di Norberto Fragiacomo
Concedersi un tour dei musei (nel caso specifico, triestini) è una maniera intelligente e piacevole di impiegare le ore libere del fine settimana.
Si scoprono cose nuove, se ne riscoprono altre che – complici lo scorrere degli anni e impieghi niente affatto stimolanti – avevamo purtroppo dimenticato: la dolorosa magia del pittore Arturo Fittke, l’internazionalismo (culturale) della borghesia giuliana dell’Ottocento, l’umorismo pungente che insaporisce studi preparatori e disegni del Tiepolo. A chi afferma, con arrogante superficialità, che “con la cultura non si mangia” vien facile rispondere, rimirando un ritratto di Veruda: non di solo pane vive l’uomo.
Ma questo lorsignori lo sanno, suppongo; forse non è per disinteresse o pigrizia mentale che, anziché spronare le masse alla conoscenza, preferiscono ammannirci pettegolezzi, partite e soap opera: programmi come “Un posto al sole” sono il degno coronamento di una giornata persa in ufficio tra scartoffie e lavori routinari. Veniamo ammaestrati a non pensare (e a consumare), per essere più agevolmente controllabili. Una doverosa postilla: poter “strisciare” il badge, in tempi di crisi, è già un privilegio…
Pessimismo gratuito? Prima di trinciare un giudizio, recatevi – ad esempio – al Museo Morpurgo, nel cuore della città neoclassica. Andateci sul serio, perché si tratta di un’autentica meraviglia: l’appartamento, ben conservato, di una ricca famiglia mercantile della Trieste austriaca, ricolmo di oggetti dorati, mobili biedermaier e neorinascimentali, stupefacenti tendaggi. Non si sa dove posare lo sguardo, conteso dagli stucchi del soffitto, dal pavimento decorato, dai quadri di pregio che aprono finestre su boschi e marine. Tocca notare, però, anche le sinistre crepe che feriscono le pareti: a quando un restauro, ci si domanda, fissando con preoccupazione un immenso e pesante lampadario bronzeo che minaccia di abbattersi su un tavolinetto. La gentilissima volontaria che guida questa “macchina del tempo” allarga le braccia: gli interventi di ripristino costano, e l’amministrazione lesina le risorse. Dopo le interminabili chiacchiere su Trieste “città turistica”, e le vane promesse fatte in campagna elettorale, adesso tutto tace… eppure, ci viene detto, non sarebbe poi così difficile attirare turisti e visitatori (pochi, al momento): basterebbe pubblicizzare adeguatamente i siti, e munirli di un punto di ristoro, magari – perché no? - di un negozietto interno.
Niente da fare: con la solita scusa della “carenza di fondi” – che maschera una colpevole ignavia - il personale è stato ridotto all’osso, precari giovani e preparati vengono rispediti a casa, e ci si affida a volontari che, per quanto entusiasti (e meritevoli della nostra riconoscenza), non riescono a tappare tutte le falle. Risultato: parecchi musei sono chiusi durante i fine settimana e la stagione estiva. Un bene prezioso viene sprecato, e la città senza industrie affonda nelle sabbie mobili del declino. Avessero previsto il futuro, probabilmente i grandi mercanti-mecenati sarebbero stati assai meno generosi con la nostra Trieste, governata da una classe politica che mostra scarsa cura per lasciti prestigiosi. Perle ai porci, insomma – e siamo convinti che, negli altri centri della penisola, la situazione non sia granché diversa.
Prima che il giardino d’Europa diventi una fogna a cielo aperto sarebbe opportuno intervenire: un Keynes italiano non avrebbe alcun bisogno di far riempire buche, investirebbe sulla bellezza.
Si tratta, evidentemente, di riqualificare siti già esistenti (rammentate le polemiche su Pompei?), valorizzare collezioni chiuse negli scantinati dei musei, apprendere l’abc del marketing turistico – visto che le presenze straniere sono in calo - e naturalmente assumere giovani capaci, scelti in base alle competenze e non ai cognomi, per poi adibirli a compiti socialmente utili e gratificanti. Possibile che in un Paese come l’Italia l’offerta di storici dell’arte superi la domanda? Possibile che un laureato a pieni voti debba accontentarsi – se gli va bene – di raggranellare pochi spiccioli in un call center, e un normalista sia costretto a cercare rifugio all’estero? Possibilissimo, in un sistema corrotto, nepotista e fisiologicamente orientato al profitto a breve termine, per non dire alla rapina – ma inaccettabile, dal punto di vista etico, della pace sociale, e persino da quello economico: buttare i soldi (e le professionalità) dalla finestra è indizio di follia.
Rilanciare il turismo non significa, ovviamente, risolvere i problemi attuali, che sono di una complessità straordinaria, ed in gran parte il frutto di decisioni politico-ideologiche scellerate; ma rappresenta pur sempre un piccolo passo nella direzione giusta.
Senza dubbio, il Comune di Trieste replicherebbe alla proposta con un sonoro no se pol, subito echeggiato (ma in lingua toscana) dai livelli istituzionali superiori. Tirerebbero in ballo chi il patto di stabilità – che forza gli enti locali a tenere i risparmi in cassaforte -, chi gli inevitabili stop eurogermanici, chi gli obblighi di pareggio di bilancio recentemente costituzionalizzati. Tralasciamo, per questa volta, la questione del famigerato articolo 81, che fa del Titolo I della nostra Costituzione carta straccia, ed ammettiamo che l’obiezione non è infondata: un sindaco che respingesse i diktat sui tagli di spesa, riduzione del personale ecc. rischierebbe di venir sbalzato dalla poltrona. Ma come conciliare questo divieto di crescita con gli stentorei appelli di FMI, BCE e compagnia bella a rilanciare l’economia?
Nella neolingua dei banchieri i concetti si mimetizzano meglio dei camaleonti: i Draghi della finanza, quando parlano di “crescita” intendono reaganomics, liberalizzazione totale. Pretendono lavoro senza diritti, privatizzazione delle prestazioni, regressività impositiva, sterilizzazione dell’intervento statale, abbandono degli anziani al loro destino. Il sogno è trasformare il mondo in una sconfinata corporation, retta damanager con il pugno di ferro.
E’ emblematico che uno dei punti qualificanti delle c.d. liberalizzazioni montiane (che “sorprendentemente” non hanno riguardato le banche) sia la deregolamentazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali, e che dunque un termine che rimanda all’idea di “libertà” generi, al contrario, nuove schiavitù. Era davvero indispensabile, di fronte all’imponente flessione della domanda registrata nei mesi recenti, costringere gli addetti ai supermercati a lavorare il 25 aprile e il primo maggio? No, se si ragiona da economisti seri; sì, se si pianifica – da sacerdoti fanatici del vitello d’oro capitalista – la “normalizzazione” dell’Europa sociale. Invece che a creare nuovi posti, si punta ad allungare gli orari di lavoro, a parità (nella migliore delle ipotesi) di stipendio.
Sarà lo sperimentato pluslavoro il carburante di una “crescita” limitata a ristrettissimi strati sociali? Hoc est in votis di chi, dall’alto dei grattacieli, scambia gli esseri umani per formichine, cui è ragionevole addossare carichi, non garantire basilari diritti.
Trieste, 30 aprile 2012
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