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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 15 gennaio 2013

STEFANO FASSINA, CONSERVATORE DOC




di
Norberto Fragiacomo


L’accusa, mossagli da Mario Monti, di essere un “conservatore” deve aver punto Fassina nel vivo, costringendolo ad un doloroso esame di coscienza: ce lo figuriamo mentre affretta il passo, a capo chino, il viso corrucciato, su un ponte divorato dalla nebbia, inconsapevolmente già alla ricerca di un Porfiri Petrovic dinanzi al quale ammettere le proprie colpe. 

Assai meno affascinante dell’originale, ma con più aderenze e soldi in tasca, l’emulo piddino di Raskolnikov ha infine trovato un confessore all’altezza del suo status: nientepopodimeno che il Financial TimesAlla voce della City londinese il responsabile economico del PD ha dichiarato pari pari che il centrosinistra non intende rinegoziare il Fiscal compact né fare marcia indietro sul nuovo articolo 81 della Costituzione (pareggio di bilancio), per timore di danneggiare il “progetto europeo”; che non ci sarà alcun aumento della spesa pubblica deciso in maniera unilaterale da un’ipotetica maggioranza dominata dal PD; che l’articolo 18 in versione Fornero sarà mantenuto, perché i problemi sono (come sempre) altri; che Monti ha restituito credibilità all’Italia, e che quindi una collaborazione, all’indomani delle elezioni, tra centrosinistra e centro montiano rientra nell’ordine delle cose. Ha distinto tra europeisti buoni e populisti cattivi (Berlusconi e Grillo), ed auspicato ulteriori liberalizzazioni dei mercati. Parla come un Monti stampato, non c’è che dire, il nostro “estremista”, ma tacciarlo di incoerenza sarebbe iniquo: nell’intervista del 13 gennaio, firmata da Ferdinando Giugliano, Fassina ha solo esplicitato una posizione che aveva assunto ormai da tempo, almeno dai primi di marzo del 2012, quando decise – all’ultimo istante, ed accampando scuse pietose – di non partecipare al corteo della Fiom in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In verità, più che ad una (legittima) evoluzione del pensiero ci troviamo di fronte ad uno degli infiniti casi di travestitismo politico-ideologico: il PD ha costante bisogno, per acquietare e/o rassicurare la base, di presentare una faccia “di sinistra”, qualcuno capace di lenire, con discorsi d’occasione, il dolore provocato alle masse da (contro)riforme sempre più spietate. Stefano Fassina, romano di origini modeste, era il candidato perfetto: relativamente giovane, homo novus estraneo al Parlamento - e quindi non compromesso con il potere - si è formato alla Bocconi grazie ad una borsa di studio; politicamente impegnato sin dagli anni giovanili (è stato segretario nazionale degli studenti universitari di Sinistra giovanile, la “squadra primavera” del PDS/DS/PD), sfoggia un’espressione malinconica e un po’ mesta che ricorda vagamente quella di Berlinguer. Andrebbe aggiunto, per completezza, che non è propriamente un antisistema: a trent’anni è già consigliere economico del Ministero del tesoro, a trentaquattro emigra a Washington per lavorare al FMI [1]. Un cursus honorum coi fiocchi, dunque, ma più da ottimate di complemento che da ribelle arrabbiato, cui un remoto confronto con il rettore Monti dopo un’occupazione [2] (1989) dà appena una spolverata di pepe. Il dott. Fassina, rapidamente imborghesitosi grazie ai propri meriti e ad una lunga militanza politica nel grande partito ex comunista, anche a parole si smarca solamente su temi generici, e comunque quando serve al segretario (ad esempio, alla vigilia dello spareggio con Matteo Renzi): mesi fa, a proposito dell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione ha affermato che, fosse stato parlamentare, avrebbe votato a favore, ed in un confronto televisivo con Tremonti [3] è apparso, riguardo all’Europa e al ruolo dei mercati, nettamente più “a destra” del suo interlocutore. L’ambiguità dell’economista è stata istintivamente colta dagli operai dell’Alcoa, costretti a misurarsi con una realtà molto meno virtuale di quella delle primarie o dei talk show: quel “ci avete venduti, traditi!” gridatogli per la strada in settembre è il lamento disperato di un ceto che riconosce, nel partito un tempo punto di riferimento, l’odioso, subdolo complice degli sfruttatori. La nascita del Partito Democratico – “non un partito socialista”, ci tiene a sottolineare Bersani [4] - è stata il suggello formale all’avvenuto completamento della più scioccante metamorfosi della storia politica repubblicana: saltando persino la fase socialdemocratica, gli eurocomunisti italiani hanno abbracciato il liberismo estremo, tradendo non se stessi bensì, per l’appunto, i loro rappresentati. Da riformisti che erano, sono diventati controriformisti, cani da pastore per conto dei mercati: onde ingannare meglio le masse hanno conservato il linguaggio di ieri, stravolgendo però il significato delle parole. L’elite democratica, di cui Stefano Fassina fa parte a pieno titolo, assomiglia molto di più a Monti o, al limite, a Berlusconi che ai militanti in fila per le primarie: è composta di persone ricche o benestanti totalmente sottomesse, anche per interesse immediato, ai voleri di un Capitale che, negli ultimi due-tre decenni, si è pian piano ripreso tutto quello che in precedenza aveva controvoglia elargito. Del nuovo-vecchissimo sistema partiti come il PD costituiscono una colonna, propagandisticamente verniciata di rosso; sono difensori di uno status quo che, a ben guardare, risale agli inizi del diciannovesimo secolo - pertanto, lo ribadiamo, l’etichetta di “conservatore” affibbiata dal premier pseudo tecnico a Fassina è etimologicamente giusta, anche se nel dizionario della propaganda liberalcapitalista sinonimi e contrari vengono mescolati a piacere. Non v’è dubbio, in ogni caso, che quello guidato da Bersani sia un partito reazionario e di destra: chiunque vinca – tra PD, PDL e montiani – le prossime elezioni, per l’Italia si prospetta un disastro sociale. “Confermeremo l’austerità”, ha giurato il segretario col sigaro (spento) al Washington Post, facendo professione di liberismo ed assicurando che “i mercati non hanno nulla da temere” (i cittadini-sudditi sì, purtroppo per noi). Tra l’altro, la rinuncia a rinegoziare (non a rinnegare: a rinegoziare, cioè a proporre delle modifiche al trattato!) l’esiziale Fiscal compact condanna il sistema Paese ad annui salassi (40-45 miliardi ca. moltiplicati per venti) e ad una recessione perpetua, che porteranno ad un drastico abbassamento di tenore e speranza di vita – con evidenti benefici per il sistema pensionistico – e a relazioni di lavoro di matrice ottocentesca, fondate sulla “libera contrattazione” tra un prestatore d’opera in miseria ed un imprenditore tutelato dalle leggi e dalla pubblica autorità. Altro che choosy! Le generazioni che si affacciano al mondo del lavoro dovranno accettare le condizioni più inique (stipendi infimi, stretta su malattie e ferie, controlli continui, orari a fisarmonica, cancellazione delle rappresentanze) pur di mettere insieme, quando va bene, pranzo e cena. Il disegno è chiaro, così come è evidente che chi dovrebbe proteggere i ceti deboli ha altre priorità: ospite a Passaparola, Nichi Vendola, pur di non scontentare l’azionista di maggioranza Bersani, ha opportunamente “scordato” la propria proposta di aumentare l’imposizione fiscale sui redditi elevati, limitandosi a biascicare qualcosa sulle transazioni finanziarie, e non ha trovato nulla da obiettare quando il ghignante Belpietro, con l’approvazione di Formigli, ha tuonato che centomila euro all’anno sono un imponibile da “ceto medio”. Chi scrive si è sentito un pezzente, circondato da pezzenti come lui… poi ha dato un’occhiata alle statistiche ufficiali [5], e si è un po’ rincuorato apprendendo che, nel “prospero” 2010, il reddito medio dichiarato dai contribuenti italiani (30,75 milioni ca.) era di 23.241 euro. L’evasione esiste, d’accordo, ma il dato statistico è appunto una media, che riflette, almeno in parte, la situazione esistente – una situazione molto lontana dal bengodi descritto dai due giornalisti. Il fatto è che tanto i professionisti della tivù quanto i politici vivono sulla luna che, com’è noto, è d’argento, e per via della lontananza faticano a scorgere chi, sulla terra, è legato a fabbriche e uffici da catene di bronzo. Seguitiamo ad affidare la quota disponibile del nostro destino (lo faremo pure il 24 febbraio) a rappresentanti che, anche se onesti e probi, non possono realmente comprendere le difficoltà quotidiane in cui si dibattono i ceti medio-bassi del Paese (impiegati, operai, pensionati), per non parlare degli autentici drammi vissuti da categorie ancora più svantaggiate – si pensi agli esodati, ai precari, a chi ha smesso di cercare un’occupazione. Proprio per questo, riteniamo, Vladimir Lenin suggeriva di fissare, per gli eletti, salari da operaio – misura applicabile, però, esclusivamente in una società comunista (che in URSS non vide mai la luce). Un passo alla volta, comunque: oggi ci congediamo dal lettore “medio” ripetendogli che il voto al PD scudiero dei mercati (così come quello a Berlusconi e a Monti), ben lungi dall’essere “utile”, risulterebbe, per lui, altamente nocivo; e che le reticenze e le mezze aperture di Vendola ai centristi prefigurano una SeL muta [6] complice parlamentare di scelte reazionarie imposte da banche e multinazionali per bocca di SuperMario o, mal che vada, del rassicurante Pierluigi.   

1 http://www.partitodemocratico.it/utenti/profilo.htm?id=56 

[2] Per salvare un corso di laurea – pare – che l’università aveva stabilito di sopprimere. 

[3] Forse a Ballarò, comunque risalente a metà 2012. 

[4]http://www.repubblica.it/politica/2013/01/14/news/bersani_al_washington_post_con_monti_niente_favori_ma_patto_per_le_riforme-50515866/ 

[5] http://www.comuni-italiani.it/statistiche/redditir.html 

[6] Meglio muta che ciarliera, in ogni caso: gli alti lai (a beneficio dei media) della prefica Nichi aggiungerebbero alla tragedia un indigeribile sovrappiù di grottesco. 


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