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venerdì 16 marzo 2012

Postilla all’articolo “IL PUNTO SULLA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO” di Riccardo Achilli



di Riccardo Achilli

La presente postilla interviene ad aggiornare i contenuti della riforma, dopo l’importante riunione di ieri, dalla quale, come già l’articolo principale prevedeva, è uscito finalmente l’accordo, benedetto dalla Camusso (“abbiamo fatto passi avanti”) e da Bersani (“adesso si firmi”).
Se possibile, gli ultimi punti dell’accordo, decisi ieri, peggiorano ulteriormente la situazione descritta dall’articolo principale. Si finisce per accedere ad una revisione dell’articolo 18, nonostante l’iniziale apparente ostilità assoluta dei sindacati, scioltasi come neve al sole in poche settimane. Si prevederanno specifiche fattispecie in cui la giusta causa non si applica, rendendo ad esempio possibile il licenziamento per difficoltà economica, un concetto molto vago e diverso da quello di “stato di crisi aziendale”, che sarebbe invece ben delimitabile con criteri oggettivi. In pratica, da oggi, anche le aziende che producono utili potranno licenziare lavoratori sulla base di presunte “difficoltà economiche” (magari soltanto per un calo stagionale, e del tutto transitorio, dei ricavi). Naturalmente, poiché l’entità dell’indennizzo economico al lavoratore sarà commisurata alla sua anzianità di servizio, ad andarci di mezzo saranno soprattutto i neoassunti, in totale incoerenza con il proposito dichiarato di favorire l’ingresso stabile nel mercato del lavoro da parte dei giovani, che a detta delle parti sarebbe uno degli obiettivi fondamentali della riforma. Il modello tedesco, cui il Governo dichiara di voler aderire con questa revisione dell’articolo 18, è un modello in cui i lavoratori hanno stipendi molto più alti di quelli dei lavoratori italiani, in cui gli indennizzi in caso di licenziamento per motivi economici sono molto più alti (perché commisurati allo stipendio ricevuto) ed in cui i sindacati siedono nei consigli di vigilanza delle imprese, e quindi hanno la possibilità di discutere dell’effettività di situazioni di difficoltà economica tali da giustificare i licenziamenti. Prendere da tale modello solo una componente (cioè la licenziabilità per motivi economici dietro indennizzo) e non le altre porterà a gravissime distorsioni: i sindacati non potranno negoziare le situazioni di difficoltà economica, lasciando campo libero alla proprietà aziendale per qualsiasi abuso, gli indennizzi saranno molto più bassi della media tedesca, incoraggiando i licenziamenti selvaggi.
I principali problemi dell’Aspi, rilevati nell’articolo principale, ovvero l’assenza di universalità e di efficacia nella lotta alla povertà, non vengono in nessun modo sanati nell’ultima versione dell’accordo, che prevede un allungamento oltre i 12 mesi dello strumento. Infatti, i vincoli di accesso (52 settimane di lavoro nell’ultimo biennio, almeno un biennio di versamenti contributivi) rimangono inalterati, e rendono di fatto impossibile la copertura per ampie fasce di precari, mentre l’importo dell’assegno rimane inferiore al 60% del reddito mediano, come invece richiesto dal Parlamento europeo. Nonostante ciò, la Camusso ribalta completamente, e nel giro di 48 ore, il giudizio negativo dato in precedenza, e dichiara che si stanno facendo passi in avanti verso l’universalità della copertura assicurativa. Una menzogna bella e buona, che dimostra come i sindacati si dichiarino paladini dei precari soltanto quando conviene loro strumentalmente. Un piccolo allungamento della durata dell’Aspi, che lo avvicina un po’ di più all’attuale mobilità, ed un suo posponimento al 2017 (che servono a tenere calmi gli iscritti ai sindacati che hanno la mobilità come ponte verso la pensione, che in caso di entrata in vigore immediata dell’Aspi nella versione originaria, quella cioè che durava un solo anno, avrebbero linciato i loro segretari) bastano ai sindacati per mettere la firma ad uno strumento che comporta un effettivo peggioramento rispetto alla copertura garantita dalla norme attuali.  Tra l’altro, l’accettazione dello strumento avviene senza nemmeno avere la certezza delle risorse finanziarie a disposizione, che ad oggi rimangono una incognita, sia nella loro entità che nella loro copertura. E se poi, dopo la firma ufficiale, risultasse che tali risorse non ci sono, o sono insufficienti, per cui i lavoratori che perdono l’ impiego non avranno neanche il misero assegno di 1.200 euro al mese dell’Aspi?
Di fronte a simili inquietanti scenari, descritti nell’articolo principale e peggiorati nel frattempo, l’impegno a fare un po’ di lotta contro i rapporti di subordinazione mascherati dietro a contratti precari appare ben poca cosa, e peraltro il sistema pensato appare anche largamente inefficace, e per certi versi iniquo. Il potenziamento dei servizi ispettivi del lavoro, oggi in condizioni davvero miserrime, dipende ovviamente dalla disponibilità di risorse finanziarie, che il bilancio dello Stato, alle prese con la gigantesca opera di risanamento indotta dal fiscal compact, non ha. Quindi sono parole al vento. Per limitare l’abuso dei rinnovi di contratti a termine, viene allungato il periodo minimo che deve intercorrere fra la scadenza di un contratto ed il suo rinnovo, di fatto costringendo il lavoratore a rimanere disoccupato per un periodo temporale più lungo. Per sanzionare l’utilizzo improprio di contratti a termine, si continua a privilegiare il canale dell’indennizzo giudiziario (peraltro con un minimo di 2,5 mensilità, davvero modesto) anziché quello, più logico, della conversione del contratto a tempo indeterminato. Per evitare che il contratto a chiamata o il contratto a tempo parziale possano coprire forme di utilizzo in nero della manodopera, si prevede un inefficace obbligo di comunicazione amministrativa da parte del datore di lavoro, da dare in caso di chiamata o di modifica dell’orario di lavoro. Ovviamente chi volesse utilizzare tali strumenti per coprire forme illegali di utilizzo di manodopera, non si sognerà nemmeno di adempiere all’obbligo di fare la comunicazione amministrativa. Sarebbe molto più efficace, da un lato, abrogare il vessatorio contratto di lavoro a chiamata, e dall’altro regolamentare in modo più stringente le possibilità di variazione di orario dei contratti a tempo parziale. Quindi di fatto ciò che emerge è che non vi è la volontà di contrastare realmente gli abusi fatti dai datori di lavoro, e si getta un po’ di fumo negli occhi. Il contrasto alle false partite Iva contiene poi elementi quasi comici: la presunzione di rapporto di subordinazione, che farebbe scattare i l diritto alla conversione del contratto in contratto alle dipendenze, avviene quando il lavoratore ricava almeno il 75% del suo fatturato da un solo committente, ed inoltre costui sia tanto fesso da affidargli una collaborazione di durata pari ad almeno 6 mesi continuativi, ed addirittura una scrivania ed una postazione di lavoro presso la sua sede. Peccato che nessun datore di lavoro sia così stupido, se utilizza una falsa partita Iva, da fargli un incarico continuativo di più di 6 mesi e da dargli addirittura una scrivania ed un computer. Quindi il 90% delle casistiche di false partite Iva non saranno minimamente coinvolte. In questo modo, anche i co.co.pro. che svolgono attività di lavoro subordinato verranno spinti, a causa delle più restrittive regole imposte dalla riforma rispetto a tale contratto, non in direzione della stabilizzazione, come sostengono i sindacati, ma in direzione della partita Iva, peggiorando oggettivamente la loro condizione, a tutto vantaggio delle imprese. Questo perché la crisi economica, ovviamente, non lascia spazi per massicce conversioni di contratti precari in contratti stabili. In sintesi, tutti i pretesi interventi di contrasto alla precarietà sembrano demagogici, se non addirittura favorevoli alle imprese e non ai lavoratori precari.
In sostanza, ogni giorno che passa il contenuto della riforma del mercato del lavoro peggiora per i lavoratori, mentre i sindacati ed il PD diventano sempre più entusiasti e pronti a firmare. Questo dovrebbe far meditare i lavoratori su quali interessi tali soggetti stiano rappresentando: quelli del capitale.
15 marzo 2012

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