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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 24 giugno 2014

UN CONGRESSO E QUALCHE RIFLESSIONE di Norberto Fragiacomo



UN CONGRESSO E QUALCHE RIFLESSIONE
di Norberto Fragiacomo




Congresso regionale del PRC a Monfalcone: rispondo all’invito, e mi presento in sede alle nove in punto. Ci sono già Roberto Antonaz, ex assessore e consigliere, e una compagna della Segreteria nazionale, ma dei delegati neppure l’ombra: si scoprirà che l’orario di inizio era stato “fissato” alle nove e mezza/dieci. Avendo il treno per Trieste a mezzogiorno e venti, non gioisco della notizia.
Pian piano arrivano tutti, e si comincia. Franzil, segretario uscente, fa la sua relazione – un discorso piano, facile da seguire, senza acuti. Si toglie qualche sassolino dalla scarpa, legato all’esclusione della lista dalle regionali 2013 e a velate accuse d’intelligenza con la Serracchiani: dov’è andato a finire lo spirito di comunità? Peter Behrens, a capo della Federazione triestina, approfondisce il tema dei rapporti tra PRC e Lista Tsipras: inutile fingere che siano idilliaci, su questioni concrete e ineludibili – come la TAV sul Carso – potrebbe presto consumarsi una drammatica rottura.

Il compagno Antonaz, del Direttivo nazionale, vola più alto, analizzando la situazione politica e sottolineando la deriva a destra del PD, rispetto al quale Rifondazione deve proporsi come forza alternativa. L’intervento propone spunti interessanti, colti in minima parte dagli oratori successivi: pare di assistere a un referendum pro o contro la Lista Tsipras, anche se una compagna goriziana richiama l’attenzione sulla prossima riforma sanitaria regionale. Il PD resta il convitato di pietra, ma c’è spazio per schermaglie tra correnti: pietra dello scandalo è la sigla IAL (la A sta per apprendimento o addestramento? Per “apprendimento”, ci rassicura internet, ma a una combattiva delegata la cosa non va giù: ha costruito il suo interminabile monologo sulle fondamenta, purtroppo ballerine, di un’equiparazione terminologica tra uomini e cani).
Il tempo è corso via, non tutti hanno rispettato la consegna degli otto minuti (scelta non censurabile, direi: a un congresso si discute), così rinuncio a prendere la parola: il Venezia-Trieste non aspetta, sebbene la sede sia a due passi dalla stazione.
Cosa avrei detto? Niente di che, stavolta: non è mio costume abusare dell’ospitalità, e su molte delle affermazioni udite mi trovo d’accordo. Qualche battuta sul PD, però, mi pareva doverosa. Che il renzismo sia di destra è ormai chiaro a tutti, fuorché agli ingenui e alle fave “miglioriste”: le coordinate culturali e politiche del decisionista fiorentino sono dettate dal neoliberismo, il piglio con cui affronta tematiche, controversie e opposizioni è tipico dell’autocrate in erba. Doppiamente di destra, quindi. I fatti, che possono più delle parole (e sono meno opinabili), ce lo confermano: Matteo è allergico al contraddittorio, pretende pieni poteri di governo, è ostile alla dirigenza – che vuole asservire – e alla pubblica amministrazione – che intende di fatto privatizzare, unitamente a quel che resta del welfare; il suo modello di lavoro è un precariato senza diritti. Stravede per Marchionne e Briatore e, concentrando le proprie mire sulla politica, risulta assai più pericoloso di Berlusconi: sa, infatti, che la sua carriera è legata alla benevolenza dei finanzieri. Il fatto che il “vecchio PD”, dai finti turchi a Cuperlo, si sia prontamente messo sull’attenti attesta, però, che il cambiamento rispetto al passato è solo apparente: l’humus che nutre Renzi e la c.d. “sinistra interna” è il medesimo, non c’è reale differenza tra i liberisti riluttanti (Bersani, Fassina ecc., che un anno e mezzo fa si inchinavano agli house organ del FMI) e il nuovo padrone, convinto sostenitore degli interessi delle lobby economiche. Se in futuro si faranno la guerra (improbabile, nel breve periodo) sarà per questioni prosaiche, non certo per divergenze legate a visioni contrapposte della società. Quanto a Migliore e compagnia, la pattuglia di voltagabbana non merita manco un cenno – al limite, quei nomi di carneadi compongono l’epitaffio della zigzagante linea politica di Nichi Vendola.

Preso atto dell’appartenenza del PD all’area della destra economica, vorrei soffermarmi su una formula ieri ascoltata più volte: il PRC si pone “alla sinistra del PD”. Se è per questo anche di Forza Italia e della Lega, ma nessuno sente il bisogno di precisarlo: perché? Perché in troppi, a sinistra, sono prigionieri del passato: visto che Bersani, Fassina e co. vengono come noi dal PCI – si seguita, per forza d’inerzia, a pensare – essi rimangono in qualche maniera “compagni”. Logicamente l’argomento non vale nulla, altrimenti dovrebbe applicarsi anche ad ex come Ferrara e Sandro Bondi, che al contrario sono disprezzati – in sintesi, l’attaccamento alla “ditta” resta un freno, perché collocando il PD in un limbo di centro-sinistra progressista si falsa, involontariamente ma pericolosamente, il dato reale. Per poterlo combattere bisogna anzitutto riconoscere il nemico, e allora espressioni – pur corrette – come “alternativi” al PD andrebbero rafforzate: un partito comunista potrebbe definirsi “concorrente”, meglio ancora “incompatibile” col renzismo, e con la congrega di sigle che, all’Europarlamento, usurpano il nome di “Socialismo europeo”. Zero vale zero: malgrado gli stili diversi, c’è piena sintonia fra Renzi, Schulz e il ridicolo Hollande. Destraccia, che difatti appoggerà Juncker.

Casa nostra, cioè Lista Tsipras e PRC. Ieri avrei evidenziato qualche ragione di ottimismo: il 4% conquistato è una base di partenza tutt’altro che illusoria, perché chi ha votato Un’Altra Europa ha compiuto una scelta ponderata, non inseguito una moda. Alcuni ritengono negativo il fatto che Tsipras si sia affermato quasi esclusivamente nelle città medio-grandi, ma io ribalterei il ragionamento: il modesto risultato conseguito nei paesi e nelle campagne – cioè dove non si è riusciti, per ragioni pratiche, a far arrivare il messaggio, viste ristrettezza dei tempi e scarsità di risorse - va considerato un’opportunità e una sfida. Insomma, ci sono notevoli margini di miglioramento. 

Personalmente, giudico positiva anche la decisione di Barbara Spinelli di riprendersi il seggio, “retrocedendo” Furfaro di SeL: la sfiducia nei confronti di questo partito – stigmatizzata dall’eletto Curzio Maltese – era ben fondata, come hanno provato eventi recentissimi. Il problema a questo punto non è tanto l’opinione di Maltese che, con sorprendente cecità politica (sorprendente perché il nostro si occupa della materia da decenni!), auspica un’alleanza con gli pseudo socialisti del PSE, quanto la posizione di Alexis Tsipras, leader incontrastato di Syriza e della GUE. Il greco punta ovviamente a governare il suo Paese, ma non ha i voti necessari – pertanto, è in cerca di alleanze. Tenuto conto della protervia del KKE nel rifiutare ogni contatto e del crollo di Dimar (partito, peraltro, ambiguo e poco affidabile), Tsipras si vedrà costretto a dialogare con i rimasugli meno compromessi del Pasok, che però fa capo al PSE. Questo spiega l’avvicinamento a Schulz, ma per avere – in comodato precario – la Grecia si rischia di perdere l’Europa, dove i “socialisti” sono numericamente preponderanti rispetto alla sinistra. Pensare che il PSE abbandoni la casa neoliberista equivale a sognare: il compromesso che Alexis potrebbe strappare finirebbe per somigliare a una resa. Atene val bene una messa? No davvero, se si va incontro al destino politico di George Papandreou (presentatosi agli elettori, rammentiamolo, con un programma di sinistra) e, al contempo, si fa sbandare la GUE. La Lista Tsipras ha un senso, in Italia e in Europa, solamente se si accredita come forza di opposizione, determinata ma creativa, alle politiche antipopolari del blocco PPE-PSE, principale nemico di un modello sociale concepito nel ‘900.

Rifondazione: i giornali di regime la irridono, ma – nei mesi passati – il partito ha acquisito molti meriti. La segreteria Ferrero ha ispirato e fortemente voluto l’operazione Tsipras, mordendosi sovente la lingua per evitare polemiche che sarebbero apparse giustificate (es.: scelta del simbolo, composizione del comitato dei garanti ecc.); le firme per la presentazione sono state raccolte col contributo decisivo dei militanti; prese di posizione coraggiose come quelle sull’Ucraina, sulle vicende Mineo e Grillo-No TAV e, da ultimo, lo strappo - simbolicamente assai significativo - sul ballottaggio livornese hanno scavato un visibilissimo solco con il PD atlantista e conservatore, prestando alla LT italiana un’identità politica altrimenti fumosa. Purtroppo in ambiti regionali e locali il taglio non è stato altrettanto netto: a primavera il PRC si è imbarcato nel centrosinistra sardo ottenendo peraltro, nelle elezioni regionali, risultati poco soddisfacenti; in molti comuni, anche della nostra regione, l’alleanza col PD – sempre in un quadro di centrosinistra – è avvertita come irrinunciabile, naturale. Capisco che a livello di città o di paese ci si confronti più su problemi concreti che sui massimi sistemi (che però condizionano le nostre vite di residenti!) e che molti quadri intermedi del Partito democratico siano “rimasti indietro”, pensandosi ancora di sinistra, ma è indubbio che quest’atteggiamento contraddittorio, questa doppia linea nocciono alla credibilità del partito. I detrattori, non tutti in cattiva fede, interpretano tale ambivalenza come un “voio no posso” (cioè: andrei al governo, ma il PD non mi vuole) che confina con l’opportunismo, benché – lo ribadisco – la contrapposizione ai democratici sui temi politicamente centrali sia indiscutibile. Anche in questo caso mi sembra si possa parlare di pigrizia mentale, di ritualismo: è a tutti evidente che il PRC non ha le risorse per fare campagna elettorale in solitaria, ma le difficoltà non obbligano a riprodurre stancamente lo schema centrosinistra. Visto che i problemi sono concreti, il partito farebbe bene a valutare, ente per ente, le varie ipotesi sul tavolo, scegliendo poi sulla base delle esigenze della comunità più che di presunte, inattuali, parentele ideologiche. In qualche realtà l’interlocutore potrebbe essere il M5S (che in Europa si allea con l’impresentabile Ukip, ma in Parlamento ha contestato lo schiavistico Job act), altrove partiti terzi e persino il PD, ma non più in una logica – solo apparentemente obbligata – di centrosinistra. Il centrosinistra non è forse mai esistito; di certo oggi è un’illusione, un ibrido destra-sinistra che, ove si materializza, snatura, indebolisce e prosciuga i partner minori. Va da sé che l’opzione migliore rimane – sempre e comunque – un’alleanza programmatica con altre forze di sinistra, se sopravvissute.
Non si tratta di recidere un legame, ma solo di prendere atto di una metamorfosi ormai compiuta: la farfalla comunista è diventata bruco piddino, destra fra le destre, colonna portante di un iniquo sistema da (provare ad) abbattere. 
Sarei riuscito a rispettare il saggio limite degli otto minuti? Rinunciando a qualche orpello, reputo di sì: in fondo, i concetti da me esposti sono assai semplici.




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