SOCIALISMO E FEDERALISMO
di
Riccardo Achilli
Il potere economico e politico, su
scala nazionale e globale, tende ad accentrarsi e verticalizzarsi, derivando
inevitabilmente verso assetti oligarchici, slegati dalle comunità, nazionali e
locali, che vengono sospinte verso un ruolo passivo di mera subordinazione
lavorativa e di opinione. E' una tendenza spontanea del capitalismo, che in
realtà è stata sempre presente dentro questo sistema, anche con vesti differenti (ad esempio il
colonialismo) e che negli ultimi vent'anni si è accelerata per motivi diversi,
così sintetizzabili:
- sotto la spinta dell'enorme sviluppo di tecnologie informatiche
che azzerano lo spazio e costruiscono comunità globali, riducendo e per alcuni
aspetti omogeneizzando le differenze culturali e le identità locali, e creando
mercati globali delle merci e delle attività finanziarie. Andando così a
costituire la piattaforma tecnologica di un governo del mondo sempre più
centralizzato e slegato dai tradizionali concetti di spazio territoriale e di
Patria e Sangue;
- come conseguenza dell'inevitabile oligopolizzazione dei settori
produttivi trainanti dell'economia globale, come risposta alla tendenziale, e
costante, riduzione del saggio di profitto generale, mediante la
massimizzazione della rendita oligopolistica e monopolistica, come già
insegnavano Sweezy e Baran negli anni Sessanta, ed al fine di monopolizzare le
innovazioni scientifiche e tecnologiche che creano nuovi prodotti e nuovi
mercati, sui quali contrastare momentaneamente la tendenza alla riduzione del
saggio di profitto, secondo i ben noti dettami del modello di ciclo di vita del
prodotto di Vernon;
- come effetto della finanziarizzazione del capitalismo, che non
ama le frontiere e le differenze, perché lucra sulla dimensione di scala
dell'investimento effettuato e sull'assenza di vincoli e barriere
amministrative o normative nazionali, preferendo un mercato omogeneo sul quale
operare.
Il potere economico, e quindi
politico, tende spontaneamente a verticalizzarsi, accentrarsi e legarsi a
competenze tecniche sempre più esclusive, per gestire la crescente complessità
della globalizzazione. Competenze che divengono escludenti, nella misura in cui
chi non le possiede viene tagliato fuori dalla gestione politica ed economica
di questo nuovo mondo, portando inevitabilmente ad assetti politici sempre meno
democratici e sempre più oligarchici.
Ciò dovrebbe indurre la sinistra a
valorizzare la dimensione locale, il federalismo, le reti comunitarie come
terreni elettivi della democrazia residua e di interventi di solidarietà e
redistribuzione. Recuperando tradizioni proudhoniane e libertarie. Ma la
sinistra, in particolare quella italiana, non è più attrezzata culturalmente
per tale visione. Residui stalinisti centralizzatori, la tendenza alla
generalizzazione ed astrazione massificatoria presente in una lettura non
attenta di Marx (che pure aveva lottato per un esperimento locale come la
Comune di Parigi, anche se visto come miccia di una rivoluzione più estesa e
generale) e l'estinzione della cultura socialista, con il suo carico di
libertarismo e comunitarismo, contribuiscono a diffondere, in ciò che resta
della sinistra italiana, una tendenziale avversione per il federalismo ed il
regionalismo.
Con la conseguenza che le
espressioni politiche del federalismo, nel nostro Paese, sono state consegnate
alla destra, degenerando quindi in xenofobia, opportunismo romanocentrico, ed
in termini economici e fiscali, in un localismo meramente difensivo ed
egoistico. In ciò ha avuto un ruolo anche la storia del processo di
unificazione del nostro Paese, fondata essenzialmente su annessioni dall'alto,
e la profonda sfiducia, nutrita dalla dirigenza liberale che costituì la destra
e la sinistra storica, verso ogni forma di autonomia locale, letta come minaccia
ad una unità nazionale mai del tutto metabolizzata dalle popolazioni locali.
La progressiva ricentralizzazione
dello Stato, imposta dalla riforma renziana del Titolo V, non può funzionare,
come non funzionava lo Stato unitario pre-regionalista, inefficiente,
burocratizzato, elefantiaco, disattento alle istanze ed alle specificità
locali, e spesso preda di tentazioni autoritarie. Ed evidentemente, tale
controriforma del Titolo V non può funzionare nemmeno in funzione strumentale
ad una progressiva unificazione politica europea, che, per come è stata
impostata dalle nazioni egemoni (Germania e suo “contado” nord, centro ed est
europeo) è su una strada potenzialmente fallimentare. Fallimentare perché sta
procedendo su linee oligarchiche, tecnocratiche, neoliberiste, socialmente
darwiniste, sempre meno digerite dai popoli, come dimostra la crescita di
astensionismo elettorale e di crescita dei partiti euroscettici e nazionalisti,
crescita preoccupante perché tali movimenti, non di rado, si alimentano di strisciante
razzismo, nazionalismo aggressivo, demagogia. Ma che i partiti eurocentrici e
le forze sociali che li sostengono hanno difficoltà a capire, ad interpretare,
e quindi ad anticiparne le minacce potenziali. Un'Europa che rischia sempre più
di convertirsi in un Sacro Romano Impero nella fase del declino, ovvero in
un'unione lasca, perlopiù formale, incapace di contrastare la conflittualità
economica e politica, e perfino le guerre, fra le nazioni europee. Oppure che
rischia di esplodere in una reazione rabbiosa dei popoli, impoveriti e sempre
meno rappresentati.
Occorre quindi che la sinistra, senza ovviamente rinnegare i progressi
dell'unificazione europea come fattore di pacificazione e sviluppo (come
sopravviverebbero le micro-nazioni europee in un mondo dove la competizione
economica non si basa più su stati-nazione, ma su Stati-continente, se non su
blocchi geo politici?) sappia recuperare uno spazio di analisi e proposta
politica federalistico e localistico. In fondo, anche economisti borghesi come
Porter identificano nella comunità locale lo spazio dove creare reti e
relazioni in grado di proteggere le persone dagli effetti negativi della
globalizzazione liberista, e dove riappropriarsi di una connessione più diretta
con le istanze che provengono dal basso, che un assetto sempre più verticistico
del potere rischia di perdere.
In una simile
dimensione, la sinistra può anche andare oltre il mero lavoro politico, e
recuperare attività di mutuo soccorso ed assistenza, di sussidiarietà
orizzontale diremmo noi oggi, in grado di consentirne, con i fatti, un nuovo
radicamento fra le classi sociali più vulnerabili e sfruttate. E di promuovere
modelli cooperativistici in grado di recuperare occasioni di lavoro, oltre che
una più forte connessione fra la matrice dello sviluppo economico e la matrice
ambientale, contrastando la dilapidazione di risorse ambientali prodotta dalle
grandi multinazionali, espressione del potere verticistico e verticale di cui
sopra, sostanzialmente insensibili (al netto di virtuosi casi di studio,
affidati però al volontarismo della singola impresa) rispetto al territorio in
cui operano, e che oggi minacciano la nostra stessa esistenza come specie.
Da questo punto di vista, non è vero
che Bossi sia stato un politico geniale, come afferma Grillo, perché è stato,
invece, colui che ha politicizzato, usandolo strumentalmente, il pensiero di
Gianfranco Miglio. Pensiero che meriterebbe di essere rispolverato, ovviamente
su alcuni aspetti. La crisi dei sistemi di rappresentanza intermedia e la
progressiva deriva individualistica della società furono da lui anticipate e
previste.
Così come non dovremmo aver paura di confrontarci con la soluzione da
lui proposta: un modello confederale con un governo collegiale rappresentativo
di ogni regione, ed una presidenza federale elettiva. Nell'ambito di un'Europa
che si occupi solo dei macro-temi oramai non più gestibili su base nazionale,
ovvero di politiche macroeconomiche (politiche monetarie, politiche di tutela
della libertà di circolazione dei fattori produttivi, e di armonizzazione dei
regimi fiscali generali, lasciando però libertà di determinazione di imposte
nazionali e locali, su basi imponibili non generali, cioè al di fuori della
imposizione su redditi, consumi e profitti), politica estera e di sicurezza
comune, e poco più. E gli Stati membri che tornano titolari delle politiche
settoriali (industriali, agricole, dei servizi), di quelle sociali e del
lavoro. Tornando quindi ad avere la responsabilità di rispondere alle
istanze di equità, lavoro e sviluppo delle proprie comunità.
Per inciso,
non è la gestione monetaria centralizzata, di per sé, a generare
diseguaglianze, recessione e disoccupazione. Se così fosse, allora non si
capirebbe come mai i singoli Stati degli USA accettino una moneta unica,
stampata da una Banca Centrale unica, seppur costruita su base federale. Oppure
non si capirebbe perché crisi di grandi dimensioni, come quella degli anni
Trenta del secolo scorso, si siano
sviluppate in presenza di monete nazionali, aggravandosi, anzi, per via di
guerre sui tassi di cambio. Occorrerebbe peraltro interrogarsi sui sostanziali
fallimenti, o la sostanziale scarsa rilevanza, di esperimenti di creazione di
monete locali, che in genere, e nel migliore dei casi (quando cioè non producono
vere e proprie premesse di iperinflazione, rese ancor più gravi dalla scarsa
credibilità della moneta e delle autorità emittenti) non fanno altro che creare
micro-circuiti di scambio autocontenuti, incapaci quindi di produrre sviluppo
(che dipende dall'apertura di tali micro-circuiti in reti commerciali e
relazionali più ampie).
E' la gestione della moneta associata ad assetti di governance politica poco democratici, impregnati di idee monetariste e liberiste, che delegano la gestione delle politiche ad élite di tecnocrati poco attenti agli effetti sociali delle politiche economiche che effettuano, a generare gli effetti suddetti.
E' la gestione della moneta associata ad assetti di governance politica poco democratici, impregnati di idee monetariste e liberiste, che delegano la gestione delle politiche ad élite di tecnocrati poco attenti agli effetti sociali delle politiche economiche che effettuano, a generare gli effetti suddetti.
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