UN PICCOLO, SINGOLARE EPISODIO
di Norberto Fragiacomo
Una notizia singolare, per certi versi strabiliante, ha galleggiato per qualche ora sulla homepage di Repubblica online, lunedì 28 maggio.
Già il titolo attira l’attenzione (“Porta Portese, la folla difende l’ambulante fermato dai vigili”), ma è il contenuto ad essere “rivoluzionario”: stando alla cronista, la gente sarebbe intervenuta in difesa di un ambulante nigeriano, cui due vigili urbani avevano appena sequestrato la mercanzia. I poliziotti – ed altri giunti di rinforzo – sarebbero stati letteralmente accerchiati dalla folla, e si sarebbe acceso un parapiglia a stento sedato da agenti della polizia di Stato, accorsi dal commissariato più vicino. Nella colluttazione, i vigili avrebbero fatto ricorso allo spray urticante; il bilancio è di quattro poliziotti municipali (lievemente) feriti e di due arrestati, l’africano e un giovane trasteverino che – commenta la giornalista – “era diventato il Robespierre (?) della rivolta”.
Ora, che c’è di strano in tutto questo? Come mai il comandante del XVI gruppo, tale Giovagnorio, parla di “un’aggressione che non si era mai vista prima”? Capita persino nella “civilissima” (un tempo) Trieste che i tubi vengano malmenati – da automobilisti iracondi o, più spesso, da giovinastri educati alla violenza delle curve. Anni fa, la città si divise sulla proposta di armare i vigili… ma un’occhiata al video della “rissa” [1] – evidentemente girato con un telefonino, piuttosto confuso e privo di audio – lascia intendere che, nel caso in questione, le cose siano andate in maniera diversa: la videocamera non inquadra dei facinorosi, ma una normalissima folla di cittadini, chiaramente indignati.
La cronista ha raccolto la testimonianza di un passante: “hanno usato dei modi barbari, gli hanno buttato la merce nel cassonetto” – ed in effetti nel filmato si vedono i vigili avvicinarsi, con fare deciso, ai cassonetti dell’immondizia. Dunque, la reazione dei cittadini avrebbe un movente – per così dire – altruistico: andrebbe interpretata come una spontanea ribellione collettiva contro un’ingiustizia, contro un abuso di potere ai danni, per di più, di un emigrato, cioè di un “soggetto debole”, scarsamente tutelato dalla legge.
Usiamo il condizionale perché la carta si lascia scrivere, e la manipolazione giornalistica – magari in buona fede – è sempre in agguato; nondimeno, se l’episodio si fosse svolto nel modo descritto sarebbe piuttosto significativo. Indicherebbe che gli italiani si stanno stancando, e non sono più disposti a tollerare gli arbitri del “potere” impersonato, a Porta Portese, da funzionari troppo sbrigativi.
Rigurgiti di anarchismo? Crediamo che la spiegazione sia un tantino più complessa. I nostri connazionali hanno sempre percepito lo Stato e le sue leggi come un’imposizione - nemici da trarre in inganno, ove possibile. L’individualismo, lo scarso senso civico, il “familismo amorale” studiato dai sociologi e la propensione a violare le regole sono (anche) il risultato della secolare assenza di un sistema di governo efficiente e onesto. Gli italiani odierni sono i gemelli di quelli vanamente sferzati da Guicciardini, Manzoni e Leopardi; non è casuale che nelle loro abitazioni, anche modeste, regnino la pulizia e l’ordine, mentre le strade e i malmessi parchi pubblici sono terra di nessuno.
A differenza di altri popoli, maggiormente combattivi, si tende a sopportare, obbedire – ma lo si fa controvoglia, cercando di approfittare delle zone d’ombra offerte, di volta in volta, da un sistema mastodontico e farraginoso all’eccesso.
Ce ne vuole perché l’italiano si ribelli: quando accade è a causa di situazioni insostenibili (es.: il manzoniano assalto ai forni, le proteste contro la tassa sul macinato ecc.), che fanno sì che la rabbia, lungamente repressa, tracimi, ed abbia la meglio sulla paura dell’autorità. Ma quest’ultima deve essere sentita come debole, più screditata del solito, quasi ridicola nella sua impotenza.
L’Eklat [2] romano ci dice (direbbe) che forse siamo prossimi al punto di ebollizione. Indizi anche più gravi non mancano: la fiducia in tutte le istituzioni – non solo nei partiti politici – è ai minimi storici; gli elettori disertano le urne (“tanto le elezioni non servono a niente”, si sente ripetere), e se ci vanno votano per movimenti dichiaratamente “antisistema”, di rottura; vecchiette impomatate cianciano di tirare improbabili bombe.
In questa cornice, una resistenza a funzionari arroganti (siano essi vigili, esattori od altro) cessa di sorprendere, diretta com’è – in realtà – contro uno Stato sopraffattore che ha tradito l’impegno assunto di farci vivere non bene: dignitosamente. Ondate di licenziamenti sempre più facili, tagli alle pensioni e ai servizi stanno gettando nella disperazione un Paese da anni in ginocchio (il dramma della “quarta settimana” precede la crisi), che confusamente intuisce che i sacrifici attuali ne chiameranno altri, all’infinito, e che chi ci governa è solo il mastino alla catena di inconfessabili interessi sovranazionali.
Malgrado la loro quotidiana ridipintura ad opera di cortigiani solerti, la aureole dei tecnici non luccicano più: come per le pestilenze trecentesche, l’attesa degli effetti (della crisi) basta a creare panico, a stravolgere abitudini di vita, a far perdere ogni speranza nel futuro – proprio e dei figli. In aggiunta, la terra non smette di tremare sotto i nostri piedi, amplificando il senso di insicurezza e scoramento.
Le menzogne di Monti, Fornero e confindustriali sul sostegno ai giovani sbattono ormai contro un muricciolo di rassegnata incredulità, e non è sufficiente mandare in tivù ministri presentabili – come Fabrizio Barca – per riacquistare consenso. La banda dei tecnici non seduce più nessuno, a parte Azzurro Casini e il buon Bersani che, dopo aver smesso di essere comunista, non ha saputo diventare nient’altro.
Risultato: di fronte alla prima soperchieria la gente si sdegna, anzi si incazza; e riscopre, nella contestazione collettiva, quello spirito solidaristico, di gruppo, che pareva smarrito per sempre. Purtroppo per i reggitori, insomma, puntarci in faccia la luce del televisore e del computer non è servito a disinnescare del tutto quell’arma temutissima che chiamano cervello.
Ci vuole allora qualcosa di diverso: una paura nuova, anzi antica. Quella del terrorismo, che colpisce alla cieca, spargendo sangue innocente. La tragica morte della sventurata Melissa può giovare alla classe dirigente, anche se causata, in ipotesi, dalla follia di un lupo solitario. Presidente, ministri, servizi segreti hanno intonato in coro: attenzione, il terrorismo stragista sta per tornare! Gli anarchici metteranno bombe ovunque! Stringiamoci attorno allo Stato, nostro unico baluardo!
Potrebbe funzionare, ma non è detto. Certo l’apparizione, in tivù, degli spettri delle BR ha fatto correre a molti di noi un brivido lungo la schiena. Il sottoscritto, che a fine anni ’70 era un bimbo, ricorda nitidamente un sogno infantile: un’auto segue la corriera che scende in città, e dentro ci sono due uomini cattivi con la giacca a vento rossa. Aneddoto e descrizione possono far sorridere (d’altronde, nei giorni del rapimento Moro avevo sei anni!), ma il fatto che i terroristi si siano insinuati persino nei sogni di un fanciullo dà un po’ la misura dell’atmosfera tesa che si respirava allora.
Oggi però il vero spauracchio è la crisi, ed il conseguente impoverimento generale, con perdita secca di prospettive e diritti; inoltre, questo gridare “al lupo” da parte delle istituzioni è sguaiato e sopratono. Il terrorismo anticapitalista (perché di questo si parla) non ha mai fatto esplodere bombe nelle scuole, e la sua esistenza – allo stato – è meramente ipotetica, sia nella versione comunista che in quella tradizionale anarchica.
L’allarmismo potrebbe allora costituire il prologo di una militarizzazione delle città, volta ad impedire – come a Francoforte – qualsiasi forma di contestazione, anche pacifica. Prevenire è meglio che curare. Non ci pare un’ipotesi campata in aria: nella gestione delle piazze la polizia mostra sempre più spesso la mano pesante (ieri, 28 maggio, nei confronti degli studenti, domani si vedrà).
Nel paradiso liberalcapitalista governato da Washington, “scherza coi fanti (politici, opinionisti ecc.) ma lascia stare i santi (l’alta finanza internazionale e i suoi funzionari)”: dubitare dei dogmi non è permesso, ed ogni forma di dissenso è considerata sovversione.
La solidarietà fra cittadini, poi, potrebbe evolvere, in tempi brevi, in solidarietà tra sfruttati: la mala pianta va quindi estirpata sul nascere.
Il piccolo episodio di Roma è, insomma, un segnale, cui qualcuno – in alto – non è rimasto indifferente.
Trieste 29 maggio 2012
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