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sabato 3 maggio 2014

LOGICA DELLA MANOVRA RENZIANA di Renato Costanzo Gatti

 


LOGICA DELLA MANOVRA RENZIANA

di Renato Costanzo Gatti




Con questo mio intervento, vorrei sollecitare una riflessione comune, tra chi si diletta di esami economici, di quel che significa la manovra renziana in termini macroeconomici. Da studiosi di economia le riflessioni che vorrei sollecitare dovrebbero, metodologicamente, essere esenti da pregiudizi politici e soprattutto dalla pregiudiziale più facile, cui pur io ho c...eduto, di interpretare quella manovra come una captatio benevolentiae pre elettorale sul filone dello stile alla Achille Lauro. Punterei ad un superiore livello di onestà intellettuale che affronti il tema che, tuttavia, richiede di essere ben delimitato.




1. La definizione del tema.

Cerchiamo di definire il tema in modo essenziale (anche se con qualche forzata sintesi) ponendo una proposizione seguita da quattro domande:

Proposizione: il governo Renzi tramite deduzioni fiscali o bonus (con le conseguenze classificatorie che l’una o l’altra opzione comportano) inietta nel mondo produttivo 10 miliardi di € canalizzandoli tramite i lavoratori dipendenti il cui reddito si piazzi nel settore medio basso.
1° domanda: quali sono le conseguenze macroeconomiche di questa iniezione di liquidità?
2° domanda: se l’operazione si allargherà agli incapienti, ai pensionati e alle partite iva, e si trasformerà in manovra strutturale permanente nel tempo, quali sono le conseguenze macroeconomiche a medio-lungo termine prevedibili?
3° domanda: questi 10 miliardi di € avrebbero potuto essere iniettati nella circolazione produttiva con altre modalità più efficaci ed efficienti?
4° domanda: ci sono riflessi europei nella logica renziana?

2. Approfondimento della proposizione

La scelta fatta dal governo Renzi rientra nella tematica della crisi del nostro paese che con molte più difficoltà di altri paesi, dimostra di non saper reggere allo sconvolgimento causato dalla crisi del capitalismo finanziario nato nel 2007 ed esploso nel 2008 e a tutt’oggi non risolto.
La crisi del capitalismo finanziario, peraltro rimosso dalle logiche economiche correnti che hanno preferito concentrarsi sul debito pubblico, sugli sprechi della politica, sulle conseguenze del malgoverno e su un moralismo melenso e di maniera, trova in Italia una situazione particolare rappresentata da venti anni di crescita zero (se non negativa) della produttività del sistema Italia.
Il rilancio della produttività, degli investimenti, di una politica industriale conseguente, di una conseguente programmazione di risorse ed impieghi paiono tuttavia essere estranei alla logica governativa. Gli unici soggetti economici che hanno elaborato una proposta in linea con la complessità del tema sono, a mio giudizio, la CGIL e la Confindustria con i loro piani presentati prima delle elezioni di inizio 2013.
Questa “inadeguatezza” che mi par di leggere nella proposta renziana (quanto poi condivisa da Padoan o da questi alla meglio attuata) è uno dei temi che chiederebbe di essere smentita con argomentazioni convincenti.
Il tema comunque si snoda attraverso i seguenti punti:

Il costo del lavoro è inferiore a quello dei nostri competitors europei;
Il contenuto di valore aggiunto del nostro lavoro è inferiore a quello dei nostri competitors europei;
Il costo del lavoro per unità di prodotto è superiore a quello dei nostri competitors europei;
Il cuneo fiscale è tra i più alti se confrontati a quelli dei nostri competitors europei;
L’efficacia dei servizi finanziati dal cuneo fiscale è decisamente inferiore a quello dei nostri competitors europei;
Il netto in busta dei nostri salari e stipendi è inferiore a quello dei lavoratori dei nostri competitors europei;
La massa dei salari e stipendi è diminuita negli anni nelle quote di imputazione e distribuzione del reddito nazionale;
La riduzione della massa salariale comporta la debolezza della domanda interna;
La debolezza della domanda interna non è controbilanciata dalla domanda estera. Le esportazioni, tuttavia, in determinati settori, hanno retto alla crisi del paese:
Alla diminuzione della massa salariale è corrisposto un innalzamento dell’indice Gini, sia del reddito che della ricchezza;
L’aumentata quota di redditi e di ricchezza andata ai decili più alti della distribuzione della popolazione non si è trasformata in aumento degli investimenti produttivi, ma ha arricchito i flussi in uscita dalla circolazione produttiva a favore della circolazione finanziaria;
Le politiche europee nell’affrontare la crisi finanziaria del capitalismo hanno privilegiato approcci hooveriani piuttosto che approcci keynesiani (come invece hanno fatto gli Stati Uniti d’America).
In questo quadro sintetico come si configura la manovra renziana?

3. Approfondimento delle prime due domande

La prima e la seconda domanda seguono conseguenti al precedente punto 2.13.

Il rapporto tra livelli salariali e domanda di lavoro è uno dei temi più studiati dagli economisti classici e moderni.
Per gli economisti classici (Stuart Mill, Malthus etc) c’è sempre una relazione inversa ed esclusiva tra domanda di lavoro e salari: quanto maggiore è il salario tanto è minore la domanda di lavoro, per cui in momenti di alta disoccupazione l’unica soluzione razionale è la diminuzione dei livelli salariali. Anche i neo-classici (Marshall, Taussig, Ricardo etc. ) ammettono, anche se con diverse argomentazioni, che la domanda di lavoro sia inclinata negativamente rispetto ai salari.
Le posizioni di Pigou e dei suoi commentatori (Hawtrey, Kaldor, Harrod, Hicks) e soprattutto di Keynes ( con Kahn, Robinson, Harrod e Kalecki) sono estremamente innovative rispetto alle posizioni espresse da classici e neoclassici. Il Keynes, soprattutto, individua le relazioni determinanti la domanda di lavoro su tre relazioni fondamentali: relazione tra profitti prospettici e tasso di interesse; ruolo del moltiplicatore di Kahn; relazione tra reddito reale e tasso di interesse monetario.
La manovra renziana, che ha di fatto aumentato i redditi monetari di una parte dei lavoratori dipendenti e che, se tradotta in manovra strutturale, aumenta costantemente i redditi monetari di una anche più ampia fascia di lavoratori, va decisamente contro alle opinioni degli economisti classici secondo cui in caso di disoccupazione l’unica ricetta sarebbe la diminuzione dei salari reali.
Ma la manovra renziana può essere definita keynesiana? Lo vedremo al prossimo paragrafo, per ora sviluppiamo alcune sottodomande:

3.1 La manovra renziana aumenta sicuramente i consumi, anche se non al 100% ma nella misura della propensione al consumo dello strato di lavoratori beneficiati, e ciò aiuta a contrastare la crisi produttiva?
3.2 In che misura gli 80 euro al mese vengono spesi in consumi interni? Quanti in importazioni, stanti i livelli di scarsa competitività dei prodotti italiani?
3.3 Quanti in pagamento di debiti cumulati nel passato? In tal caso la liquidità quali canali segue? Arriverà ancora una volta alle banche?
3.4 Quanto migliorerà la produttività dei prodotti e dei processi produttivi in seguito alla manovra renziana?
3.5 Ma la manovra renziana se non aumenta produttività o produzione di beni e servizi reali, potrà avere effetti inflazionistici?
3.6 In che misura la maggior domanda creata dai consumi riassorbe il sottoutilizzo dei fattori della produzione e, anche nel medio lungo termine, una volta strutturalizzata, quanto inciderà sulla domanda di beni capitali?
3.7 La copertura della manovra renziana in che misura potrebbe incidere sulla domanda globale se sarà ricercata attraverso una maggior fiscalità?

4. Approfondimento della terza domanda

Riprendiamo la domanda cui ci ha portato la constatazione che la manovra renziana non è sicuramente “classica”, per cui ci chiedevamo se la manovra fosse keynesiana. Per un certo aspetto la risposta è positiva. Keynes infatti si rendeva conto delle deficienze del mercato e della sua incapacità di raggiungere la piena occupazione dei fattori della produzione. In particolare appurato che solo una parte del reddito prodotto viene consumato e cioè rimesso nel ciclo produttivo, e che questa parte dipende dalla propensione al consumo, resosi conto che il mercato è incapace di riappropriarsi di questo reddito uscito dalla circolazione produttiva, auspica un intervento dello Stato che tramite una politica di interventi (meglio se produttivi ma anche inutili come la famosa fossa da scavare e poi da riempire) attivi il moltiplicatore capace (ma solo in presenza di fattori della produzione non interamente occupati) di ricreare le condizioni del pieno impiego. Ma una volta data una mano al mercato, Keynes fida sul fatto che il mercato stesso sia in grado di fare la sua parte e riavviare l’economia su un nuovo equilibrio. Quello che prospetta Keynes è un aiuto al mercato fermatosi per un guasto meccanico, ma in grado di ripartire alla grande dopo la riparazione del guasto. Keynes non era socialista, ciò che ci differenzia da lui sta proprio in questa mai negata superiorità del mercato anche se non più mitizzata come presso i liberisti storici.
La manovra renziana segue lo stesso filone logico keynesiano. Gettati cioè sul mercato 10 miliardi di € si lascia che sia il mercato a farne l’uso migliore certi che ci farà uscire dalla crisi. Facciamo questa iniezione “di sinistra” (perché è fatta a mezzo lavoro dipendente medio basso) e poi lasciamo che il mercato faccia la sua parte. Non mi risulta esista un modellino econometrico che simuli gli effetti di questa iniezione di liquidità. La risposta prospettata sembra una ovvia reazione alla constatazione che la domanda interna sia bassa: quindi alziamola.
La fiducia nella funzionalità del mercato ed il rifiuto di guidare l’intervento dello stato sulla base di un progetto predefinito ed un processo programmatorio, affiancano la logica renziana a quella keynesiana.

Dove invece le logiche divergono è sul tipo di intervento; Keynes basa il suo moltiplicatore sugli investimenti produttivi; la formula del suo moltiplicatore è la formula che determina l’aumento del reddito derivante dall’aumento negli investimenti, algebricamente M = dR/dI (dove M è il moltiplicatore, dR è la derivata del Reddito e dI è la derivata degli investimenti). Tale moltiplicatore può essere scritto anche in termini di occupati: M = dN/dL ( M lo conosciamo, dN è l’aumento dell’occupazione totale e dL è l’aumento dell’occupazione nelle imprese che producono beni capitali). Keynes, al contrario di Renzi, non considera la possibilità di mettere in funzione il moltiplicatore aumentando i salari, ma investendo in beni capitali.

Queste premesse ci aiutano ad impostare la risposta alla terza domanda; forse si poteva operare con più efficacia ed efficienza iniettando 10 miliardi di € in investimenti produttivi capaci di mettere in moto il moltiplicatore keynesiano. Se poi Renzi fosse socialista avrebbe anche programmato quegli investimenti avendo ben presente un simulato progetto di sviluppo, guidando il cammino su cui indirizzare (facilitare, indicare, spingere, compulsare) lo sviluppo del moltiplicatore avendo come risultato il massimo riassorbimento della disoccupazione esistente.
Certo che la strada “socialista” è difficilmente perseguibile senza che sia modificata tutta la politica europea. Ancora una volta il socialismo non è possibile in un paese solo (quand’anche, ma non è il nostro caso, lo si volesse instaurare nel nostro paese).

5. Approfondimento della quarta domanda

Introdotto così l’elemento Europa, possiamo porci la domanda finale, ovvero se questa logica (più che questa manovra) anche in vista del semestre europeo a presidenza italiana, possa essere la logica da portare in Europa come contrasto alla politica di austerity propugnata dalla destra europea.
Quando penso all’Europa, penso alla più grande opera realizzata dall’Europa fin dai primi anni della sua costruzione, un’opera che ci pone al primissimo posto nell’orizzonte mondiale e che parecchi anni a venire continuerà a mantenere questo primato. Penso al CERN al più grande laboratorio scientifico e di ricerca del mondo.
Questo mio ideale, va calato nella realtà concreta e tradotto in politica fattiva, ma senza dimenticare la filosofia della collaborazione e della solidarietà di quella grandiosa realizzazione. E calarlo nella realtà concreta ritengo che la “golden rule di Delors” sia l’obiettivo primo da perseguire in un’Europa non più dominata dai conservatori, hooveriani, monetaristi, liberisti. Ma la “golden rule” non va interpretata solo come una regola contabile di bilancio, bensì come un programma di largo respiro che punti a omogeneizzare i parametri fondamentali delle economie di tutti i paesi europei, ciascuno con le sua particolari vocazioni.
Insomma qualcosa di più elevato della logica renziana ma che presuppone la vittoria dei socialisti nelle prossime elezioni europee.

Ma l’Europa, guardata con occhio disincantato, è stata un’altra cosa. E’ stata quello che disse D’Alema quando riuscimmo, dopo le capriole di Prodi, ad entrare nell’Europa; disse D’Alema “Entrare in Europa non significa aver vinto l’incontro, ma significa essere stati ammessi a salire sul ring; ora comincia l’incontro”. E l’incontro senza i colpi bassi rappresentati dalle svalutazioni competitive, è diventato un vero confronto fra le competitività delle aziende europee. Molte imprese, ma poche in percentuale, si sono adeguate alla tenzone innovando e ricercando, hanno migliorato prodotti e processi produttivi, si sono imposte sul mercato ed hanno aumentato le esportazioni. Purtroppo però, il resto delle imprese italiane ha puntato sul basso costo del lavoro, non ha investito, si è marginalizzata e molte imprese sono entrate in crisi, hanno chiuso, sono fallite. Bancodipendenti come sono, senza capitali propri adeguati, appena le banche hanno chiuso i cordoni della borse sono entrate in crisi finanziaria irreversibile, molti imprenditori si sono suicidati.
Insomma siamo saliti sul ring e siamo stati suonati. Questa è l’Europa, uscirne vuol dire dichiarare fallimento e tornare alle svalutazioni competitive che privilegiano solo il nostro capitalismo straccione.


2 Maggio 2014

dal sito Socialismo


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