Di questi tempi la violenza è protagonista, specialmente in Valsusa,
e di essa si parla molto sui giornali e in tivù, ma quasi sempre
(deliberatamente) a sproposito. In verità, mentre pietre e manganelli ci vedono
benissimo, i discorsi di politici, giornalisti e commentatori sembrano affetti
da un curioso strabismo: ad una delle parti in campo (i NO TAV) non viene
condonato nulla; l’altra, invece, gode di una curiosa indulgenza, che, in certe
evenienze, si muta in sostegno aperto e incondizionato.
La vicenda del carabiniere “impassibile” è esemplare: la
beatificazione di un giovanotto in divisa, premiato per non aver risposto a
“insulti” molto meno feroci di quelli che ci si scambia a un semaforo (il
peggiore era “pecorella”, figuriamoci), dimostra che, quando sono in ballo
cospicui interessi, i giornalpoliticanti smarriscono anche il senso del
ridicolo. La telenovela stile Delitto e Castigo è stata comunque girata
al meglio: dopo l’intervista al milite di famiglia “proletaria” e l’inevitabile
citazione di Pasolini, i falconi mediatici hanno adocchiato anche il reprobo –
un giovane con la barba fulva, dallo sguardo niente affatto minaccioso - e lo
hanno persuaso a confessarsi e chiedere perdono. L’Italia è, dopotutto, un
Paese poco cristiano, ma molto cattolico. Davvero un bel colpo, anche se – come
già detto – il montanaro valsusino non ha proprio l’aria del picchiatore (e,
difatti, nel famigerato video si limita a concionare briosamente).
Questa è fuffa, in ogni caso – il cartoon di Will Coyote
che, nei cinema anni ’70, precedeva il film. La pellicola è tutta incentrata
sulla violenza; ma, come già anticipato, solo su quella dei resistenti NO TAV.
A parte sparute eccezioni (Vattimo, ad esempio), nessun maitre à penser “ufficiale”
ha avuto da ridire sull’operato delle polizie; quanto ai politici, è come andar
di notte: per un Paolo Ferrero ci sono, purtroppo, decine di Violante che,
saltata la barricata ideologica, assolvono e condannano a prescindere.
Destrorsi? Ma quando mai: questi sono “progressisti” alla Veltroni che, perso
per strada l’anelito alla giustizia sociale, finiscono, da vecchi, per
identificare il progresso con un treno (che non somiglia per niente alla
locomotiva gucciniana).
Gli uomini di Manganelli, dunque, sono “buoni” e rispettosi
della legge a prescindere, anche quando sfondano la porta di un ristorante,
infieriscono sui caduti, inseguono i dimostranti sui tralicci; persino quando
(Genova 2001) picchiano una ragazza in quattro, oppure irrompono in una scuola
per “fare giustizia” sommaria. Chi si oppone, al contrario, è sempre colpevole:
è sufficiente alzare un dito od una mano – magari a protezione del volto – per
passare, a detta dei Vishinsky piddini, dalla parte del torto.
Propaganda efficace - né potrebbe essere altrimenti, visto
l’arsenale mediatico a disposizione di chi comanda: pure nelle discussioni tra
compagni, ormai, si dà per scontato l’assioma secondo cui l’unica resistenza
accettabile è quella pacifica, e la violenza non è mai giustificabile.
Si tratta di affermazioni impegnative, da non farsi alla
leggera, perché il concetto di violenza è tutt’altro che monolitico – e infatti
il grande giurista Antolisei riempie pagine su pagine di dubbi e confutazioni
prima di provare a definirlo. Più pragmaticamente, il Codice Rocco si
accontenta di affiancarlo, senz’ombra di spiegazione, a quello di minaccia,
salvo distinguere tra violenza reale (=sulle cose) e personale[1].
Il taglio di una recinzione – atto simbolico per antonomasia –
ha quindi, per la legge penale, un contenuto violento: merita perciò unanime
condanna? Attenzione: non stiamo parlando del piano legale, ma di quello
politico-morale. Se è vero che ogni forma di violenza è censurabile,
toccherebbe rispondere di sì… e, a maggior ragione, rinunciare ai cortei,
specie se improvvisati, poiché bloccare una strada significa costringere
qualcuno (ad es. l’automobilista) a tollerare qualcosa, condizionando la sua
libertà.
A questa stregua, dovremmo ammettere soltanto proteste alla Jan
Palach o silenziose passeggiate nei boschi, e rampognare personaggi storici rei
di aver violato, con le loro azioni, la “morale” inculcataci dai media.
Gesù Cristo era un violento? Sembra una domanda provocatoria, ma
non lo è: i Vangeli ci raccontano che, arrivato a Gerusalemme, l’Agnus Dei scaccia
furiosamente i mercanti dal tempio, dopo aver rovesciato i loro banchi. Tecnicamente,
trattasi di violenza (su cose e persone): condanniamo? E che dire di Spartaco
che, per riacquistare la libertà, rivolge le armi contro i suoi padroni romani,
e ne ammazza parecchi? Ovvero, passando dalla Storia alla letteratura
(contemporanea), dovremmo biasimare il viandante in nero di Altieri[2] che, all’inizio della saga, fa a pezzi un bel po’ di mercenari
per salvare una ragazza innocente destinata al rogo? Non so voi, ma io – mentre
leggevo – facevo il tifo per la daikatana vendicatrice, senza sentirmi
per questo un “sovversivo”; e, con riguardo a Gesù, Spartaco (e pure Müntzer e
fra’ Dolcino), ho sempre ritenuto che la loro condotta “violenta” fosse
pienamente motivata e, per così dire, adeguata alla situazione da affrontare.
Il punto è che, una volta discesa dall’iperuranio delle
astrazioni alla realtà quotidiana, qualunque persona di medie sensibilità e
intelligenza avverte che non c’è parentela tra la violenza ripugnante, perché
bestiale o gratuita, dello stupratore o del rapinatore di vecchiette e quella
sacrosanta di chi protegge sé od altri; per gli stessi motivi, si è portati ad
encomiare il poliziotto che adopera le armi per fermare un pericoloso
delinquente, e ad accusare il suo collega che, per rabbia o sadismo, bastona
una persona già ammanettata o innocua (e se la Santanché la pensa diversamente,
è affar suo).
Ciò che è chiaro al senso comune non è misconosciuto dal Codice
penale che, pur redatto in epoca fascista, giustifica chi difende “un diritto
proprio od altrui” contro un’offesa ingiusta[3] (legittima difesa - ammessa dall’ordinamento, secondo
Mantovani) e chi è costretto ad agire “per salvare sé od altri dal pericolo
attuale di un danno grave alla persona” (stato di necessità – in questo
secondo caso, la condotta è tollerata). Nulla di nuovo sotto il sole europeo:
nel Digesto giustinianeo (VI° secolo) sta scritto che “vim vi repellere
licet”.
Pertanto, se la violenza è autorizzata – a certe condizioni –
dal legislatore, non si vede perché il moralista contemporaneo debba rifiutarla
“senza se e senza ma” (come va di moda dire tra i sinistroidi radical chic).
C’è dell’altro: l’articolo 53[4] del codice disciplina specificamente il comportamento del
pubblico ufficiale, sancendone la non punibilità allorché “al fine di adempiere
un dovere del proprio ufficio”, faccia uso ovvero ordini “di far uso delle armi
o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità
di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’autorità”.
Costrizione, necessità e – aggiungono gli interpreti –
“proporzionalità” tra le due condotte: l’uso delle armi non è mai libero, e
(perlomeno in via teorica) dagli arbitri della polizia il cittadino può
legittimamente difendere se stesso e/o altre vittime; ritorna cioè applicabile
l’articolo 52, per la semplice ragione che l’offesa arrecata è “ingiusta”. In
sostanza, se ci si imbatte in un agente che sta pestando una persona indifesa è
pienamente lecito intervenire a sostegno di quest’ultima – ammesso che si
sia in grado di farlo, ovviamente.
Talora, a quanti blaterano di sovversione e terrorismo sarebbe
opportuno regalare un buon compendio di diritto penale.
Fin qui tutto chiaro – nei casi citati, tuttavia, cambiavalute,
schiavisti romani e dragoni di Altieri avevano la legge dalla loro, cioè
esercitavano un diritto, o compivano (sia pure con maligna soddisfazione) il
proprio “dovere”. Come giustificare, allora, reazioni o rivolte contro l’ordine
costituito?
La questione è apparentemente complessa, specie se non si
individua il comune denominatore – che in tutti e tre le situazioni è la
ribellione contro l’ingiustizia, verso Dio o verso gli uomini. Noi tutti (o
quasi tutti) sentiamo che mercificare il divino, asservire altri uomini ed
ammazzare un innocente è sbagliato; ma le masse di mille o millecinquecento
anni orsono potevano avere opinioni differenti in materia, addirittura opposte
alle nostre. In fondo, la coscienza collettiva è modellata dalle classi
dominanti a proprio esclusivo beneficio: il fatto che essa muti nel tempo non è
dovuto esclusivamente all’evolversi dei rapporti economico-produttivi, ma anche
all’insegnamento e ad all’agire - più o meno violento - di uomini di
moralità superiore, capaci di lasciare traccia.
Spartaco e Cristo ebbero “successo” (pur morendo entrambi in
croce), perché riuscirono, il primo, ad instillare negli schiavi-cose l’amore
per la libertà, e nella società romana il tarlo del dubbio; il secondo, a
gettare le basi di un nuovo rapporto tra gli esseri umani, paritetico e
fraterno. La loro proposta morale fu infine accolta, e non è un caso che,
secoli e secoli più tardi, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1791) riconosca ad ognuno la legittimazione a resistere contro
l’oppressione, senza esigere affatto che la resistenza assuma un carattere
passivo e non violento.
Un’occupazione – militare od economica, come quella imposta alla
Grecia dai finanzieri - giustifica perciò una reazione popolare, sorta di
legittima difesa collettiva che sarà tanto più efficace quanto più arriverà a
coinvolgere, emotivamente e materialmente, la cittadinanza angariata.
La rivoluzione non è mai un divertimento, ma qualche volta è una
dolorosa necessità - e può trionfare, a patto che le esigenze che essa esprime
siano reali, vale a dire obiettive, e percepite come tali dalla parte più
attiva e consapevole di una popolazione. In ogni caso, il rivoluzionario non
può accettare senza batter ciglio le regole volute dal ceto dominante, per la
banalissima ragione che al gioco delle tre carte il partecipante non vince mai.
La pretesa di riparare il mondo (o di cacciare un invasore) rispettando i
dettami di legge è semplicemente una fanfaronata.
A Lenin che suggeriva loro di fucilare i padroni, Lazzari ed
altri due socialisti lombardi risposero che non l’avrebbero mai fatto: “siamo
brave persone!”, protestarono.
Brave persone di sicuro, ma rivoluzionari da bar sport.
“Senza se” e “senza ma” non si fa la Storia , la si subisce e basta.
Norberto Fragiacomo
[1] Che talvolta è presunta: si pensi agli atti sessuali
compiuti su infraquattordicenni.
[2] A.
D. ALTIERI, Magdeburg (trilogia),
ed. Corbaccio.
[3] Sempre
che la difesa sia proporzionata all’offesa (art. 52 c.p.).
[4] Sulla scriminante in questione è intervenuto, nel ’75, il
legislatore repubblicano, al fine di riportarla nell’alveo costituzionale.
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