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sabato 5 novembre 2016

STORIA DI ARTURO VELLA, SOCIALISTA INTRANSIGENTE ED AUTONOMISTA di Giuseppe Angiuli





STORIA DI ARTURO VELLA, SOCIALISTA INTRANSIGENTE ED AUTONOMISTA
di Giuseppe Angiuli


La figura di Arturo Vella, uomo politico siciliano da sempre assimilato al filone massimalista del socialismo italiano, è stata attentamente ricostruita nella monografia a cura di Umberto Chiaramonte dal titolo Arturo Vella e il socialismo massimalista, edita da Piero Lacaita di Manduria.
Vissuto tra il 1886 e il 1943, Vella incarna la classica figura di dirigente politico a cui la storiografia non ha riservato un trattamento molto generoso, vista la scarsa ricorrenza del suo nome allorquando si passano in rassegna i nomi dei padri storici del socialismo e, più in generale, del movimento operaio del nostro Paese. L’oblio che circonda la storia umana e politica di Arturo Vella appare ingiusto ed immotivato, atteso che lo stesso ebbe a ricoprire un ruolo certamente importante nella decisiva fase del consolidamento della struttura politico-organizzativa del P.S.I. a cavallo dei primissimi anni del Novecento.
Nativo di Caltagirone, Arturo Vella fu il più giovane degli undici figli di un ben apprezzato maestro scalpellino originario di Siracusa, dalla cui professionalità nell’arte della terracotta avrebbe preso vita una rinomata impresa artigianale assai attiva dalla fine dell’ottocento nei lavori di rifinitura in edilizia. 
Dopo essere rimasto orfano di suo padre, all’età di 9 anni Arturo Vella si trasferì a Roma al seguito di suo fratello maggiore Raffaele e di alcune sorelle nubili: nella capitale, fin da adolescente, fu ben presto folgorato dall’ideale socialista, attorno al quale forgiò la sua esperienza politica militando dapprima nelle fila delle organizzazioni studentesche.

Nonostante sia passato alla storia come fautore del massimalismo, forse sarebbe più corretto affermare che la tendenza politica alla quale Vella aderì fin da giovanissimo fu propriamente quella del socialismo intransigente o integralista unitario, inteso come forma mediana ed altrettanto distante sia dal riformismo più moderato di Turati, Treves e Prampolini che dalle spinte centrifughe delle frange estreme del sindacalismo anarco-rivoluzionario, due tendenze entrambe assai incisive nei primi due decenni di vita del Partito Socialista Italiano. 
L'idea di socialismo a cui viceversa aderì Vella anelava a mantenere ad ogni costo coese e fermamente complementari tutte le diverse correnti e sensibilità del socialismo italiano. Neiprimissimi anni del novecento, allorquando Vella si avvicinò al P.S.I., la frazione intransigente era impersonata da uomini come Costantino Lazzari, Oddino Morgari, ed Enrico Fermi, quest'ultimo criminologo allievo di Cesare Lombroso.


 





Di indole ribelle, sensibile ad ogni sopruso ed ingiustizia sociale, Arturo Vella negli anni della giovinezza, dopo avere frequentato - senza peraltro pervenire alla laurea - il corso di matematica finanziaria presso l’Università della capitale, si dedicò anima e corpo all’impegno politico militante, profondendo generosamente tutte le sue energie nella costituzione della Federazione Giovanile Socialista Italiana (F.G.S.I.), di cui fu nominato primo segretario nazionale nel 1907 e nel lavoro giornalistico presso il periodico L’Avanguardia, da lui stesso fondato e di cui assunse presto la direzione. 
Tra il 1912 e il 1913 egli fu consigliere comunale a Roma nelle fila della minoranza. 
In consonanza con la maggioranza del suo partito, Vella sostenne con tutta la sua forza l’opposizione all’ingresso dell’Italia nel primo conflitto bellico mondiale e, pur avendo frequentato il corso per allievi sottoufficiali all’Accademia militare di Modena, nel 1918 fu recluso e di seguito processato con l’accusa di avere fomentato idee disfattiste tra i suoi commilitoni, ragione per cui subì una condanna complessiva a sette anni di reclusione, solo parzialmente scontata ed annullata soltanto grazie ad un’amnistia decretata dal re. 




Nelle celebri elezioni politiche nazionali del novembre del 1919, allorquando il Partito Socialista conseguì il massimo risultato elettorale di tutta la sua storia (con il 32,3% dei voti e 156 eletti), Arturo Vella fu eletto deputato nel collegio di Bari, mantenendo il suo scranno parlamentare fino al 1926
La scelta di candidarlo in Puglia fu assunta dalla direzione del partito una volta preso atto della decisa propensione alla lotta sociale da parte del proletariato agricolo pugliese nel primo dopoguerra e dell’alto numero di sezioni e leghe socialiste presenti in una regione che all’epoca fu considerata seconda per spirito ribelle soltanto all’Emilia rossa. 
E proprio a Bari, nel corso della cruenta campagna elettorale per le elezioni politiche del maggio 1921, Vella subì l’onta dell’aggressione delle squadracce fasciste guidate da don Peppe Caradonna da Cerignola, che lo costrinsero a rifugiarsi all’interno dell’Hotel Leon d’Oro (ancora oggi collocato nel piazzale antistante la stazione ferroviaria del capoluogo pugliese) intimandogli di lasciare seduta stante la città del suo collegio e costringendolo così ad annullare ogni suo comizio elettorale in Terra di Bari (1).

 Vi sono almeno tre ragioni per le quali il clima di oblio che ha circondato per tanto tempo la figura di Arturo Vella non rende giustizia ai suoi innegabili meriti di dirigente politico oltre che alle sue doti umane di fierezza, coraggio e dignità. 
 La prima ragione riguarda la sua tendenza insopprimibile a manifestare le sue posizioni in modo schietto e radicale, senza mezze misure, cosa che lo portò a subire inenarrabili vessazioni, sofferenze ed umiliazioni forse quantitativamente come pochi altri socialisti italiani, lungo un arco di tempo di circa 40 anni di ferma militanza nel P.S.I., nel corso dei quali non gli mancò di patire nulla, dall’arresto all’aggressione fisica, dal dileggio all’isolamento politico: fu proprio a causa della sua incrollabile tenacia che Vella cominciò poco più che ventenne a pagare un prezzo molto alto per le sue posizioni anti-militariste espresse dalle colonne del giornale L’Avanguardia, per finire poi, ancorchè già afflitto da una malattia nervosa condita da una grave depressione, a subire il suo ultimo arresto con traduzione nel carcere di Regina Coeli a Roma nel 1942, quando ormai il fascismo aveva quasi i giorni contati. 
La seconda ragione per cui non è giusto dimenticare la figura di Vella attiene al suo grande merito per avere saputo mettere in piedi, in pochi anni, una formidabile macchina organizzativa interna alla struttura giovanile del suo partito, alla cui dedizione egli sacrificò nei suoi anni migliori ogni altra aspirazione di vita, sia lavorativa che affettiva. 
La terza ragione che rende oltremodo inaccettabile l’oblio disceso su Arturo Vella è ideologica e concerne la sua proverbiale ed intangibile coerenza politica nell’avere sempre saputo difendere con le unghie l’autonomia dei socialisti italiani anche nella fase in cui l’ascesa del bolscevismo russo agiva come una macchina schiacciasassi nell’ambito della sinistra europea e italiana, non lasciando facilmente spazio a qualsiasi soggettività che fosse decisa a mantenersi indipendente dai diktat di Mosca. 









Se si volessero approfondire più compiutamente i motivi della scarsa riconoscenza che la storiografia ha riservato ad Arturo Vella, si scoprirebbe che essi molto probabilmente – ed altrettanto paradossalmente - costituiscono una conseguenza diretta dei suoi stessi meriti testè descritti oltre che della sua irreprensibile intransigenza morale, che lo rese assai scomodo e gli creò attorno numerosi nemici ed avversari politici, tanto a destra quanto a sinistra
 Nel Partito Socialista, dove pure per sette anni aveva continuativamente ricoperto la carica di vice-segretario al fianco di Costantino Lazzari dal 1912 al 1919, la sua appartenenza alla corrente massimalista lo avrebbe condotto ad un inesorabile isolamento politico dopo i fatti della nota scissione di Livorno del gennaio 1921 (allorquando vide la luce il P.C.I.), a cui seguì un definitivo logorio degli obiettivi degli stessi massimalisti rimasti all’interno del P.S.I. 
Com’è noto, al congresso socialista di Livorno del 1921 la mozione dei dirigenti massimalisti unitari (capeggiata da Giacinto Menotti Serrati e, per l’appunto, da Arturo Vella), pur riconoscendo l’innegabile valore politico della rivoluzione dell’ottobre russo, riteneva non immediatamente trasponibile l’esperienza della Repubblica dei Soviet in un Paese a capitalismo ormai avanzato quale era già l’Italia di allora. 
In quella precisa congiuntura storica, i maggiori meriti politici di Arturo Vella possono essergli ascritti proprio perché, accanto a Pietro Nenni, egli riuscì a salvare il socialismo italiano dal rischio della liquidazione e della scomparsa dalla scena politica nazionale allorquando il Partito Comunista d’Italia e l’Internazionale Comunista ne progettavano l’integrale assorbimento nelle proprie fila. 
E proprio facendo leva sulla sua intansigenza morale, Vella fu un indefesso difensore dell’autonomia del P.S.I. da Mosca e dal Comintern, di cui temeva l’egemonia totalizzante ed a causa di tale pervicace azione a difesa dell’agibilità politica e della originalità dell’esperienza storica del socialismo italiano ebbe forse a subire, tra tutti i socialisti autonomisti italiani, il più violento ostracismo da parte dei comunisti sovietici. In particolare, nel 1923 Grigorij Zinov'ev, all’epoca massimo dirigente sovietico dell’Internazionale Comunista e che poi sarebbe finito al patibolo per decisione di Stalin, addebitò proprio a Vella (oltre che a Pietro Nenni) la principale responsabilità per essersi opposto allo scioglimento del P.S.I. ed a entrambi rivolse alcune tra le più consuete e tristi accuse più volte apparse nel corso della storia del comunismo mondiale allorquando si è proceduto ad una scomunica, tra cui quella di dirigenti traditori del proletariato oltre che di agenti della borghesia.





Quanto ai rapporti di Vella col fascismo, per tutto il ventennio egli scelse di non abbandonare l’Italia, preferendo dedicarsi alla direzione dell’azienda familiare di ceramiche e terrecotte a Caltagirone ma nondimeno fu sempre considerato un pericoloso elemento sovversivo e per tale ragione gli toccò di essere costantemente soggetto ad una mai interrotta azione di sorveglianza e di pedinamento da parte delle autorità del regime, che lo ritennero, forse per la sua fibra morale, come uno dei più irriducibili avversari del governo del Duce. Anche a causa dell’accanimento poliziesco e repressivo da lui subito, teso ad impedirgli ogni forma di riorganizzazione dell’attività politica in patria, Arturo Vella andò progressivamente incontro ad un inesorabile declino psico-fisico che lo avrebbe portato alla malattia ed infine alla morte che giunse, per ironia della sorte, quasi in coincidenza con la caduta in rovina del Duce avvenuta il 25 luglio del 1943. 
Vella ebbe a definirsi socialista per fede e, restando per sempre coerente con tale convincimento valoriale, si spense a Roma il 31 luglio del 1943, circondato dal conforto di sua sorella Giovanna, riuscendo a sopravvivere appena di sei giorni alla caduta del regime mussoliniano. 

E’ sepolto al cimitero del Verano di Roma. 

A detta di Chiaramonte, autore della citata biografia politica di Vella edita da Lacaita, il merito principale del dirigente politico siciliano è stato quello di avere incanalato il movimento giovanile socialista nel solco della tradizione del socialismo italiano sottraendolo all’anarchismo e al sindacalismo rivoluzionario - teorie che in seguito sarebbero state soggette a derive estremistiche di varia natura – nonché di avere compreso che il tema dell’unità del proletariato era essenziale al successo della politica del socialismo italiano(2)

  
In una fase storica come la nostra, contraddistinta da un timido ed assai difficoltoso tentativo di riorganizzazione di una qualche forma di soggettività autonoma ispirata ai principi del socialismo storico, la figura di Arturo Vella merita sicuramente di essere ripresa e riesaminata affinchè illumini il difficile cammino degli attuali eredi di una tradizione politica che tanto lustro ha dato al nostro Paese ma che per troppo tempo è finita per restare tristemente relegata negli scaffali impolverati delle biblioteche.  

1 novembre 2016 



(1) Cfr. Simona Colarizi, “Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926)”, Edizioni Laterza, 1977, pp. 118-119. [

(2) Cfr. U. Chiaramonte, “Arturo Vella e il socialismo massimalista”, Piero Lacaita Editore, 2002, pag. 392.

1 commento:

Stefano Santarelli ha detto...

Il 02.05.2018 19:47 erica vella ha scritto:

Gentili editori,
Ho letto e molto apprezzato l'articolo pubblicato il primo Novembre 2016 sul vostro sito riguardante Arturo Vella, personaggio storico e membro della nostra famiglia.
A tal proposito, però, leggo che viene menzionato il padre, Sebastiano, come un, "maestro scalpellino". Sebbene, di fatto, questo non sia un errore, mi piace riportare un piccolo stralcio di ciò che un quotidiano di Catania scrisse su di lui illo tempore, che, forse, riflette bene la sua figura professionale:

"Nel cinquantesimo anniversario della morte dell'insigne scultore e architetto costruttore Sebastiano Vella, è stata celebrata nella storica e vetusta chiesa basilicale di S. Giorgio, tutta una parata a lutto, una solenne Messa funebre in suffragio dell'illustre estinto a cui Caltagirone deve l'erezione dei suoi più importanti e bei edifici ottocenteschi".

Sarà vostra libera scelta modificare o meno l'appellativo attribuito al padre di Arturo nell'articolo, ma mi sembrava giusto, ad onor del vero, farvi presente come Sebastiano veniva descritto all'epoca.

Ringraziandovi ancora per l'articolo, vi porgo cordiali saluti.
Erica Vella

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