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giovedì 5 giugno 2014

PERCHE' OGGI NON CI SONO LE CONDIZIONI PER UN PARTITO UNICO DEL LAVORO di Riccardo Achilli




PERCHE' OGGI NON CI SONO LE CONDIZIONI PER UN PARTITO UNICO DEL LAVORO 
di Riccardo Achilli



Ritengo che considerare il PD una base per un partito unitario del lavoro, in uno scenario tendenzialmente bipartitico, quindi implicitamente guardando al modello del partito laburista britannico, sia un errore teorico, che come tutti gli errori teorici ha anche implicazioni pratiche. Il laburismo ha, evidentemente, al suo interno, anche una destra blairiana, oltre che posizioni molto più a sinistra, addirittura di sinistra radicale, così come posizioni neo-proudhoniane che vagamente aleggiano nel Blue Labour. Tuttavia, questa ricchezza di posizioni trova una radice culturale comune, una identità storico-politica cui tutti, perlomeno formalmente, aderiscono. Vorrei ricordare che lo "statement" che viene inviato ai nuovi iscritti al partito laburista, così come modificato da Tony Blair, dice che "The Labour Party is a democratic socialist party", e che lo stesso Blair, esponente di destra del partito, ha dichiarato (2000) "My kind of socialism is a set of values based around notions of social justice" (Adrian Hastings, Alistair Mason, Hugh Pyper. The Oxford Companion to Christian Thought. Oxford University Press). Blair non si sognerebbe mai, come hanno fatto alcuni eurodeputati democratici responsabili di aver bocciato il Raporto Estrela, di sostenere battaglie antiabortiste degne del peggior oscurantismo clericale.


Viceversa, nel PD abbiamo Cuperlo, cioè teoricamente l'esponente della sinistra interna del partito, che si rifiuta categoricamente di usare la parola "socialismo", ed ha costruito una mozione congressuale in cui la parola stessa si ritrova soltanto quando doveva citare il Pse (quindi per scelta obbligata, cfr. http://www.linkiesta.it/mozione-cuperlo ).

Questa differenza fondamentale non è casuale. Dipende proprio dall'assenza di una identità culturale di riferimento all'interno del PD. A differenza del New Labour, che ha innovato verso destra il suo messaggio politico, mantenendo però un aggancio alla sua identità storica socialdemocratica, il PD è nato per distruggere, e rifondare, le culture politiche di partenza, ovvero quella socialdemocratica degli ex Ds e quella cattolico sociale, dossettiana, degli ex Margherita. Ciò ha consentito di ospitare dentro il partito esponenti, come Follini o Fioroni, o la Binetti, che non hanno a che vedere nemmeno con la visione dossettiana del cattolicesimo politico. Oppure, con Veltroni, esponenti del peggiore e più retrivo capitalismo italiano dalle belle braghe bianche.

Il PD nasce, quindi, volontariamente libero da radici storiche, ed anzi affrmando orgogliosamente che la sinistra è morta, per trovare un compromesso interclassista mobile, che segua cioè dinamicamente le evoluzioni di una società deprivata di una visione del suo futuro, ed impegnata, a seconda delle congiunture storiche o economiche, a godersi il frutto del benessere, oppure a sottomettersi a processi di ristrutturazione sociale neoliberista, come nella fase attuale. Persino il riferimento storico a Berlinguer è distorto, parziale, recuperando soltanto alcuni aspetti, e nemmeno i principali, del suo pensiero, come la "questione morale" (mi sia consentito: interpetata peraltro in modo pessimo dai suoi presunti eredi) o la prospettiva di dialogo con la demcorazia cristiana, in una logica di solidarietà nazionale, in una fase sotrica peraltro molto speciale, in cui la società era dilaniata da fenomeni di lotta di classe talmente intensi e per certi versi inediti, e non correttamente ocmpresi dalle classi dirigenti di allora (ivi comprese quelle comuniste) da aver generato sottoprodotti pericolosissimi come il terrorismo. Queste ricostruzioni storiche di Berlinguer ignorano, volutamente, il fatto che questione morale e solidarietà nazionale fossero inserite dentro un quadro ideologico e programmatico di assoluta autonomia, di profondo cambiamento, di originalità, nella ricerca della Terza Via, nell'esperimento, poi fallito, di eurocomunismo. Ed ignorano completamente il secondo grande filone culturale della storia della sinsitra italiana, ovvero il socialismo, che fa comodo identificare soltanto con i Mario Chiesa, buttando a mare bambino ed acqua sporca, e facendo torto persino al pensiero di Craxi, che al di là delle degenerazioni politiche, fu un pensiero, condivisibile o meno, di forte rinnovamento della sinistra italiana.

In questo senso, così come un albero senza radici, o con radici fragili, non può che oscillare a tutti i venti, il PD oscilla dalle fiere rivendicazioni bersaniane (cui io, lo dico francamente, ho sempre creduto: ho sempre creduto nella buona fede di Bersani) di rappresentanza delle ragioni del lavoro, sia pur in un quadro di compromesso con il capitale, all'approvazione della legge-Fornero e del decreto-Poletti, eminentemente provvedimenti ostili al lavoro. Mentre le posizioni più radicali vengono progressivamente isolate, bersagliate e derise, fino a svuotarle. Chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale e conoscenza di quel partito mi dica se è vero o no che anche solo proporre un'analisi di classe della società italiana, in qualsiasi consesso di quel partito, non esponga a dileggi e sorrisetti di sufficienza. Che usare il termine "socialismo" non esponga a sguardi di sospetto (infatti il buon Cuperlo se ne guarda bene).

In questo senso, l'idea di entrare dentro il PD in questo momento, per farne un partito del lavoro, è un suicidio assistito. Significa isolarsi e spegnersi rapidamente per assenza di interlocutori. Evidentemente, la vittoria elettorale di Renzi, che ha "de facto" zittito ogni forma di opposizione interna, prosciuga ulteriormente ogni possibilità di contare (il massimo è Fassina che, non mettendo più in discussione la leadership di Renzi - è l'uomo giusto al posto giusto - invita Renzi, non credendoci neanche lui, a resistere alle raccomandazioni di politica economica della Commissione, evidentemente pronto ad elogiarlo per qualsiasi concessione, del tutto insignificante, che egli comunque strapperà, in un consesso europeo terrorizzato dall'avanzata degli euroscettici).

Paradossalmente, sarebbe stato meglio entrare nel PD prima delle europee, quando ancora c'era un dibattito interno, e non dopo, quando tale dibattito è stato anestetizzato. E quando Renzi ha fagocitato milioni di voti provenienti da Monti, Casini e Berlusconi. Voti di destra, che evidentemente reclameranno una linea politica ben precisa da parte di Renzi. Non è un caso se Monti ha dichiarato che il Governo-Renzi sta proseguendo esattamente sul solco del suo stesso Governo.

Evidentemente, una CGIL spaventata dallo spettro di una esclusione dai tavoli di concertazione, che ne ridurrebbe prestigio e visibilità, ed evidentemente ne renderebbe anche meno sostenibile la tenuta delle sue burocrazie interne, abbandona la linea barricadiera della  Camusso del Congresso di qualche giorno fa (quando ancora i sondaggi ci parlavano di una vittoria difficile del PD, che avrebbe indebolito Renzi) per abbracciare la volontà monopartitica di Renzi, esposta 24 ore prima dell'intervista della Camusso stessa al Corriere. Probabilmente il sindacato, che è incapace di penetrare dentro i nuovi bacini del disagio lavorativo, ed in particolare dentro quello della precarietà, avrebbe bisogno di riflettere profondamente sulle implicazioni di ritrovarsi protagonista su troppi tavoli di concertazione, su argomenti che spesso con la difesa dei lavoratori non hanno niente a che fare, e che probabilmente finiscono per indebolirli, quando poi devono andare a tutelare i lavoratori stessi. Può darsi che una riflessione interna circa il modello sindacale più efficace nel contesto odierno del mercato del lavoro, piuttosto che su temi politici, come le fusioni di partiti, che per definizione non sono di competenza del sindacato stesso, aiuterebbe molto di più la CGIL ad espandere la sua capacità di influenza, a dire il vero piuttosto modesta, visti i bocconi che da dieci anni ingoia. 

Entrare oggi nel PD significa rinunciare a dare rappresentanza a 1,4 milioni di elettori del PD che si sono astenuti alle recenti europee, e che se non hanno votato per il PD, evidentemente cerca una ragione politica che non trova nel PD e nemmeno in una SEL che, con deprecabile incertezza, si è schierata con Tsipras anziché cercare di raccogliere un voto favorevole al Pse che però rinunciasse ad asprimersi attraverso il PD. 1,54 milioni di astenuti provenienti dal PD è un bacino enorme, superiore a quello della lista Tsipras, composto da chi non ne può più dei metodi e della politica di Renzi. Cui è doveroso, moralmente prima ancora che politicamente, dare rappresentanza, prima di pensare di tornare a casa-base.

Certo che bisogna discutere con il PD. Certo che bisogna trovare alleanze con il PD. Certo che dentro il PD esiste una base di militanza e di dirigenza indubbiamente progressista. Ma tale relazione va costruita da posizioni di autonomia, non certo sciogliendosi. Chi si scioglie, per definizione, non parla più. Lo abbiamo visto con il PSI nenciniano, che dentro il "patto federativo" con il PD, di fatto un percorso di annessione, non conta assolutamente niente. Non è nemmeno considerato una corrente interna con cui fare i conti.  Quando e se sarà stato possibile rafforzare, dall'esterno, in un rapporto dialettico (che per definizione implica due soggetti, altrimenti è un monologo) le posizioni progressiste di quel partito, sarà anche possibile pensare a forme di fusione. Ma oggi, per i motivi che esposto, sarebbe un errore fatale.


3 giugno 2014

1 commento:

Matteo Volpe ha detto...

Ancora si coltiva questa illusione di spostare a sinistra l'asse del PD. Il PD è un partito di destra e della destra dell'austerità che oggi domina in Europa. Come può pensare ad alleanze, con questa forza della reazione neoliberale, chi si dice di sinistra, mi è incomprensibile. Peraltro da una posizione nettamente minoritaria e quindi finendo per diventare inevitabilmente una corrente esterna del Partito Democratico.
Si guarda ancora al PD, in fondo, come l'erede del PCI e ci si illude che possa rappresentare una forza progressista. Non si comprende come esso sia in realtà il più solido baluardo del neoliberismo in Italia e che una sinistra degna di questo nome dovrebbe combatterlo su tutti i fronti, in Europa (come i suoi cugini del PSE), in Italia a livello nazionale come nelle singole regioni e nei territori.

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