In tanti mi hanno chiesto di offrire una testimonianza sul clima e sui contenuti del recente convegno economico tenutosi a Rimini, dal 24 al 26 febbraio scorso, per iniziativa del noto giornalista contro-corrente Paolo Barnard.
Il summit, dedicato alla esplicazione della teoria monetaria battezzata M.M.T., ha visto la partecipazione di circa 2.000 attenti uditori (dati forniti dall’organizzazione) e si è contraddistinto per un clima di sentita e diffusa partecipazione alla difficile congiuntura economica del Paese, da parte di un pubblico eterogeneo di età media decisamente giovane.
L’incontro, tenutosi al Palasport 105 della ridente città romagnola, si è aperto venerdì 24 febbraio col saluto del presentatore Paolo Barnard e dei cinque relatori del convegno, tutti economisti ed accademici di scuola keynesiana, di cui tre statunitensi, un canadese ed un francese (Alain Parguez).
Dando l’incipit all’evento, Barnard, dopo avere denunciato il silenzio assordante che tutti i media mainstream avrebbero immancabilmente riservato al convegno, ha dato atto all’uditorio di alcuni saluti pervenutigli da personalità “autorevoli”, che auguravano all’evento una buona riuscita.
Due nomi su tutti: Giulio Tremonti e il generale Antonio Pappalardo. Qualcuno ha interpretato il saluto di quest’ultimo come un segnale di intesa ammiccante che alcuni settori delle forze armate italiane starebbero lanciando a quelle componenti ribelli della società, forse pronte a dichiarare “guerra” alla tecnocrazia europea, qualora gli eventi anche qui da noi dovessero prendere una piega “greca”.
Nel corso dei due giorni successivi, le tesi dei cinque economisti sono state esaustivamente esposte alla platea di Rimini, con innegabile abbondanza di argomentazioni tecnico-scientifiche.
Ha brillato per chiarezza espositiva Stephanie Kelton, la quale ha messo in evidenza due concetti essenziali:
1 – con l’avvento dell’euro, per la prima volta nella storia dell’economia mondiale, si è imposta ai popoli una moneta non sovrana, slegata dagli Stati;
2 – quel che il debito pubblico rappresenta per uno Stato, non può in alcun modo equivalere a ciò che il debito privato comporta per una famiglia o un’impresa.
Da tali princìpi generali, derivano importanti e molteplici corollari.
Innanzitutto, questo ritornello ossessivo che il sistema politico-mediatico dominante ci ripete ogni giorno a reti unificate, secondo cui non sarebbe mai possibile realizzare un buono sviluppo economico in presenza di un alto debito pubblico, è errato alla radice.
Anzi, con diagrammi e grafici, la Kelton ha avuto gioco facile nel dimostrare che, nella storia, a periodi di alto debito pubblico per gli Stati hanno sempre corrisposto dei momenti di ricchezza e benessere diffuso nel settore privato.
Inoltre, per qualunque Stato dotato di moneta sovrana, il debito pubblico non costituisce mai un problema: in tutta la storia degli Stati Uniti d’America, ad esempio, soltanto in una brevissima fase temporale (per la precisione tra il 1835 ed il 1837) si è potuta segnalare una eccedenza positiva di bilancio, come ha ricordato il prof. Auerback. In tutte le altre fasi, gli U.S.A. hanno operato sempre a deficit ma questo non ha certo impedito loro di diventare la prima superpotenza economica che ancora oggi sono (anzi, tutt’al più la forte spesa a deficit è la chiave del loro successo?).
Inoltre, il Giappone ha oggi un rapporto deficit-P.I.L. pari al 200% (mentre l’Italia ha un rapporto pari "solo" al 120%) ma non risulta a nessuno che in Giappone si segnali alcuna “emergenza” legata al deficit ed alla necessità di risanamento del bilancio statale giapponese.
Ogni politica di rigida austerità monetaristica – come quelle messe in campo in questo periodo nei Paesi dell’euro-zona – tutta quanta tesa a “ridurre drasticamente il deficit”, finisce inesorabilmente per innescare una recessione di lungo periodo, col paradossale effetto di aumentare il deficit a causa del crollo di produzione, consumi ed entrate fiscali.
In tale contesto, l’assurda pretesa di imporre ai Paesi dell’euro-zona addirittura l’obbligo del pareggio di bilancio da inserire nelle carte costituzionali appare come una pura follia e sul punto hanno concordato tutti i relatori intervenuti al convegno.
Il francese Alain Parguez, padre fondatore di una corrente di economisti definita “circuitisti”, si è contraddistinto per il taglio maggiormente dietrologico – e per molti versi inquietante - del suo discorso.
“L’euro – ha ripetuto più volte il prof. Parguez – è il simbolo dell’avvento di un nuovo ordine sociale totalitaristico, ideato dalle componenti più reazionarie delle elites franco-tedesche ed imposto progressivamente a tutta l’Europa”.
Tale progetto neo-autoritario sarebbe stato ideato nel periodo tra le due guerre mondiali ed avrebbe avuto nei francesi Francoise Perroux e Jean Monnet, nonché nel tedesco Schumann, i suoi maggiori assertori; la prima bozza del Trattato di Maastricht risalirebbe al 1943 e sarebbe ascrivibile al citato Perroux, mentre gli altri transalpini Jacques Attali (definito “amico di Massimo D’Alema”) e Francois Mitterand ne sarebbero stati i suoi continuatori in tempi più recenti.
Il disegno che si sta compiendo in questi ultimi anni – ha proseguito Parguez – mira sostanzialmente ad azzerare (ovverosia privatizzare) la funzione degli Stati nazionali, la cui esistenza è d’intralcio ai progetti di accentramento del potere in elites sempre più ristrette. In tale contesto, i Parlamenti nazionali sono destinati unicamente a ratificare delle scelte già prese altrove, da parte di poteri che non rispondono al popolo (e i cambi di governo recentemente imposti a Grecia e Italia costituirebbero un mero “assaggio” di quel che ci attende). I poteri oligarchici che hanno in mano i destini dell’Europa – ha concluso Parguez – non accetteranno mai per via democratica di apportare cambiamenti o correttivi a tale disegno oligarchico e soltanto un forte scossone dei popoli europei, finalmente liberati dal “pensiero unico” che ci pervade, potrebbe in qualche modo impedire la piena realizzazione di tale disegno.
Diversi relatori si sono inoltre soffermati sulla descrizione dell’attuale perverso meccanismo dell’emissione dei titoli del debito pubblico da parte dei Paesi dell’euro-zona che, ormai privati della sovranità monetaria, per fare cassa sono costretti ad accedere al mercato di capitali privati i cui “squali” finanziari (come Goldman Sachs e le altre grandi banche d’investimento), supportati dalle famigerate agenzie di rating, finiscono per diventare padroni dell’andamento dei tassi d’interesse, innescando così un processo di sempre maggiore indebitamento – come è già successo alla Grecia e come presto toccherà agli altri Paesi P.I.I.G.S. - impossibile da fermare con i tradizionali strumenti di politica economico-monetaria.
All’economista italiano Nino Galloni (già allievo di Federico Caffè), a cui Paolo Barnard ha concesso la platea per circa 10 minuti, è toccato il compito arduo e coraggioso di spiegare alcuni dei fondamentali passaggi (consumatisi “dietro le quinte”) preparatori all’avvento dell’euro, la moneta che avrebbe privato lo Stato italiano della sovranità monetaria.
Da dirigente del Ministero del Bilancio, Galloni ebbe ad assistere alla discutibile scelta, attuata sotto il dicastero Spadolini nel 1981 ed avallata dall’allora Ministro Beniamino Andreatta, di separare le funzioni del Ministero del Tesoro e della Banca d’Italia. Fino a quel momento, la nostra Banca centrale, in qualità di soggetto prestatore di ultima istanza, aveva sempre potuto acquistare i titoli del debito pubblico rimasti invenduti alle aste del Tesoro, svolgendo così una fondamentale funzione di calmiere dei tassi. Ciò che la Banca d’Italia ha smesso di fare a partire dal 1981 è stato dunque anticipatorio di quanto oggi accade alla B.C.E., il cui Presidente Draghi, non per caso, non smette mai di ricordare perentoriamente il divieto statutario per il suo istituto di intervenire nel mercato “primario” ad acquistare i titoli del debito sovrano degli Stati U.E. .
La vicenda raccontata da Galloni (recentemente autore del pamphlet “Chi ha tradito l’economia italiana?”) getta un po’ di luce sui meccanismi di ingigantimento del debito pubblico negli anni ’80 del secolo scorso, che l’intera opinione pubblica italiana attribuisce semplicisticamente alla presunta “gestione allegra” dei governi a guida di Bettino Craxi. Non sarà mica che il debito pubblico in quegli anni lievitò proprio grazie alla spirale di inevitabile innalzamento dei tassi, quale conseguenza diretta del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro? E come non ricordare, in tale contesto, l’astiosa rivalità tra l’allora Ministro socialista Rino Formica e il potente prof. Beniamino Andreatta (maestro di Romano Prodi), il quale osava appellare sprezzantemente il primo come “il ragioniere di Bari”?
Visto il successo del convegno, ora Paolo Barnard propone di insistere con la divulgazione della M.M.T., proponendo di fare arrivare anche nella bistrattata terra ellenica i cinque economisti già presentati a Rimini.
Meritano a mio avviso di essere segnalate anche alcune critiche, di chiaro segno ed ispirazione classico-marxista, alle teorie neo-keynesiane esposte a Rimini: faccio riferimento alle tesi esposte da Moreno Pasquinelli e da Alberto Bagnai nel blog “Sollevazione” (http://sollevazione.blogspot.com/).
Secondo tali critiche, la M.M.T. altro non sarebbe che una riproposizione del vecchio schema monetarista keynesista, insufficiente a spiegare la genesi delle crisi del capitalismo che, come il buon vecchio Marx insegnava ne “Il capitale”, sono sempre determinate da una ricorrente sovrapproduzione di merci e di capitali, che solo una grande crisi (preferibilmente di natura bellica) è in grado di “bruciare”.
Comunque la si pensi, solo in un Paese arretrato e conformista come l’Italia le tesi esposte a Rimini dai cinque economisti neo-keynesiani possono apparire “sovversive” o “complottistiche”: la verità è che negli ambienti che ruotano attorno a mister Obama la M.M.T. trova già un certo spazio e consenso, visto che alcuni degli esponenti della stessa scuola sono stati recentemente nominati all’interno di una commissione governativa che avrà il compito di riformare la FED.
E’ questo forse il segnale che una parte del capitalismo americano ha già compreso che, analogamente a quanto avvenne nel periodo post 1929, senza una ricetta di stampo neo-keynesiano non c’è via di uscita (neanche per loro) dall’attuale crisi?
8 marzo 2012
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