GRECIA: ALCUNI SCENARI
di Riccardo Achilli
Mentre anche l’incarico esplorativo per un nuovo governo dato a Tsipras fallisce, dopo il tentativo fatto da Samaras, e mentre anche l’ipotesi di formare un governo di larga coalizione che si appoggi su opportune scissioni (ovviamente pilotate) da Sinistra Democratica o da Syniza, o persino da Alba Dorata, sembrano evaporare ad ogni ora che passa, volendo fare qualche esercizio di scenario (pur non essendo bravi come Limes in questo), potremmo dire che si avvicinano due soluzioni possibili.
Il primo scenario: il governo di larga coalizione
La prima prevede che il terzo concorrente alla corsa suicida per l’incarico esplorativo, il socialista Venizelos, incaricato proprio quattro ore fa, riesca a far convergere su Nuova Democrazia e Pasok Sinistra Democratica, che è in fondo un partito europeista, sulla base di un programma che, a quanto sembra, sarà basato sul proseguimento della validità del memorandum per altri tre anni, il che significherebbe, fra tre anni, arrivare ad avere un Paese oramai morto e defunto.
Se si verificasse l'ipotesi di governo di larga coalizione, SD non dovrebbe limitarsi a chiedere di annullare fra tre anni il memorandum, perché sarebbe una ipotesi assurda, che finirebbe di distruggere quel poco che resta dell'economia e della società greca, e sarebbe dunque una capitolazione senza alcuna utilità, nemmeno per SD, che finirebbe arrostita elettoralmente esattamente come il Pasok o ND.
SD, come condizione di partecipazione ad un governo simile, dovrebbe chiedere, come minimo, la rinegoziazione del memorandum, ben sapendo che non vi sono spazi realistici per cancellare integralmente il memorandum stesso. In questo scenario, infatti, di cancellazione del memorandum o di uscita del Paese dall’euro non si può nemmeno parlare realisticamente, perché la trojka non concederebbe mai una simile possibilità
Il motivo per il quale la trojka non concederà mai la semplice cancellazione del memorandum, e quindi l’uscita immediata e diretta della Grecia dall’euro è semplice: una simile uscita equivarrebbe, in prima battuta, a scatenare una ondata speculativa contro l’euro stesso, una sua svalutazione selvaggia, una conseguente fiammata inflazionistica da importazioni in tutta l’area-euro e quindi un incremento rapidissimo dei tassi di interesse, che incorporerebbero il maggior premio per il rischio di investire in attività denominate in euro e la maggiore inflazione. L’incremento dei tassi di interesse finirebbe di soffocare la già asfittica domanda per investimenti europea, aggravando la recessione, e farebbe aumentare rapidamente il servizio del debito pubblico degli altri Paesi PIIGS, facendoli fallire uno dopo l’altro, conducendo al collasso del sistema bancario e finanziario europeo, con conseguenze disastrose sull’intero capitalismo mondiale. Di conseguenza, ND e Pasok, due partiti che si sono da tempo schierati con la borghesia finanziaria globale, non formerebbero mai un governo basato sulla cancellazione immediata del memorandum, e quindi l’uscita diretta ed immediata della Grecia dall’euro.
Se si verificasse l’ipotesi di governo Nd/Pasok/Sd in cui quest'ultimo partito riuscisse quantomeno a strappare una rinegoziazione delle scadenze degli obiettivi di finanza pubblica del memorandum, cosa succederebbe? Molto probabilmente che le obbligazioni finanziarie a carico del Governo greco contenute nel memorandum, a seguito di un negoziato fra autorità greche e trojka, verrebbero mantenute nel loro importo nominale, ma strutturalmente riscadenzate, diluendole in un arco di tempo molto più lungo, al fine di dare più respiro all’economia del Paese, continuando ovviamente a garantire, da parte europea, le erogazioni dei prestiti necessarie persino per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, in un Paese che è già in default tecnico, e che non riesce più a collocare sui mercati finanziari il suo debito (assieme magari ad alcune concessioni simboliche, come ad esempio un azzeramento degli interessi dovuti sulle tranche di prestito dell’Efsf). Ma in una simile ipotesi interviene una variabile ben nota in matematica finanziaria: il concetto di “attualizzazione”. Questo concetto è molto semplice: dice che un euro, oggi, vale di più di un euro fra un anno, perché nell’arco di un anno il valore reale dell’euro viene eroso dall’inflazione.
In altri termini, nell’ipotesi di riscadenzamento degli obblighi di rientro delle finanze pubbliche greche, si realizzerebbe di fatto una parziale riduzione degli obiettivi di riduzione del deficit e del debito pubblico greco, per la parte connessa alla svalutazione monetaria degli impegni diluiti in un tempo più ampio (in altri termini, una manovra finanziaria restrittiva da 10 miliardi fatta fra un anno ha un impatto economico e finanziario minore di una manovra finanziaria restrittiva da 10 miliardi fatta oggi). Per evitare tale evento, occorrerebbe aumentare il valore nominale delle manovre finanziarie e degli obiettivi di finanza pubblica annuali, di un’entità pari alla svalutazione. Ma al punto a cui siamo arrivati, dire al cittadino greco medio che il valore degli obiettivi di finanza pubblica da raggiungere viene aumentato, anche se solo in termini nominali, equivale a condannarsi ad un bagnetto nel Pireo con un blocco di cemento legato ai piedi.
Certo nel breve periodo una ipotesi del genere sarebbe sostenibile per i potentati finanziari borghesi: sicuramente, a seguito di un accordo del genere, vi sarebbe un contraccolpo sui mercati borsistici e sugli spread, ma di entità incomparabilmente minore di quello che si verificherà nell’ipotesi più probabile, ovvero quella di nuove elezioni anticipate per impossibilità di formare un nuovo Governo. Si verificherebbe probabilmente una certa svalutazione dell’euro, ma entro limiti accettabili e non catastrofici. Ed in fondo coerenti con il semplice fatto che una valuta, alla fine, deve riflettere la forza dell’economia sottostante, e che l’economia europea si è enormemente indebolita, perché ha scelto di terziarizzarsi, delocalizzando l’attività produttiva reale ai Paesi emergenti (questa è la vera causa della crisi attuale del capitalismo occidentale maturo: un capitalismo che si è andato terziarizzando, demandando l’attività produttiva di nuova ricchezza reale, cioè i processi di accumulazione veri e propri, ai BRIC, adottando sempre più le caratteristiche tipiche di un’economia parassita, che non crea nuova ricchezza reale, ma si limita a redistribuirla)
Ma, oltre ai vantaggi immediati, cosa significa accettare che un Paese rimanga nell’euro (anche se solo pro-tempore) riducendo in misura significativa il valore reale dei suoi obiettivi di risanamento dei parametri di finanza pubblica, di fatto sforando rispetto agli obblighi assunti in sede di memorandum e di fiscal compact? Significa di fatto azzerare con un colpo di spugna la dottrina monetaristica alla base dell’euro stesso, che in buona sostanza predica che un’unione monetaria può esistere soltanto se realizza una forte convergenza verso il basso dei parametri inflazionistici e di finanza pubblica dei diversi Paesi, convergenza che può ottenersi attraverso accordi di coordinamento fiscale rigidi, e con politiche monetarie targhettizzate soltanto sul mantenimento del tasso di inflazione al di sotto di una soglia molto bassa (2%) e quindi sostanzialmente restrittive. Se un Paese può restare nell’euro anche ripudiando allegramente una parte del suo debito (e di fatto, vale ricordare che una quota del debito estero della Grecia verso le banche è stata già di fatto ripudiata, con l’accordo fra il Governo e le banche creditrici per l’haircut) a quel punto sarà chiaro non solo agli economisti, ma anche a Giuseppe Rossi, di professione bagnino al Lido Belvedere di Camaiore, che il paradigma monetaristico, che comporta tanti dolorosi sacrifici sociali, non è affatto una medicina crudele ma inevitabile. E ciò distruggerà completamente, in prospettiva, la residua credibilità della trojka, della Bundesbank, dell’intera destra liberale europea. Ed aprirà necessariamente un ripensamento globale sulle basi teoriche entro le quali sostenere il modello europeo, ivi compreso quello monetario.
Si tornerebbe cioè all'inizio del dibattito teorico sulle aree valutarie ottimali, inaugurato da Mundell (1961) e da Kenan (1969) che non prevedevano che un'area valutaria comune, per sostenersi, dovesse reggersi su paradigmi monetaristici di controllo dell'inflazione e dei saldi di finanza pubblica, ma sull'integrazione commerciale dei Paesi membri, sulla elevata mobilità dei fattori produttivi (al fine di rispondere immediatamente a variazioni asimmetriche del rapporto fra domanda ed offerta in ogni Paese membro, che se non omogeneizzate tramite i flussi dei fattori produttivi, creano differenziali di inflazione distruttivi per l'area valutaria comune), sull'unificazione delle politiche fiscali e del lavoro, sulla creazione di meccanismi di solidarietà fra membri economicamente forti e membri economicamente deboli dell'area valutaria comune, in grado di uniformare i livelli di domanda, evitando shock macroeconomici asimmetrici che, ovviamente, non potrebbero essere risolti tramite la variazione dei tassi di cambio, essendovi una moneta unica.
Tale dibattito potrebbe poi eventualmente anche condurre a ritenere che, ove non vi fosse la volontà dei Paesi membri di unificare e coordinare le politiche fiscali e del lavoro, e di creare meccanismi di solidarietà interni, alla fine la cosa migliore da fare potrebbe essere quella di tornare alle singole monete nazionali.
In sostanza, tale dibattito condurrebbe ad un miglioramento complessivo delle politiche economiche, e ad una uscita dall'attuale tunnel di depressione che la risposta liberista alla crisi sta imprimendo all'intero continente.
Il secondo scenario: il possibile fallimento della democrazia
Rimane ancora probabile lo scenario di una nuova tornata di elezioni, fra un mese. Che probabilmente porterebbe, a meno di brogli elettorali condotti da una borghesia spaventata dalle conseguenze dell'ingovernabilità del Paese, ad uno scenario ancora più ingestibile di quello attuale: un aumento fino al 50% del tasso di astensionismo, che già in questa tornata ha raggiunto il livello eccezionale del 39%, una ulteriore flessione dei partiti pro-euro, in particolare del Pasok, già dilaniato dalle prime rese dei conti interne, con alcuni dirigenti che iniziano a chiedere addirittura se l'attuale vertice abbia delle responsabilità penalmente rilevanti nel caos greco, una ulteriore crescita numerica dei partiti favorevoli alla cancellazione del memorandum ed all'uscita sic et simpliciter dall'euro, come Syniza, o il KKE, o l'estrema destra (Laos e Alba Dorata), che però difficilmente, stanti le differenze interne esistenti, riuscirebbero a comporre un governo anti-euro ed anti-memorandum, a meno che uno dei due partiti tradizionali di governo (il Pasok o Nea Dimokratia) non cambi di 360 gradi la sua linea, abbracciando una visione anti-euro. Ma è un'ipotesi da escludere: Venizelos ribadisce, anche dopo la cocente sconfitta elettorale, la necessità di mantenere i patti sottoscritti dal Paese con la trojka, e Samaras ha già anticipato che, se dopo le prossime elezioni Tsipras cercasse di aggregare un blocco di sinistra anti-euro, troverebbe un blocco di destra pro-euro altrettanto determinato. La stessa base sociale e il radicamento borghese di tali partiti impedisce loro di cambiare linea politica.
Quand'anche Syniza, Sd, KKE e residui del Pasok riuscissero a fare fronte comune per un Governo anti-euro, dotato dei numeri per formare una maggioranza parlamentare, si troverebbero con ogni probabilità ad affrontare, con una scarsa compattezza fra loro, uno scenario di caos economico ed eversione politica, con l'estrema destra, ed i suoi settori piccolo-borghesi di riferimento, in ebollizione per la presenza di comunisti e socialisti radicali al Governo, la borghesia compradora nazionale terrorizzata dall'ipotesi di un governo di sinistra che apra un vero e proprio processo ai responsabili dello stato disastroso in cui versa il Paese, aggrappata alle sue rappresentanze politiche, ND in testa (e le dichiarazioni battagliere di Samaras, sopra ricordate, non sono casuali, ma costituiscono un preannuncio di dichiarazione di guerra) e la trojka che avrebbe un'arma semplicissima da utilizzare per mettere in crisi il governo di sinistra: il blocco delle tranche di prestiti dell'Efsf (prossimamente Esm). Tale misura, con un Paese che non può più ricorrere ai mercati finanziari per pagare le rate del debito pubblico che scadono, significherebbe un'alternativa drammatica per il governo anti-euro che dovesse formarsi: o il totale ripudio del debito pubblico, anche nei confronti dei piccoli risparmiatori nazionali, gettando migliaia di famiglie in una ulteriore miseria, o la paralisi completa del Paese, della sua amministrazione pubblica, di tutti i servizi essenziali. Con un sistema produttivo, tradizionalmente fragile, ed oggi in stato catatonico, che non potrebbe essere rilanciato per assenza di risorse pubbliche di investimento ma anche di prestiti bancari, che in una ipotesi di ripudio totale del debito e di rischio-Paese al massimo storico verrebbero semplicemente azzerati, oppure concessi a tassi di interesse stratosferici, ed insostenibili per le imprese richiedenti il credito.
L'uscita rapida, diretta e non pilotata dall'euro, conseguente al ripudio del memorandum, comporterebbe un crollo verticale della valuta nazionale non appena ripristinata, ed una conseguente fiammata inflazionistica che finirebbe di rovinare definitivamente chiunque percepisca un reddito fisso, disegnando uno scenario sudamericano di miseria.
In una situazione simile di totale caos economico, il Governo anti-euro cadrebbe rapidamente, aprendo la strada ad una svolta autoritaria, forse anche ad un colpo di Stato (e vale ricordare il fatto che il leader di Alba Dorata è un ex generale dell'esercito, quindi tale partito ha un radicamento preciso nelle forze armate). Si disegnerebbe cioè uno scenario di caos economico e sovversione politica di destra non dissimile da quello che caratterizzò il governo Allende.
Viceversa, se un eventuale governo Syniza-KKE-Sd-resti del Pasok cercasse di adottare un atteggiamento negoziale ed attendista nei confronti della trojka, per evitare le conseguenze di cui sopra, la rabbia e la disperazione popolare lo farebbero crollare seduta stante. Le condizioni oggettive in cui versa oggi la Grecia non sono tali da consentire a governi-Kerensky si sopravvivere anche un solo minuto.
Tirando le fila, l'ipotesi più probabile, ovvero il secondo scenario qui descritto (nuova tornata elettorale fra un mese), si tradurrà, con ogni probabilità, nella constatazione del fallimento del sistema democratico nel dare una risposta alla crisi: che non si riesca nemmeno dopo una seconda tornata elettorale a costituire una maggioranza di Governo o che si costituisca un Governo basato sul blocco anti-euro, le probabilità che i meccanismi della democrazia riescano a portare il Paese fuori dal bivio drammatico in cui si trova oggi sono minime, per non dire nulle.
I confronti con crisi politiche acute generate dalla bancarotta finanziaria del Paese, come ad esempio quelli che vengono fatti con l'Argentina nel 2001, reggono solo fino ad un certo punto, perché intanto in tale Paese, a seguito della crisi, si formò, alla prima tornata elettorale utile, un Governo effettivamente in grado di governare, dopo una fase transitoria di reggenza, seppur caotica, esercitata dalle massime autorità istituzionali, e quindi, a differenza della Grecia, i meccanismi democratici resisterono. Non vi fu cioè bisogno, come in Grecia, di ricorrere a due tornate elettorali consecutive, caratterizzate da tassi di astensionismo fra il 40 ed il 50%, per cercare di costruire una maggioranza stabile e in grado di governare. Inoltre, l'Argentina beneficiò della fortuna di una forte ripresa delle esportazioni, che fornirono le risorse per riavviare subito politiche per la crescita. Infine, e soprattutto, l'Argentina, a differenza della Grecia, non subiva i vincoli politici e commerciali derivanti dall'appartenenza all'Unione Europea. Siccome l'Argentina non si era legata ad un mercato unico con gli Stati Uniti, con la fine dell'aggancio alla parità fissa con il dollaro, poté continuare ad esportare, anche grazie all'appartenenza ad un blocco commerciale antagonista a quello nordamericano, ovvero il Mercosur. L'economia greca, invece, è talmente integrata con quella dell'Unione Europea, che se dovesse staccare il suo cordone ombelicale con la UE , per via dell'uscita immediata e non pilotata dall'euro (e delle prevedibili ritorsioni commerciali che la Germania le farebbe pagare, anche solo per proteggersi dalla competitività di costo derivante dalla svalutazione immediata della dracma) avrebbe enormi problemi a trovare immediatamente mercati di esportazione sostitutivi sufficientemente ampi da sostenerne la ripresa economica in tempi rapidi.
Conclusione
Quindi, se, come appare in questo secondo scenario, la democrazia fallisce, la possibile risposta può essere o autoritaria (cioè un colpo di Stato di destra, che mantenga il Paese sotto il diktat della UE e dei mercati finanziari con la forza) oppure rivoluzionaria. Tuttavia, il problema di una ipotesi rivoluzionaria non sta nelle condizioni oggettive (che ci sono tutte, ed anche di più, poiché oggi la Grecia è oggettivamente in una condizione pre-rivoluzionaria) e nemmeno nella questione del partito bolscevico, poiché il nucleo esiste già (l'EEK, che è un sincero partito rivoluzionario) e lo stesso KKE, pur essendo un partito di impronta stalinista, in una situazione di crisi rivoluzionaria non potrebbe tirarsi indietro, pena la sua stessa sparizione. Il problema è nell'assenza di solidarietà rivoluzionaria internazionale attivabile immediatamente in caso di esplosione di una rivoluzione. Chi aiuterebbe, dall'esterno, i rivoluzionari greci? Chi fornirebbe loro finanziamenti, armi, appoggi politici? E gli altri governi europei non reagirebbero incentivando il filo-occidentale leader turco Erdogan ad intervenire militarmente per soffocare una eventuale rivoluzione, accampando le tradizionali questioni di disputa territoriale greco-turca, su Cipro, piuttosto che sulla delimitazione dei confini del mare territoriale?
Senza un appoggio esterno rilevante, una eventuale rivoluzione dovrebbe poggiare sul sostegno dei militari e dei poliziotti. Chávez è arrivato al potere, e lo ha difeso dalla controrivoluzione, grazie al sostegno delle forze armate. Le forze armate e di polizia greche manifestano, in effetti, chiari segnali di insofferenza e nervosismo; qualche tempo fa, un sindacato di polizia è arrivato addirittura a minacciare di arresto i componenti della trojka attesi ad Atene per l'ennesima riunione ammazza-cavallo. Tuttavia, non è dato sapere se i militari ed i poliziotti, nel caso in cui la situazione imbocchi una piega rivoluzionaria, sarebbero disposti a stare dalla parte di una rivoluzione comunista e proletaria, oppure dalla parte di Alba Dorata, cioè di una svolta antisistema di impronta autarchica e fascistoide. Le tradizioni dell'esercito greco non è che siano molto incoraggianti al riguardo.
Gli scenari che si aprono per la Grecia appaiono oggi davvero drammatici e densi di incertezze, e la responsabilità principale è dei due partiti tradizionali, ND e Pasok, che hanno condotto il Paese a tale situazione, e che neanche in presenza di un verdetto elettorale chiarissimo come quello di domenica scorsa sono oggi in grado di formare un Governo in grado di rinegoziare la ristrutturazione della tempistica degli obiettivi di finanza pubblica connessi al memorandum (portando quindi ad un parziale calo, in termini reali, dell'impatto delle manovre finanziarie), restituendo almeno un po' di fiato alla Grecia, ed evitando una seconda tornata elettorale che sembra essere a tutti gli effetti il canto del cigno della democrazia, senza che peraltro si intravedano prospettive solide di successo di una eventuale risposta rivoluzionaria, a fronte di inquietanti prospettive di possibile svolta autoritaria.
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