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lunedì 3 dicembre 2012

“PSEUDO-DEMOCRAZIA DA ESPORTAZIONE” di Pasquale Setola





“PSEUDO-DEMOCRAZIA DA ESPORTAZIONE” 
di 
Pasquale Setola



Le idee della classe dominante sono in ogni epoca
le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza 
materiale dominante è in pari tempo la sua potenza 
spirituale dominante
 (Karl Marx, Ideologia Tedesca, 1846)



                                                                                          

Una classe è dominante nella misura in cui riesce a imporre il proprio linguaggio sull’intero corpo sociale. Quando ciò avviene, essa riesce a produrre, attraverso la sua frazione intellettuale [1], un complesso di analisi - estremamente pervasive - che non trattano della realtà, ma di un sistema immaginario che è ai suoi antipodi. 
Paradigmatico, in questo senso, è il caso della costruzione immaginaria della “più antica democrazia del mondo”, a cominciare dal suo “mito” di fondazione, la tanto celebrata “rivoluzione americana”, che non fu nient’altro che una guerra d’indipendenza. I coloni americani, infatti, non avevano alcuna volontà di trasformare i rapporti economico-sociali in essere, ma volevano semplicemente non dover più “regalare” una parte dei profitti delle loro attività alla classe dominante della madrepatria.

Oggi, la democrazia statunitense, tanto celebrata dagli opinion maker nostrani (in buona parte ex comunisti, che, smessi i vecchi abiti per indossarne di nuovi, hanno messo il loro furore ideologico al servizio di una nuova causa, quella del capitalismo imperialistico), rappresenta in realtà il modello più avanzato di quella che potremmo definire “pseudo-democrazia”, poiché basata su una totale separazione fra la sfera economica della vita sociale, governata dalle logiche specifiche dell’accumulazione capitalistica, e la sfera politica, definita dalla pratica istituzionalizzata della democrazia elettorale. Non ci può essere democrazia se l’economia non è incorporata nella più grande politica, e ai cittadini viene sottratta ogni sovranità sulle scelte economiche.
Ma, negli Stati Uniti, la cui formazione sociale è stata segnata nel profondo da specificità storiche assolutamente distinte da quelle che hanno caratterizzato la storia del continente europeo, tutto ciò appare come un dato assolutamente naturale, quindi da non dover sottoporre ad alcuna interrogazione critica. 
Una separazione di questo genere svuota completamente le istituzioni rappresentative, rendendole impotenti al cospetto del mercato capitalistico. De facto, lo Stato negli Usa è al servizio del capitale (specificatamente, della sua frazione dominante, le imprese transnazionali), e non si preoccupa degli altri interessi sociali in gioco. Questo avviene anche perché la formazione storica della società statunitense ha impedito il sedimentarsi di una coscienza politica di classe nei ceti popolari [2]. Uno sviluppo storico che ha prodotto, invece, una situazione inedita, quella della costituzione di un vero e proprio partito unico: il partito unico del capitale. All’interno di questo partito unico ci sono due frazioni (Democratici e Repubblicani) che si rivolgono ad una minoranza di cittadini, il 40% circa (la classe media, perché i poveri non votano), ed entrambe sono sostanzialmente interpreti degli interessi particolaristici di potenti lobby economico-finanziarie.

Nel vecchio continente, invece, lo Stato ha rappresentato non di rado un punto di equilibrio rispetto ad interessi sociali contrapposti, favorendo quei compromessi storici (es. il capitalismo sociale europeo) che donano un senso vero alla pratica della democrazia. Se lo Stato non svolge questa funzione, che ha una sua autonomia rispetto alla pura logica di accumulazione capitalistica, la democrazia diviene un puro simulacro, una pseudo-democrazia.
Anche il sistema elettorale presidenziale americano non contribuisce affatto allo sviluppo di una dialettica sociale. Esso concentra il dibattito politico sulle persone invece che sui programmi, e la polarizzazione (inevitabile) della scelta su due individui, spinge i candidati a ricercare il consenso più ampio possibile (la famosa conquista del centro, composto dagli indecisi), rinunciando a priori a qualsiasi contenuto ammantato di una qualche radicalità. In tal modo, consolidando lo status quo, viene esclusa alla radice qualsiasi possibilità di evoluzione sociale.
Inoltre, questo sistema favorisce il coagularsi di interessi di varia natura attorno ai due candidati, impedendo, de facto, la costituzione di veri partiti politici portatori di progetti sociali alternativi. 
Fondamentalmente, la società americana non apprezza il concetto di uguaglianza, ma è invece il valore della libertà individuale ad occupare quasi tutto lo spazio sociale (nell’immaginario collettivo americano non è certo svanita l’idea che chiunque possa diventare miliardario). Ma ciò impedisce di comprendere che, nel quadro di una società a modo di produzione capitalistico, una simile libertà per la stragrande maggioranza è perfettamente illusoria, e alla fine finisce per scontrarsi in modo frontale con l’aspirazione egualitaria posta a fondamento del pensiero democratico. 

Purtroppo, bisogna constatare che questo modello sta penetrando con una certa profondità anche nel vecchio continente, anche perché l’obiettivo continentale dell’attuale strategia egemonica degli Stati Uniti è quello di omologare il capitalismo europeo (in cui sopravvivono ancora alcuni elementi frutto del vecchio compromesso sociale tra capitale e lavoro) al modello a-sociale americano completamente privatizzato, che prevede lo svuotamento della democrazia e la sua totale sottomissione alle esigenze della logica di accumulazione capitalistica. Obiettivo che appare sempre più vicino a realizzarsi proprio a causa del progetto europeo, nato originariamente come volano del progetto atlantista degli Stati Uniti all’indomani della seconda guerra mondiale, e che rimane sostanzialmente lo stesso pur essendo mutate le condizioni storiche, la cui attuazione oggi continua in un nuovo quadro sociale, in cui sta assumendo il dominio un neoliberismo di stampo americano. Un quadro in cui si distingue ancor più che in passato il servilismo delle classi dirigenti europee.
D’altronde, non è possibile cogliere alcun segnale che possa far pensare ad una possibile inversione di tendenza, almeno nel breve periodo, poiché mancano le forze storiche che potrebbero innescare un qualche cambiamento. Oggi, possiamo solo rivendicare il nostro diritto inalienabile alla resistenza, a cominciare da quella culturale, e non è certo poco. 





[1] Gli intellettuali sono un gruppo dominato della classe dominante, nel senso che appartengono alla classe dominante ma vendono il loro “capitale” intellettuale alla frazione industrial-finanziaria di questa classe.


[2] Le varie ondate migratorie occupano un ruolo importante nello sviluppo storico della particolare formazione sociale americana. Gli immigrati erano indotti a rinunciare alla lotta collettiva per tentare di fuoriuscire dalla condizione comune alla loro classe di origine, aderendo così all’ideologia del successo individuale, tipica del Paese che li accoglieva. Tutto ciò a scapito dello sviluppo di una coscienza di classe, poiché appena essa cominciava a vedere la luce, doveva subito far fronte ad una nuova ondata migratoria, che finiva per soffocarla.





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