente il cosiddetto “rollover risk” per i creditori, e quindi comporterebbe una riduzione del tasso di interesse, che è, come tutti sappiamo, un premio per il rischio di investimento.

Detto questo, servirebbe qualcos’altro per portarci fuori dal guado. Un’altra caratteristica fondamentale del debito pubblico giapponese, che il prof. Takemori, non ha citato, è che esso è quasi interamente detenuto da soggetti residenti (solo l’8% circa è detenuto da stranieri), mentre in Italia viaggiamo attorno al 35%. Un debito pubblico che è quasi interamente detenuto da soggetti residenti tarpa le ali, in partenza, ad ogni possibile rischio di speculazione finanziaria, mantenendo quindi bassi i tassi di interesse, e consentendo di adottare politiche economiche espansive (mentre la monetizzazione del debito consentita dall’avere una Banca Centrale nazionale è un argomento molto più debole, nella misura in cui fra gennaio e settembre 2013 la crescita dell’offerta di massa monetaria M3 in Giappone è stata pari ad appena il 2%, in presenza però di una forte deflazione nei primi cinque mesi dell’anno, che ovviamente andava combattuta con un allentamento delle condizioni monetarie (peraltro piuttosto contenuto).

Ne segue che, accanto ad un compromesso politico con la Germania, che preveda un’unione bancaria parziale, che integri un compromesso sull’utilizzo della quota italiana dell’ESM come garanzia pubblica accompagnata da eventuali penalizzazioni in termini di condizionalità,  per l’Italia sarebbe necessario affiancare un intervento di riduzione del peso del debito estero su quello pubblico totale. 

Come già esprimevo in un articolo di qualche tempo fa (http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2012/08/il-punto-di-equilibrio-fra-rigore-e.html ). “Ciò che quindi occorre mettere in sicurezza, per uscire dagli attuali livelli di spread generati dai dubbi dei mercati finanziari globali circa la solvibilità del Tesoro italiano, è soltanto il 35% del debito pubblico totale. Il debito interno è infatti gestibile, intanto, con politiche sul ciclo di stop and go. In caso di emergenza, poi, il debito interno può essere gestito con strumenti straordinari, come per esempio sistemi di prestito forzoso a carico dei redditi piu' alti, o norme che impongono allungamenti delle scadenze a parità di valore nominale (comportando quindi di fatto un haircut sul valore attualizzato del debito).  Tutte cose che possono essere imposte per legge ai creditori interni, ma non certo a quelli esteri.

Quindi, intanto, un fiscal compact adeguato per il nostro Paese non dovrebbe prevedere, come nella versione attuale, una riduzione di 71 e più punti di rapporto fra debito pubblico e PIL in 20 anni, ma al massimo una riduzione di soli 46 punti di tale rapporto sullo stesso arco di tempo (ovvero il valore del rapporto fra quota di debito pubblico detenuto da soggetti esteri e PIL stimato per il 2013), con manovre finanziarie molto meno recessive, rispetto a quelle attuali. Si tratterebbe (stimando un incremento medio annuo del PIL pari all’1,5% nei prossimi 20 anni) di risparmiare 112 miliardi di maggiori tasse o minori spese nell’arco dei prossimi 20 anni, ovvero di avere leggi di stabilità più leggere per circa 5,6 miliardi all’anno.

Ma quanto detto sopra è persino troppo conservativo: sarebbe possibile pagare ogni anno una rata di debito estero pari a 19 miliardi di euro tramite un prelievo del 2% sulle attività nette detenute dal 10% delle famiglie italiane più ricche (dato Bankitalia) o addirittura, come suggerisce Renato Costanzo Gatti sulla base della legge di Bowley, una patrimoniale più consistente associandovi, se le condizioni politiche lo consentissero, una parziale sostituzione di debito estero con maggiore debito interno. Anziché ripagare integralmente i 720 miliardi circa di debito pubblico estero tramite manovre finanziarie restrittive, proprio perché il problema del debito pubblico è incentrato sulla componente estera, si potrebbe aumentare, in parte, l'esposizione con soggetti residenti, per rimborsare quelli non residenti, e quindi liberare risorse per tornare a fare politiche economiche espansive, che a loro volta genereranno ulteriori riduzioni di disavanzi e quindi di debito, tramite il conseguente aumento di gettito fiscale. Ma naturalmente ciò comporterebbe l’eliminazione del vincolo di pareggio di bilancio dalla Costituzione, o una sua consapevole violazione perlomeno nei primi anni (perché nei primi anni il debito interno “forzoso” costerebbe di più, in termini di tasso di interesse, del debito estero che a scadenza si andrebbe a ripagare) e quindi il parziale superamento dei trattati europei restrittivi.

 La combinazione fra un’unione bancaria anche debole, ma con strumenti di garanzia europea sul pagamento del debito pubblico italiano, e di uno sforzo per estinguere la componente estera del nostro debito, ci potrebbe quindi portare, gradualmente, nel giro di 4 o 5 anni, ad una riduzione costante del servizio del debito, e, nell’immediato, ad una liberazione di risorse per favorire la crescita, via via sempre più importante e crescente negli anni (piccola nei primi anni, perché la liberazione di risorse derivante dal pagamento del solo debito estero sarebbe in parte compensata dai più alti tassi di interesse del debito interno di sostituzione). Il tutto senza uscire dall’euro unilateralmente, e senza chiedere impossibili mutualizzazioni del debito pubblico sovrano, che non sono politicamente realizzabili, se non in minima parte.


L’attuazione immediata del previsto fondo di riequilibrio degli scompensi macroeconomici asimmetrici, già prevista in una bozza di comunicazione del Parlamento Europeo alla Commissione ed al Consiglio Europeo (COM 690/2013), ma solo per il lungo termine (e che quindi andrebbe anticipato) e dello scorporo dal Patto di Stabilità, già previsto dall’accordo del 2012, di talune categorie di investimenti pubblici nazionali (nella scuola, nella ricerca ed innovazione, nelle infrastrutture strategiche, ad iniziare dalla banda larga) completerebbero il quadro di un deciso rilancio al di fuori della crisi economica, riavviando un percorso di crescita e, dunque, di riduzione del peso del debito pubblico, che è endogeno al ciclo. 



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