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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 29 gennaio 2013

LA BRUTTA POLITICA di Norberto Fragiacomo




LA BRUTTA POLITICA
di
Norberto Fragiacomo

Al PD del Friuli Venezia Giulia, o perlomeno a molti suoi esponenti di spicco, d’inverno piacciono i Monti. Dal Partito Democratico è in corso un fuggi fuggi: dopo il senatore Pertoldi e l’onorevole Maran anche Gianfranco Moretton, capogruppo in Consiglio regionale, impacchetta i bagagli e prenota una suite in Scelta Civica, il movimento centrista del premier.
Quali le ragioni di un simile esodo di massa, proprio alla vigilia di due tornate elettorali (le politiche di febbraio e le regionali di aprile) che potrebbero consegnare al partito di Bersani, per la prima volta nella sua storia, un’ambita maggioranza relativa in Friuli Venezia Giulia?
La risposta è scontata: motivazioni politiche “all’italiana”, vale a dire poltrone. I nostri eroi se ne vanno perché non è stata assicurata loro la rielezione: non occorre essere Guicciardini o Leopardi per comprenderlo.
Il caso Moretton è emblematico: nato nel ’52 a Liegi, l’ex presidente del gruppo consiliare del PD, passato di recente al gruppo misto, ha iniziato a fare politica attiva a ventisei anni. Non di militanza parliamo, ma di cariche: a quell’età era già consigliere comunale a Fiume Veneto (PN). E’ diventato assessore, poi sindaco (fino al ’94): nell’ultimo anno di mandato ha fatto la spola tra il suo paese e piazza Oberdan [1], fino alla nomina ad assessore regionale all’industria, alla protezione civile e alla ricostruzione. Eletto quattro volte di seguito, Gianfranco Moretton è ormai un politico a vita: sommando i vent’anni trascorsi in regione al periodo precedente arriviamo a trentacinque– quanto bastava, fino a ieri, per una dignitosa pensione. Il consigliere a tempo indeterminato, però, non vuol saperne di abbandonare la scena, e per garantirsi una seconda giovinezza elettorale cambia schieramento: il cospicuo pacchetto di preferenze fa di lui un contraente forte, con cui Monti scenderà volentieri a patti.
In questa sceneggiata tipicamente italiana ciò che colpisce davvero non è il fatto in sé (nei palazzi del potere, è cosa nota, il nomadismo politico è ordinaria amministrazione), bensì il tenore e il contenuto delle dichiarazioni rese per “giustificare” le proprie scelte, il ricorso a formulette rituali che sottintendono una verità non confessabile ma evidente a tutti, e da tutti sostanzialmente accettata. Insomma, si fornisce svogliatamente una non-spiegazione che i media fingono di prendere per buona, e rilanciano a un pubblico indifferente o disincantato.
Perché Moretton lascia il PD? “La scelta dipende anche dall’aver individuato una prospettiva di politica nuova e riformista con Mario Monti. Una posizione di centro moderato che ho sempre rivendicato.[2]” Cosa lo convince della “salita” in politica di Monti? “E’ un fatto importante per una politica sociale e democratica libera.”
Che cosa significano queste due proposizioni? Proprio un bel niente: sono solo un’accozzaglia di nomi ed aggettivi oggi di moda, messi insieme senza particolare cura. In cosa consiste una “politica sociale e democratica libera”? Lo ignoriamo, anche perché ci troviamo di fronte ad un concetto assolutamente indeterminato, vago, impalpabile.
Se la realtà è un optional, nulla vieta di affermare candidamente che “la linea del PD è tutta sbilanciata a sinistra, come conferma l’alleanza con SeL di Nichi Vendola.” In caso contrario, si può ragionevolmente sostenere che un partito che ha votato ogni salasso montiano, difende trattati capestro e riforma Fornero e, dulcis in fundo, cerca di cattivarsi la stampa capitalista con interviste in ginocchio sia “tutto sbilanciato a sinistra?” Trattasi di una palese assurdità, di una violenza alla logica e alla cronaca che però passa sotto silenzio, viene metabolizzata all’istante. Il PD è lo stesso di un anno fa, ma le parole scritte dall’ex sindaco sulla scheda di presentazione (“Protagonista attivo nella costituzione in Regione Friuli Venezia Giulia del Partito Democratico, di cui è stato da subito convinto sostenitore.[3]”) sono invecchiate in un lampo.  Il riferimento all’alleanza con SeL, poi, è un capolavoro di comicità involontaria: non c’erano anche i comunisti, assieme a Moretton, nella coalizione che, cinque anni fa, sosteneva la candidatura Illy? E nella precedente giunta, di cui il transfuga era vicepresidente, c’era o non c’era un assessore di Rifondazione? Sì e sì, ma poco importa: la coerenza non è di questo mondo, le uniche tessere da custodire sono carta oro e bancomat (oltre al badge, si intende).
Ovviamente, secondo il diretto interessato, la decisione di cambiar casacca non avrebbe nulla a che fare con la mancata candidatura alle politiche: “è noto che non ho mai cercato un posto a Roma. Anzi, in passato, ho pure rifiutato candidature a camera e Senato.” Ora, noi non conosciamo personalmente il consigliere, e non sappiamo, di conseguenza, se agognasse o meno ad “un posto a Roma”; ma sappiamo che per stabilire cosa sia “noto” è buona norma ricorrere agli archivi, dotati di una memoria più affidabile e meno selettiva di quella degli esseri umani. Risulta[4] che Moretton abbia ritirato, poco prima delle primarie, la richiesta di deroga, a causa di un avviso di garanzia emesso nei suoi confronti. Il ritiro implica necessariamente che la richiesta sia stata in precedenza presentata, e detta presentazione è scarsamente compatibile con la volontà di non candidarsi. Per mettere in crisi certe contorte apologie, talvolta, sono sufficienti due ritagli di giornale e un sillogismo da scuola media.
Sebbene il centrismo e la religiosità del consigliere non lo siano (rammentiamo certe prese di posizione abbastanza oscurantiste in margine alla vicenda Englaro), anche la sua passione per Monti è, a ben vedere, una novità: tre mesi fa Moretton incitava Tondo e la sua giunta a “difendere la specialità della Regione, messa a rischio per l’ennesima volta dai tagli imposti da Monti”, di cui venivano stigmatizzate le “invasioni di campo[5]”. Non proprio un giudizio lusinghiero su una politica che oggi, mutate le convenienze, viene lodata come “nuova e riformista” (benché sia sempre la medesima).
Qual è la morale della vicenda rapidamente descritta? Che, nell’Italia di oggi, di fronte all’interesse personale non c’è etica o ideale che tenga: se la politica è cura della cosa pubblica, delle esigenze generali, comportamenti tanto disinvolti vanno ascritti, senza fallo, alla categoria dell’antipolitica. Una critica anche rozza e populista come quella di Grillo al sistema è pur sempre politica: l’uso delle istituzioni per finalità personali no. Gli italiani sono oramai assuefatti all’opportunismo dei loro rappresentanti, che non godono più di alcun credito, ma rimangono a galla e se la spassano. Che poi una minoranza arrabbiata dia il voto al Movimento 5 Stelle è del tutto comprensibile e – mi si consenta – giustificabile.
Ancora una considerazione, dedicata nello specifico al PD: le colpe dei capi non devono ricadere sulla base, mediamente migliore dei primi. Il problema è che, nei partiti odierni, l’elettore, l’attivista contano zero: sono i vertici a menare le danze, a definire strategie e linee politiche. Visto che quello descritto non è un caso isolato (anzi, è la regola), è lecito domandarsi come avvengano le selezioni all’interno delle forze politiche, e quale beneficio la loro presenza possa arrecare ad una società annichilita materialmente e moralmente. E’ prevedibile un ravvedimento operoso dei maggiorenti partitici, indotto da una crisi che non incide minimamente sul loro status economico? Infine: viviamo ancora in un sistema (formalmente) democratico, o siamo scivolati da un pezzo nella parodia?
Le risposte assomigliano ad un epitaffio, purtroppo.



[1] Il palazzo del Consiglio regionale sorge, per l’appunto, in piazza Oberdan, a Trieste.
[2] Da Il Piccolo del 24 gennaio.
[4] Cfr. il Gazzettino di Udine del 22 dicembre.
[5] Da Il Piccolo del 24 ottobre 2012.


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