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lunedì 27 agosto 2012

La decrescita vista dai borghesi, ovvero l’Italia Futura in mano ai trogloditi di oggi



di Lorenzo Mortara

Il movimento per la decrescita felice, il cui principale portavoce internazionale è Serge Latouche, autore di ottimi libri, appartiene all’enorme letteratura dei socialismi utopistici. Nonostante si spacci per chissà quale novità, la decrescita non è che l’ultima variante del mutuo soccorso, dei falansteri e di altre fantasticherie ottocentesche. L’origine sociale è piccolo borghese, questo aspetto già da solo basta e avanza per condannarla, perché la piccola borghesia non può andare né avanti né indietro, di conseguenza non ha futuro né che cresca con gioia né che decresca con somma tristezza e viceversa. Il passato è dei feudatari, il presente dei borghesi, il futuro dei proletari. Del regno rinsecchito e felice dei piccolo borghesi, non ci sarà mai traccia. Nondimeno, Latouche, proprio come i suoi padri, è animato da una genuina volontà di porre rimedio ai mali del capitalismo. Proprio per questo la sua opera, è comunque interessante e altamente istruttiva, persino per noi, se non altro per le sue accurate ricerche. Se però la decrescita non può resistere in un solo suo punto all’inesorabile e spietata critica marxista, restandone irrimediabilmente al di sotto, di fronte all’acefala critica liberale resterà sempre tre spanne al di sopra, intangibile. La critica liberale alla decrescita è tanto indecente quanto quella marxista è intelligente. Solo la volgarità della borghesia e dei suoi cortigiani (in questo caso cortigiane) non se ne rende conto.
A prendersela con lo spauracchio della decrescita, La Stampa, ha messo in questi giorni Irene Tinagli, 35 anni, economista all’università del Borbone di Madrid, consigliera sempre in materia d’economia per l’ONU e altri svariati enti perditempo, nonché nuova maschera dell’attuale Italia Futura, partito praticamente no-profit del profittatore Montezemolo, e di conseguenza statua al museo delle cere nella stanza dedicata alle eroine defunte per la nobile causa del PD, di cui è ormai un’ex delusa. Non male per una martire della meritocrazia e della lotta alla burocrazia, aver cominciato ad illudersi di far politica nel covo degli ex stalinisti...
Questa presunta talentuosa svenduta al profitto, critica dal profondo del suo realismo l’illusione romantica della decrescita. Tuttavia, piena di sé come è, non si accontenta di dire le solite sciocchezze in materia, così per dare peso alle sue banalità canzona pure il buon Ceronetti, un gigante al confronto, il quale dopo aver distinto i beni necessari da quelli fatti puramente per trarre profitto, invoca un ritorno ai primi per rimediare ai mali dei secondi. L’errore del Ceronetti sta proprio qua, nell’illudersi che esistano beni fatti per necessità e altri fatti per il profitto, quando in realtà, sotto il capitalismo, necessario e superfluo dipendono entrambi dal plusvalore. Una cosa necessaria che non produca profitto diventa immediatamente superflua, così come una cosa superflua che generi la più grande quantità di profitto diventa immediatamente una necessità assoluta. Irene Tinagli, ovviamente, non rimette a posto questo errore tecnico del Ceronetti, ma preferisce accusarlo di romanticismo in contrapposizione al suo pomposo realismo abbarbicato alle nuvole. Sarebbe bello tornare alla produzione artigianale «se non fosse che la distinzione tra beni volti alla soddisfazione di bisogni cosiddetti essenziali e beni commerciali non è così netta come si possa pensare (senza contare l’inquietante scenario in cui qualcuno decide cosa è essenziale per la gente e cosa non lo è)». Questo qualcuno che decide cosa sia essenziale è evidentemente l’intellettuale Ceronetti. Per la gleba del Capitale è già inquietante che a decidere cosa sia essenziale da produrre sia la piccola borghesia intellettuale, figuriamoci che grado di isteria raggiungerebbe qualora a decidere fossimo noi proletari, tuttavia se lo fa il mercato, e cioè la grande borghesia cretina, l’inquietudine sparisce e cede il posto all’euforia per aver conservato, libero come un fringuello, il commercio indipendente e autonomo della schiavitù.
Il realismo della Tinagli consiste tutto qua, nella fede in questa superstizione mercantile.
Dopo aver toccato il punto più alto della sua critica, quella fatta da Ceronetti al posto suo, Irene Tinagli scende a rotta di collo per il suo articolo, inforcando tutti i luoghi più comuni della vulgata liberista contro la decrescita. Dimostrando di non aver mai letto un solo rigo della letteratura «decrescente», la giovane economista ci spiega che un’economia di sussistenza non rinuncerebbe solo all’I-pad ma anche ai servizi sociali che lo Stato offre grazie alla crescita. Non solo, senza crescita, per i poveri sarebbe un disastro perché i ricchi un modo per arrangiarsi lo troverebbero sempre. A dimostrazione delle sue tesi, elogia la Cina che dal 1981 al 2001, con “l’apertura alla crescita economica”, come la chiama lei, ha dimezzato la povertà; cita il compagno burocrate Deng Xiaoping il quale ha sentenziato che «la povertà non è socialismo»; infine di fronte alla contraddizione cubana che ha osato crescere anche negli anni sessanta, si affretta a distruggere il miracolo economico dell’isola perché fittizio, in quanto foraggiato dalla vecchia Unione Sovietica. Morale (solita): è per il bene di noi proletari che i borghesi vogliono crescere, ed è sempre per il nostro bene che i loro profeti in gonnella cantano le loro omelie.
Se fossero vere le corbellerie sulla crescita, a crescita zero dovrebbe corrispondere un livello stazionario delle prestazioni statali di servizi, oggi quindi non avremmo grandi problemi. Nell’economia stagnante dell’abbondanza, anche i servizi dovrebbero ristagnare al livello elevato raggiunto. Invece, nonostante un PIL 6 volte superiore a quello di 60 anni fa, la crescita ha riportato indietro, a livelli ottocenteschi, il movimento operaio. Per una Cina che con l’apertura al mercato ha impennato la crescita dei Deng Xiaoping sulla miseria crescente di masse proletarizzate, c’è anche una Russia che ha tentato di fare la stessa cosa ed è collassata. I conti insomma non tornano finché verranno fatti col pallottoliere della crescita interclassista, un pallottoliere truccato e idealistico.
David Ricardo spiegava nel capitolo Macchine dei suoi Principi di economia politica e dell’imposta «che un aumento del prodotto netto di un Paese è compatibile con una diminuzione del prodotto lordo». Traduzione: la crescita di borghesi e redditieri è possibile anche in regime di stagnazione, purché la quota salari generali diminuisca. Ed è grosso modo questo che sta succedendo oggi su scala planetaria, perché la crescita non è che la crescita del profitto e se aspettiamo lei per far crescere i salari, possiamo aspettare per l’eternità. Per essere precisi, un briciolo di verità nella tesi della crescita necessaria per il miglioramento del proletariato, c’è. Infatti, con la crescita lorda, crescono anche i salari, qualora la crescita complessiva sia superiore alla loro decrescita relativa. La decrescita relativa dei salari è alla base della società capitalistica. Se questa viene compensata da una maggiore crescita produttiva allora anche noi abbiamo un beneficio per quanto relativo. Se per esempio 100 operai producono 1000 automobili, l’innovazione che consentirà la stessa produzione con metà del personale, porterà a una crescita dei salari qualora la loro decrescita relativa del 50% sarà compensata da un aumento della produzione superiore del 100%. In questo caso e solo in questo caso, Capitale Rendita & Lavoro avranno tutti un beneficio netto in termini assoluti, anche se il Lavoro al prezzo enorme della sua perdita relativa. L’idea che solo la crescita possa aumentare i salari, è appunto la credenza mitica che la crescita assoluta del PIL possa compensare all’infinito la perdita relativa del monte salari. Se Latouche è un romantico illuso, Irene Tinagli e i borghesi non sono più nemmeno capitalisti illuminati dalla ragione, essendo ormai regrediti ad oscurantisti più o meno medioevali.
La perdita relativa della quota salari, impone all’economia capitalistica una crescita geometrica nel tentativo di recuperarla. D’altra parte la crescita geometrica tende a ridurre gli sbocchi necessari per il suo smaltimento, cioè a creare ostacoli sempre più grandi sul suo cammino. Ne viene che la tendenza storica del capitalismo è quella di dimezzare costantemente la crescita a fronte della necessità per i salariati di vederla raddoppiata. Se nel trentennio glorioso la crescita si aggirava attorno al 6%, prima della crisi del 2008 faticava a superare il 3%. In futuro si ridurrà ancora. Già nel 1991, lo ricorda Latouche nel suo Come sopravvivere allo sviluppo, era stato calcolato un obbiettivo 10% come traguardo minimo di crescita annuale per mantenere tutti, poveri e ricchi, nel benessere favoloso della società del profitto. Questo significa, a grandi linee, che se ieri ci voleva il 10% di crescita annuale per togliere dalla miseria tre miliardi e mezzo di persone, metà della popolazione mondiale, oggi al di sotto del 20% c’è il rischio di scaraventarci anche l’altra metà. Ergo la crescita per il bene di tutti è pura ideologia borghese. E fin qui lo sapevamo. Sbugiardare l’ideologia borghese della crescita non significa però cedere alle lusinghe dell’ideologia piccolo borghese della decrescita. Nella società attuale, capitalistica, sono i borghesi quelli che devono decrescere, e possono farlo solo se crescono i salari. Guai se anche un salariato volesse decrescere. Ci manca solo questo! Un salariato che vuole decrescere, è solo un operaio che vuol aumentare lo sfruttamento. I salariati invece devono voler crescere smisuratamente. Tuttavia, la crescita dei salari non ha bisogno necessariamente di una crescita generale. Così come i profitti possono crescere anche in caso di calo di prodotto lordo, alla stessa maniera possono farlo i salari, purché cali il profitto. Va da sé che un aumento dei salari farà verosimilmente ripartire la crescita generale. Ma in questo caso le difficoltà verranno dallo sciopero bianco del Capitale. Più o meno come sta avvenendo in Venezuela, Paese che, con la forte ridistribuzione del reddito che ha portato il movimento bolivariano, dimostra in maniera lampante come al capitalismo anche la crescita stia stretta quando non vada a beneficio del profitto ma dei salari.
Quello che la Futura Itaglia delle Irene Tinagli vogliono con la crescita, è la crescita del capitalismo. Noi invece vogliamo la sua decrescita come premessa del suo azzeramento. Solo così possiamo avere grandi speranze di crescita. E solo così possiamo darne anche qualcuna a Latouche e ai “decrescitori”. La decrescita felice è infatti impossibile, ma la crescita felice, cioè il ricambio organico con la natura, con una produzione che aumenti o diminuisca, con tutti i servizi sociali annessi, in perfetta armonia con l’ambiente circostante sarà certamente possibile con il comunismo. Perché la miseria non è il socialismo, ma la ricchezza di Deng Xiaoping lo è ancora meno, perché non è altro che il capitalismo. E per la nostra crescita, in fondo, ci vuole la crescita del marxismo, la nostra sola vera ricchezza.


Stazione dei Celti
Domenica 26 Agosto 2012 

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