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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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mercoledì 4 febbraio 2015

QUEL POCO CHE MI ASPETTO DAL PRESIDENTE MATTARELLA di Norberto Fragiacomo





QUEL POCO CHE MI ASPETTO DAL PRESIDENTE MATTARELLA
di
Norberto Fragiacomo





Dal punto di vista formale la cesura è netta: all’oratoria debordante, “asiana” di Giorgio I e II (soprattutto del II) subentra lo stile secco, quasi disadorno di Sergio Mattarella – frasi brevi, richiami alla Costituzione, allergia agli svolazzi. Sui media ritorna in auge il termine “sobrietà” che, a conti fatti, non portò troppa fortuna ad un legnoso economista in loden cui tutti preconizzavano l’ascesa al Quirinale (ma chi è causa del suo mal pianga se stesso…). La somiglianza con Monti però finisce qui: malgrado le indiscusse competenze giuridiche – è stato professore di diritto parlamentare - il siciliano non ha mai nascosto di considerarsi un politico.

Mezz’ora di discorso – il minimo sindacale – inframmezzato da applausi: ogni forza politica, M5S compreso, mostra apprezzamento, sottolinea soddisfatta i passaggi più in sintonia con le proprie aspettative. Saprà unire l’Italia, Mattarella? Quantomeno – viene da chiosare – non la intontirà di chiacchiere come il suo predecessore.

Mi sono letto un paio di volte le dieci pagine del testo presentato alla stampa, cercando di comprendere i motivi di cotanto entusiasmo. Le analisi sono appena abbozzate, gli impegni generici, a parte uno: quello a rivestire il «ruolo di un arbitro, del garante della Costituzione». Nulla di nuovo in questa promessa: i manuali di diritto costituzionale descrivono con parole simili la funzione del Capo dello Stato. Dal 2008 in poi, tuttavia, la crisi si è sovrapposta alle regole, consentendo a Giorgio Napolitano di interpretare la parte di solista, più che di giocatore. Ecco, un ritorno al passato, alla norma certificherebbe – o invoglierebbe a pensare – che l’emergenza è alle spalle, che la tempesta è finita. Che l’approdo (non la UE, Presidente: la normalità) si avvicina. “I want to believe!” gridano, come altrettanti Fox Moulder, parlamentari di seconda fila, cronisti e cittadini angosciati, obliando che l’annuncio di una rondine non fa primavera e che la sovrastruttura politico-sociale incide solo marginalmente sulla struttura. La speranza che il nuovo Presidente ci conduca fuori dalla crisi è un’assurdità, ma chi sta per annegare si aggrappa a tutto, anche a un ramoscello.


Non sostengo che Mattarella venda fumo: le sue affermazioni secche, lapidarie (ma, lo ripeto, scarsamente impegnative) sfiorano problemi forse irresolubili. Dopo il ringraziamento a Napolitano, caloroso ma di prammatica, il neopresidente si sofferma sulla «lunga crisi, (che) prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese e ha messo a dura prova la tenuta del nostro sistema produttivo, ha aumentato le ingiustizie, ha generato nuove povertà, ha prodotto emarginazione e solitudine.» Il relatore scatta una drammatica istantanea del presente, adombra con schiettezza il rischio che «la crisi economica intacchi il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale della Costituzione» (tema centrale, da approfondire), ma poi si rifugia in formule standard, lodando l’ammuina dell’esecutivo nel semestre di presidenza europea. Il successivo richiamo all’articolo 3, secondo comma, della Costituzione (perseguimento dell’eguaglianza sostanziale come compito della Repubblica) fa da incongrua, stridente premessa al passaggio in cui viene sottolineata «l’urgenza di riforme istituzionali, economiche e sociali» che vanno in direzione diametralmente opposta (v. la cancellazione delle tutele giuslavoristiche, la riduzione degli spazi democratici a livello centrale e locale ecc.); la rinuncia a «generiche esortazioni a guardare al futuro», pur apprezzabile, è poco più di un espediente retorico (volendo essere ipercritici, si potrebbe definirla excusatio non petita), visti i successivi appelli alla «tenace mobilitazione di tutte le risorse della società», agli orizzonti di speranza e alle immancabili forze vive.

Al saluto agli italiani nel mondo e alla comunità straniera fa seguito un pacato elogio della politica che, portando tanti giovani e tante donne in Parlamento, ha mostrato una certa attitudine a rinnovarsi, anche grazie alla «capacità di critica, e persino di indignazione» espressa dal Movimento 5 Stelle (il riferimento è chiaro, anche se non esplicito).

Piuttosto ambiguo è invece l’accenno alla democrazia come conquista mai definitiva, le cui formule vanno adeguate al mutamento dei tempi (o alle “direttive” dei mercati?): che riformare la Costituzione serva sempre a rafforzare il processo democratico è tutto da dimostrare, e nelle attuali circostanze la prova si presenta assai ardua, se non proprio diabolica.

Assolutamente opportuno, più dell’invito all’approvazione di una nuova legge elettorale (vecchio pallino di Napolitano, che viene citato ancora una volta), è il richiamo alla «necessità di superare la deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo»: l’uso del sostantivo necessità e dell’aggettivo costante - scelti immaginiamo non a caso1 - lascia presagire un atteggiamento più severo rispetto a quello assunto dal predecessore, interessato più alla sostanza dei provvedimenti che alla salvaguardia delle forme.

Nel prosieguo il Presidente si diffonde sul significato (specialmente sociale) della Carta fondamentale, stigmatizza i guasti della corruzione e tocca con maestria il tema del terrorismo: «per minacce globali servono risposte globali – dichiara – la Comunità internazionale deve mettere in campo tutte le sue risorse». Il pensiero va irriguardoso alla partecipazione italiana, un quindicennio fa, alla guerra della NATO contro la Serbia: all’epoca il nostro ricopriva importanti incarichi di governo, e fu dunque corresponsabile di una scelta contrastante con il ripudio solennemente sancito dall’articolo 11.

Le conclusioni sono, dal punto di vista contenutistico, abbastanza scontate o, se preferiamo, politically correct: l’Unione Europea, già oggi «una frontiera di speranza» e di democrazia, deve evolversi politicamente, ma in essa «l’Italia ha trovato l’affermazione della sua sovranità (sic!)» - di conseguenza sarebbe antistorico rinchiudersi «nel fortino degli Stati nazionali» (cioè uscire dalla NATO, dalla UE e dall’euro).

Sintesi panglossiana: nonostante le sue storture e le tante ingiustizie, quello occidentale resta pur sempre il migliore dei mondi possibili, ce l’ha già spiegato TINA e oggi, davanti al Parlamento in seduta comune, lo ripete un Presidente ricco di sensibilità sociale, ma del tutto a suo agio in quella che Diego Fusaro chiama “la gabbia d’acciaio”.

Sia chiaro: non gliene faccio una colpa, né mi aspettavo un messaggio troppo diverso o addirittura rivoluzionario. Sergio Mattarella è un giurista di vaglia2 e un uomo misurato: confido che metterà un freno a certi eccessi governativi, vigilerà sul rispetto delle forme e, a Capodanno, terrà chiuse nel cassetto eventuali letterine strappalacrime.
Questo è ciò che mi aspetto da lui: non moltissimo in verità, ma i tempi sono grami.
In ogni caso auguri, signor Presidente, e si sforzi di tener presente ogni giorno che il volto della Repubblica è anche il suo.




NOTE

1 Così come non appare casuale la sottolineatura, poche righe più in basso, del ruolo di “arbitro” del Presidente e dell’esigenza che i giocatori collaborino.

2 Anche se l’aver fatto parte, negli ultimi quattro anni, della Corte Costituzionale non è necessariamente un titolo di merito, considerato che troppe volte, dallo scoppio della crisi, il collegio ha piegato le regole del diritto alle esigenze della Realpolitik.






La vignetta è del maestro Alessandro Federico






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