foto di Giada Silvestri |
IL
MARXISMO NEGATO
-150 anni di uso ideologico del
revisionismo e abuso storiografico dell’antirevisionismo-
di Lorenzo Mortara
RSU Fiom-Cgil
I clamori e gli
strascichi polemici per i 150 anni dell’Unità borghese d’Italia
non sono certo cosa nuova per noi. Ben più dell’abuso ideologico
del contrasto tra Nord e Sud, a noi sta a cuore la normalizzazione
fatta dalla storiografia ufficiale del conflitto fondamentale della
nostra società: quello tra borghesia e proletariato.
Poco
più di un paio di anni fa, pubblicato da Neri Pozza,
è uscito La Storia negata - il revisionismo e il suo politico,
libro a cura di Angelo Del Boca che ha la pretesa di
fare piazza pulita del montante revisionismo. Del Boca è sicuramente
lo storico che più s’è documentato sulle malefatte della
borghesia italiana in Africa, sotto l’impero fascista. Non si può
quindi associarlo minimamente al mare di pubblicisti e ciarlatani che
infestano d’omaggi la stampa borghese. Non di meno, il libro, che
assembla una decina di saggi di altri storici, è quanto di più
penoso si possa immaginare da contrapporre oggi al revisionismo.
Per
controbattere ognuno dei dieci argomenti revisionati, Del Boca si
avvale della risposta di uno storico specifico. I dieci storici
prescelti da Del Boca, tra il «meglio
che abbia prodotto la storiografia»
sono Mario Isnenghi, Nicola Labanca, Nicola Tranfaglia, Giorgio
Rochat, Lucia Ceci, Mimmo Franzinelli, Enzo Collotti, Aldo Agosti,
Giovanni De Luna e Angelo D’orsi. A costoro Del Boca affida il
compito di ripristinare la Storia dal Risorgimento al colonialismo,
dal fascismo alla Resistenza e dal cattolicesimo alla Shoah. Il
risultato di una decina di indagini tese a confutare il revisionismo,
è però la bancarotta dell’antirevisionismo che nulla ha ancora
capito della radici dell’avversario. E non ne ha capito un tubo
perché tali radici son ben conficcate dentro al suo stesso ceppo, e
fino a che non le sradicherà dentro di sé, sarà vana pretesa
quella di estirparle fuori.
L’unico
saggio che non mi abbia fatto storcere completamente il naso è
quello di Giovanni De Luna, Revisionismo e resistenza, nel
quale lo storico si limita perlopiù a ricostruire le vicende e le
varie interpretazioni di questo o quel gruppo sociale, senza mai
prendere veramente posizione in merito, fedele al mito ridicolo dell’
“obiettività”. Non so però se il De Luna si sarà accorto, alla
fine, di aver fatto della mera cronaca storiografica, una fotografia
della Storia la cui obbiettività non consiste altro che nel lasciare
chiuso e coperto il proprio obiettivo. Può darsi che una simile
scelta, ricalchi quella del libro, una delle cui tesi di fondo
sostiene come compito dello storico “quello, nobile e problematico,
di accertare la verità dei fatti” (Angelo D’Orsi - Dal
revisionismo al rovescismo). Non so di che storico si parli, ma
non certo dello storico d’oggi, bensì di uno qualsiasi del
Settecento, perché a ricercare la verità dei fatti, si finisce
sempre col trovarsi in mezzo alla metafisica dell’interpretazione
che, di nobile, non ha proprio nulla. In realtà, la ricerca
storiografica o ci racconta la verità della sua interpretazione, o è
destinata ad accertare solo i fatti allo stato grezzo della loro
volgarità. E infatti il libro trasuda volgarità dalla prima
all’ultima pagina, pieno com’è di sofismi, di discorsi
cervellotici e di frasi vuote e contorte che si contraddicono l’una
con l’altra, senza preoccuparsi troppo della logica.
L’impostazione
storico-volgare, appare fin dalla prima pagina quando Del Boca,
nell’Introduzione, contro il revisionismo si appella alla
solita ricerca storiografica super-partes che non ha nulla a
che fare con «l’uso
politico della Storia».
In realtà, l’unica ricerca storiografica attendibile è quella
fondata sull’uso politico, di parte. Infatti, quella presunta senza
scopo politico, è da sempre in disuso, dismessa per la semplice
ragione che la grande Storia è appunto Storia politica. Quanto più
grande è uno storico, tanto più sarà al centro del dibattito
politico. Non potrà sottrarsi alla sua collocazione. Tanto più che
in anni di ricerche si sarà fatto un’idea sulla Storia che
racconta e sulle idee politiche che l’hanno decisa. Tale idea non
potrà non essere filtrata nella sua stessa Storia. Come si può
volere, dunque, che ne sia al di sopra, cioè indifferente? La Storia
che non ha a che fare con l’uso politico è una favoletta fuori
dalla Storia.
Si
pretende l’indipendenza dall’uso politico della Storia quando si
è sicuri d’essere faziosi. L’uso politico della Storia non deve
essere confuso con la faziosità che è tutta un’altra cosa. La
faziosità è un abuso politico che nasconde parte della
documentazione per giungere a una verità tendenziosa. L’uso
politico della Storia, invece, quando è onesto, trasparente, non è
mai fazioso perché non ha bisogno di nascondere alcunché, si limita
a prendere posizione tramite la sua personale interpretazione del
materiale storiografico senza trincerarsi dietro una ridicola
imparzialità. Perché chi non è fazioso, in fondo, sa che anche la
Storia è un’arte, e chi non la sa inventare e si
attiene alla “verità storica” non ha la benché minima fantasia
per andare più in là dei sogni realistici che racconta.
Questi
saggi antirevisionisti sono tutti faziosi e lo sanno. Quando si
presentano come super-partes, si tradiscono da soli perché hanno la
coda di paglia. D’Orsi, per esempio, cita Salvemini per la sua
onestà intellettuale: «lo
storico che si dichiara obbiettivo o è uno sciocco o un uomo in
malafede, quasi un lupo travestito da agnello».
Salvemini invitava alla probità, a dichiarare le proprie passioni
per prenderne le contromisure, ma secondo D’Orsi, questo
significa anzitutto «essere
onesti sul piano intellettuale e rigorosi sul piano del metodo».
No! Tutto questo non c’entra niente col discorso salveminiano che è
molto, molto più semplice! Dichiarare le proprie passioni significa
semplicemente dirci dove si è militato, in quale partito e per quale
causa si abbia simpatizzato, di modo che più che noi, siano gli
altri a poter prendere le contromisure. Noi, infatti, se le
conosciamo, non dobbiamo prendere contromisura alcuna dalle nostre
passioni, abbiamo solo bisogno di andarci fino in fondo per vedere
quanto siano profonde, sentite e vere.
Nelle
biografie dei dieci storici, pubblicate in fondo al libro, veniamo a
sapere che sono professori in questa o quella accademia, come se
fosse importante anziché scontato sapere che abbiano studiato la
materia. Ci mancherebbe pure che fossero degli asini saliti in
cattedra! Il guaio è che nessuno ha il coraggio di dirci per quale
partito ha raccontato la sua Storia. Sono tutti apolitici nonostante
Agosti, Tranfaglia eccetera abbiano ruotato attorno ad ex-PCI e
dintorni più o meno come tutti gli altri. Stando a un simile
infantilismo, dovremmo sentirci a posto dalla rassicurazione che
fanno, ogni tre righe, di aver usato rigorosamente il metodo
storico! Come se ce ne fosse uno solo!
La
Storia che voglia essere obbiettiva nell’unico modo in cui può
esserlo, e cioè senza essere super-partes, è un fotografia un po’
particolare, che oltre a inquadrare un determinato periodo storico,
deve inquadrare politicamente e socialmente anche chi la scrive. La
Storia che si vuole rigorosa sul piano di un metodo universale, cioè
ideologico nell’accezione negativa e marxiana del termine, quando
pretende di raccontare tutta la storia trascurando deliberatamente la
storia molto più importante di chi l’ha scritta, non è che una
fotografia sfocata di nessun valore storiografico o culturale. Almeno
per noi.
Nelle
sue Lezioni di metodo storico1,
Chabod, ci avverte, un po’ triste, di aver scoperto l’acqua
calda: a dispetto di quel che credevano gli accademici pedanti come
lui, anche l’uso più rigoroso del (suo) metodo storico, non darà
mai l’ottusa obiettività, ma sempre una sua approssimazione,
figlia dell’interpretazione personale con cui uno storico ha
collegato i così mal detti fatti e documenti.
L’interpretazione è precisamente il metodo con cui uno storico li
mette assieme. Il metodo storico non è che il filo con cui uno
storico lega assieme i fatti. Quello che non hanno mai compreso gli
storici rimasti impietriti dalla superstizione “obbiettiva” che
gli si sgretolava tra le mani, è che fatti e documenti sono
anch’essi interpretazioni. Sono il risultato storico dei tentativi
umani di scomporre e semplificare l’immensa complessità del
“reale” per arrivare a una conoscenza il più approssimativa
possibile. Ci sono voluti migliaia di anni perché gli uomini
riuscissero a classificare le azioni più elementari come “fatti”.
Prima, nessun fatto riusciva a imprimersi nella testa degli uomini.
Ecco perché non può esserci obbiettività, perché fatti e
documenti, senza essere falsi, non sono “oggetto esterno”, ma
rielaborazione primordiale di quel che viene chiamato, sempre per
approssimazione, “soggetto” e che in realtà non esiste. Fatti e
documenti non sono che le forme più elementari di interpretazione
della realtà. Il metodo storico, in ultima analisi, si riduce a una
rielaborazione più complessa delle interpretazioni più semplici e
banali. Solo Travaglio può credere ai fatti separati dalle opinioni.
Da buon giornalista, pensa alla giornata, perché per il fatto
eclatante del giorno, basta l’interpretazione superflua di un
secondo. Per chi non s’accontenta di considerazioni tanto effimere,
fatti e opinioni sono la stessa cosa, sono uno la rielaborazione a un
grado più elevato dell’altra. Tra loro vi è un’indissolubile
interdipendenza dialettica. Un fatto è solo un opinione elementare,
ovvia. Senza la connessione con la sua interpretazione, un fatto non
sussiste, perché un fatto è la sua interpretazione e viceversa. A
complicare la vicenda, c’è ancora da dire che nessun
interpretazione viene dal cielo, ma è condizionata dai rapporti
sociali. Più precisamente l’interpretazione esprime la relazione
sociale che un individuo ha con un determinato fatto. Proprio per
questo, quando Chabod ci avverte che nonostante l’uso più rigoroso
delle fonti, le rielaborazioni possono essere una, nessuna o
centomila, tante quanti sono gli storici, in fondo non fa altro
che dirci che per venire a capo dei suoi studi, lui usa il metodo
liberale di indagine. Caratteristica del modo liberale d’indagine,
infatti, è credere alle mille e più idee che popolano il mondo più
o meno come monadi. Il metodo d’indagine marxista, invece, le
riconduce agli interessi sociali di classe, che sono due e soltanto
due. Il metodo liberale e il metodo marxista sono perciò gli unici
metodi storici di indagine che abbiamo a disposizione. Tutte le
sfumature sono riconducibili all’uno o all’altro sistema.
Il
metodo liberale rielabora fonti e dati su base interclassista, il
metodo marxista invece su quella di un rigoroso classismo. Dove il
metodo liberale vede uno scontro tra opinioni, quello marxista vi
scova dietro l’interesse di classe corrispondente. Il metodo
liberale è schiavo della Storia, quello marxista padrone. Proprio
per questo, il metodo liberale, non racconta mai la sua Storia, ma
quella che i protagonisti vorrebbero far passare ufficialmente. Usato
da destra tenderà a strizzare l’occhio alle versioni più soft
della gesta dei suoi beniamini. Usato da sinistra si schiererà a
difesa degli attori che meglio interpretano il copione della sua
pellicola storica. Il tutto, nauseando la platea con continui
sottotitoli che rimarchino l’obbiettività storica, cioè
l’incapacità dello storico di andare più in là di una conoscenza
elementare, didascalica dei fatti. Il metodo marxista mette tutto
questo medioevo del pensiero all’interno della sua Storia a
svolgere il ruolo che gli compete: il ruolo della serva. Non perde
tempo a raccontare la Storia degli altri che nulla sanno, racconta
direttamente in prima persona la sua che tutto comprende.
Qualche
superstizioso, arrivato fin qua, sarà preso dallo sconforto di un
assoluto relativismo. Dunque, penserà, non possiamo sapere la
verità? No! Un superstizioso effettivamente la verità non la saprà
mai, perché quel che lui chiama verità coincide proprio con la
verità super-partes. L’idea di una realtà che presenti almeno
due verità, è fuori dalla sua portata. Ed è fuori dalla portata
degli storici antirevisionisti, tutti tesi a trovare il giusto mezzo
tra le varie opinioni discordanti. Felici come una Pasqua per aver
trovato l’imparzialità, gli antirevisionisti non si accorgono che
la loro verità sta dalla solita parte, anche se pretende di stare in
mezzo. E mentre sta in mezzo super-partes, dal suo orizzonte scompare
la verità di classe, l’unica che stia a cuore e che sia di qualche
interesse per me.
L’oscuramento
del punto di vista di classe si vede fin dal primo saggio sul
Risorgimento di Mario Isnenghi – I passati risorgono. Memorie
irreconciliate dell’unificazione nazionale – nel quale
l’autore nota che «classi,
nazioni, appartenenze, identità sono “miti”, cioè processi
mentali d’ordine collettivo».
Ma nessun ordine collettivo inventa dal nulla il suo mito. Ogni mito
è riconducibile a un interesse concreto. Quando come criterio
generale si sceglie il mito della “nazione” si leggeranno
i dati in un determinato modo, quando si userà il mito della
“classe” in un altro. Nessuna pretesa, in quest’ultimo caso, di
verità assoluta, al massimo di verità di classe. È nel primo,
purtroppo, che si avrà pretesa di verità per tutte le classi!
Isnenghi,
imbevuto di metodo liberale, vede nelle truffe plebiscitarie del
Risorgimento, «l’espressione
– sfigurata – di un grande principio radicalmente innovativo: un
uomo, un voto». E chi non
vede l’espressione solo della fantasia accecata di Isnenghi, non
può che essere un «erede
esplicito o tacito dei Borboni».
Un erede che, per lo storico, non ha il diritto di irridere i
plebisciti solo a cagione dei brogli «omettendo
che era proprio il voto, il principio stesso di chiamare tutto il
popolo a votare, a costituire il motivo di scandalo all’epoca e la
discriminante tra il vecchio e il nuovo».
Un erede dei Borboni avrebbe effettivamente potuto irridere Isnenghi
in questa maniera, ma non tutti quelli che se la ridono di lui sono
eredi dei Borboni, magari sono semplici proletari eredi dei contadini
dell’ex Regno delle Due Sicilie. E prima di associarsi ai
sofismi di Isnenghi, tali proletari avrebbero potuto irriderlo in
altro modo. Nei brogli plebiscitari del Risorgimento, non ci fu
alcuna espressione sfigurata del principio “una testa, un voto”,
solo la ghigliottina elettorale con cui la testa più forte della
nascente borghesia sabauda, tagliò di netto il rischio di non
vedersi votata dalle tante zucche, ancora semi-medioevali, che non si
erano bevute la propaganda della sua Unità. Non “una testa, un
voto”, ma “nessun voto” camuffato da plebiscito per
giustificare l’incoronazione della borghesia sabauda al comando.
Nei plebisciti soltanto la trasfigurazione delle spine per i
proletari scornati. Del resto, come si potrebbe non sorridere per il
diritto di voto concesso a milioni di teste chiamate solo a fare da
gambe e braccia nell’incipiente schiavitù salariale del Capitale?2
All’analisi
di classe non sfugge, brogli o meno, l’enorme progresso portato dal
Risorgimento. Solo dopo l’unità borghese è possibile procedere
verso la soppressione di tutte le classi. Il modo di produzione
semi-feudale dei Borboni, infatti, non lo consente. Ora, se è vero
che i Borboni stavano introducendo elementi di capitalismo nel loro
regno, esattamente come i Savoia non erano completamente usciti dal
medioevo, questo significa solo che in Italia non erano già più
possibili due rivolgimenti nazionali, perché il capitalismo poteva
dispiegarsi solo se uno dei suoi stati sopprimeva sul nascere lo
sviluppo capitalistico dell’altro. Questo fecero i Savoia a
discapito dei Borboni. Ma come Marx ed Engels ebbero a scrivere nel
Manifesto del Partito Comunista, chiunque faccia proprio il
loro metodo, finché vede il nascente proletariato costretto ancora
nel medioevo, appoggia tutti i rivolgimenti borghesi, ma non trascura
«nemmeno per un istante
di promuovere nei lavoratori una coscienza – la più chiara
possibile – della contrapposizione mortale di borghesia e
proletariato, in modo che i lavoratori […] possano subito
rivoltare, come altrettante armi contro la borghesia, le condizioni
sociali e politiche che la borghesia deve affermare insieme alla
propria egemonia».
Smascherare
la truffa dei plebisciti, non serve per ridare il Regno delle Due
Sicilie ai Borboni, ma per toglierlo subito ai borghesi sabaudi e
consegnarlo ai proletari. Isnenghi non inquadra la Storia in questa
direzione, perché la vuole inchiodare al mito dello “Stato
Unitario” che pretende eterno. Di conseguenza, se la prende con
tutti i nuovi miti, come quello “padano”, nati nell’epoca della
sua putrefazione. Non si rende conto, lo storico “obbiettivo”,
che la reazione disgregatrice padana, è il risultato di chi non è
stato capace di promuovere l’unità borghese a un livello più
alto, sostituendo il suo stato classista con uno in via di
deperimento senza classi. La Padania è una delle tante, fantastiche
distorsioni che prende uno Stato borghese quando non trova altri
sbocchi per sorpassare una realtà che ormai gli va stretta. Sarà un
po’ difficile superarla con l’aiuto degli storici
antirevisionisti che gli montano la guardia, e tanto più abbaiano a
sua difesa quanto più gli attacchi si avvicinano al loro Sancta
Sanctorum: il vecchio PCI, il partito degli stalinisti italiani a
tutela dei burocrati di Mosca.
La
puzza della carcassa putrescente del vecchio PCI comincia a sentirsi
fin dal saggio di Tranfaglia dedicato all’avvento fascismo. Di
tutti i saggi del libro, quello di Tranfaglia è il più penoso.
L’ascesa del fascismo è vista come sconfitta dello stato liberale
e dell’occupazione della fabbriche del biennio rosso. Nulla
ovviamente ci dice Tranfaglia del perché sia stato sconfitto il
movimento di occupazione, del ruolo avuto in tutto questo dalla vile
codardia dei dirigenti del movimento operaio. La sconfitta
dell’occupazione della fabbriche avviene così come avviene un
temporale, che arriva passa e se ne va senza che nessuno possa farci
niente. In breve, il fascismo non è il risultato della lotta delle
classi, ma dell’incoscienza e dell’arrivismo senza scrupoli delle
classi dominanti. E infatti il libro termina con un ridicolo richiamo
ad un loro esame di coscienza, per evitare in futuro il ripetersi di
una simile tragedia. Non una parola sul tradimento dei socialisti che
al momento della rivoluzione, abdicano facendo l’impossibile per
sabotarla. Non una parola sui tentativi squallidi di pacificazione
col fascismo con cui i socialisti disarmarono la classe operaia,
mentre i padroni si armavano fino ai denti contro di loro. Tranfaglia
non fa parola di tutto questo per evitare che qualche anno dopo si
debba parlare anche del ruolo controrivoluzionario del PCI al momento
della caduta del fascismo. Ed è proprio per questo, per questa sua
copertura a una parte della storia che ha appoggiato, che
l’antirevisionismo ha le armi spuntate contro il revisionismo.
L’antirevisionismo
crede sia in gioco la Storia e la falsificazione orwelliana della
memoria. Non si accorge che dietro il revisionismo, ci sta
semplicemente la vecchia lotta di classe. Sconfitta su tutta la linea
la classe operaia nel 1989-91, col crollo dell’Unione Sovietica, la
classe padronale ne ha approfittato per rovesciare anche le
briciole delle ultime pretese in salsa costituzionale al suo dominio.
Il “rovescismo” di cui parlano gli antirevisionisti è tutto qua.
Gli è che un cappotto storico come il crollo dell’Urss non avviene
per caso, è figlio diretto della linea adottata da chi ha guidato la
classe operaia, per non andare troppo in là, dal crollo del fascismo
a quello dell’URSS. L’antirevisionismo non intende revisionare
nulla, perché non ne vuol sapere di rispondere alla lotta di classe
della borghesia con la lotta di classe del proletariato. Pretende di
mantenere in piedi il cadavere del vecchio PCI, ripristinando la sua
storia fallimentare. Ma non si può rimettere in sella chi si è
disarcionato da solo cadendo nella polvere nella maniera più
ignobile e vergognosa. L’unica soluzione sarebbe quella di risalire
il percorso storico per cercare di capire come sia stato possibile
dare le redini delle nostre sorti a fantini totalmente incapaci ed
inetti. Perché non si tratta di rialzare il vecchio PCI, ma la
classe operaia. Il revisionismo è solo apparentemente diretto dai
padroni contro Togliatti e soci, in realtà il vero bersaglio sono i
lavoratori. Se fosse solo per Togliatti, il revisionismo
se lo terrebbe ben stretto: «Se
la classe padronale non avesse avuto in Italia un Togliatti, avrebbe
dovuto inventarlo: dove rinvenire un capo che, gravemente colpito in
un attentato, trova ancora la forza di una sola raccomandazione,
“niente avventure, niente sciocchezze”?»3.
È la classe operaia che si vuol delegittimare oggi come ieri. La
legittimazione o meno del vecchio PCI oggi non ha più alcuna
importanza, perché è stata risolta dalla Storia, ovvero dalla lotta
di classe, non dalle scaramucce tra revisionisti e antirevisionisti.
L’antirevisionismo, purtroppo, della classe operaia non si occupa
minimamente. Avendola disciolta nella Storia nazionale, non sa più
neanche se sia mai esistita. La sua unica preoccupazione è salvare
il suo vecchio idolo: Palmiro “Ercoli” Togliatti, il penoso
burocrate descritto da Gramsci, il ciarlatano italian-sovietico del
marxismo-leninismo. Di qui il timore che la riapertura degli archivi
di Mosca possa sporcare l’immacolata
concezione
che ha di lui. Ma non c’è alcun bisogno di mettere in cattiva luce
chi è rimasto sepolto, da vivo, sotto le tenebre dello stalinismo.
Che Togliatti possa essere qualcosa di diverso nonostante fosse
uguale a tutti gli stalinisti, è davvero una pretesa
antirevisionista. Non si può difendere il comunismo difendendo
l’indifendibile. Tanto meno si può difendere il comunismo italiano
separandolo da quello degli altri paesi come fanno Del Boca e Agosti.
Il comunismo o è internazionale o è lo stalinismo
in tutti i paesi! Se
si vuole difendere
il
comunismo, bisogna prendere in contropiede la borghesia, facendo
contro il vecchio PCI, in maniera molto più chiara, limpida e netta,
il lavoro di pulizia etnica che i padroni vogliono fare sottobanco,
nel loro solito, viscido modo contro i lavoratori.
Emerga
quel che deve emergere dagli archivi sovietici, i documenti che
abbiamo a disposizione bastano e avanzano per dare di Ercoli un
responso più che definitivo: Togliatti
è stato il più grande alfiere occidentale di Sua Maestà Stalin. Se
fosse stato una donna, sarebbe stato la sua regina.
Se
non fosse per un minimo di contegno che anche uno scritto come questo
deve avere, mi lascerei andare agli insulti, tante sono le offese
gratuite che la mia parte ha dovuto subire da Togliatti. Infatti, è giusto
ricordare che all’apogeo del suo Dio, Togliatti, per i suoi loschi
scopi, non aveva esitato a mettere in bocca al cadavere ancora caldo
di Gramsci, parole che non aveva mai pronunciato: «Trotsky
è la puttana del fascismo»4.
Gramsci si schierò inizialmente con Stalin, ma ebbe sempre molto
rispetto e stima per Trotsky, considerandolo uno tra i compagni che
lo avevano aiutato ad educarsi. Togliatti non esitò a calpestare
tutti e due per la sua disonorata carriera di stalinista. Non solo,
oltre a dire bugie dal pulpito di uno che aveva appena firmato
l’appello ai “Fratelli in camicia nera”,5
ebbe anche la vigliaccheria di scaricare la sua responsabilità nella
bocca degli altri. Lo storico senza metodo si arrabatta tra le
scartoffie per capire quanto Togliatti sia dipeso da Stalin, ma per
chi è armato del metodo marxista, i libri di Aga-Rossi e Zaslavsky6
non possono che confermare quello che anche senza leggerli si sapeva
già: nessun documento potrà mai smentire che Togliatti abbia
seguito in tutto e per tutto, come un cagnolino, quel cane morto di
Stalin. Il compagno Ercoli, oltre ad appoggiare senza riserve tutti i
processi farsa con cui Stalin sterminava la vecchia guardia
bolscevica, non fece parola, in segno di approvazione, dei milioni di
morti nei gulag. Se i dieci storici scelti da Del Boca, hanno il
sacrosanto diritto di accusare Pio XII di filonazismo e sostanziale
silenzio sulla Shoah, non si capisce perché l’antirevisionismo che
non dedica nemmeno un saggio al silenzio suo e del PCI sui gulag e
tutto il resto, non debba essere accusato analogamente di
filostalinismo. Tuttalpiù, visto il totale annullamento di Togliatti
nelle direttive di Mosca, la pretesa di Agosti e Del Boca di un
comunismo italiano diverso, si trasforma semplicemente nella credenza
che Stalin volesse per l’Italia un comunismo senza la «galleria
di orrori e di crimini»
perseguiti e voluti per la Russia. Ma è possibile che uno Stalin
avesse paura di spargere in Italia lo stesso sangue che versava in
patria? Evidentemente una simile tesi non sta in piedi perché
scaturisce da un’ipotesi di partenza priva di senso. E allora, come
dipanare l’inghippo? Girando semplicemente la prospettiva: il
comunismo di Unità Nazionale, come i fronti popolari, il terzo
periodo socialfascista eccetera, sono il necessario corollario della
politica estera di Stalin, per continuare indisturbato il criminale
massacro fatto in Russia con la politica interna. La politica di
Stalin fu controrivoluzionaria sia in patria che all’estero, e per
imporsi dovette muovere guerra ad ogni rivoluzione. Ed è ovvio che
lo scontro sia stato più cruento laddove una rivoluzione era
effettivamente avvenuta. Per imporsi in Russia dovette letteralmente
massacrarla. Senza affogare nel sangue la rivoluzione, Stalin non
sarebbe stato possibile. In altri paesi non fu necessario un simile
massacro perché bastò deviarla sul nascere nei rivoli del
democratismo borghese. La riprova è il massacro della rivoluzione
spagnola. In quell’occasione, infatti, gli stalinisti erano
l’ultima ruota del carro operaio guidato dagli anarchici. Non
avendo in mano il volante della classe operaia come in Italia, per
impossessarsene furono costretti a ricorrere alle maniere forti,
lasciando dietro di loro un’enorme striscia di sangue. E chi
dirigeva le armate di Stalin in Ispagna? Palmiro “Ercoli”
Togliatti, che però deve essere storicamente “diverso”
nonostante abbia fatto parte in tutto e per tutto del partito degli
“uguali”. Essersi macchiato direttamente di pochi crimini, non
significa essere tanto diversi se si è coperto tutti gli altri. E
infatti l’antirevisionismo non comprende che, potendo solo coprire
i crimini che non poteva commettere direttamente, il vero, grande
crimine di Palmiro Togliatti è stato quello di aver ammazzato sul
nascere tutte le rivoluzioni che avrebbe dovuto far fiorire. E come
Togliatti copre Stalin, l’antirevisionismo copre il PCI di
Togliatti esaltando come «evoluzione
democratica»
del PCI, quella che dal punto di vista di classe, è solo
un’involuzione borghese!
A
questo punto, la storiografia antirevisionista messa alle strette,
come ultima giustificazione, ama
generalmente tirare fuori la scusa del “contesto”. Per sua
disgrazia, non esiste alcun contesto storico, ma solo il pretesto
storiografico a tutela di una determinata scelta politica. Togliatti
e gli altri stalinisti vengono “imprigionati” dai loro adoratori
nella scelta obbligata del campo sovietico. Obbligatorietà che non
ha nessun riscontro storico. Nel maggio del 1927, appena fatta
fallire la rivoluzione cinese, un documento di Trotsky inchiodava
Stalin e la sua corte di burocrati come unici responsabili della
disfatta7.
Il comitato esecutivo del Comintern chiese di condannare unanimemente
le tesi sacrosante di Trotsky. La delegazione italiana formata da
Silone e Togliatti, chiese di poter vedere il documento. Stalin e
soci pretesero la condanna a priori. La scelta – ha scritto
Conquest – era tra «sottomettersi
a Stalin sperando di esercitare una qualche influenza, o di
andarsene».
Silone lasciò il partito, Togliatti «scelse
la prima soluzione, e vi persistette, rendendosi complice, negli anni
che seguirono, di molte e ben più importanti violazioni di
impegni»8.
Conquest, non ha capito a fondo il grande
terrore,
come tutto il resto, ma gli storici antirevisionisti che ne han
compreso ancor meno, possono leggersi una qualunque altra opera
didascalica sullo stalinismo, per mettersi definitivamente il cuore
in pace di fronte all’evidenza che tra il Cremlino e Togliatti ci
fu completa unità d’intenti criminali e controrivoluzionari.
Inoltre, Togliatti, non influenzò minimamente le scelte di Mosca, in
compenso lavorò come forse nessun altro per spaccare la colonna di
mercurio che misurava la febbre da stalinismo. E una volta presa
quella malattia, senza guarire un solo centimetro del suo essere, se
la portò nella tomba.
Si
aggiunga, di passata, un’osservazione estemporanea e puramente
astratta. L’idea che pur appoggiando in tutto e per tutto Stalin,
qualcuno possa pretendere per sé la patente di diverso, può essere
partorita solo da chi, nella difesa di tante nullità, vede
inconsciamente riflessa la tutela della sua stessa mediocrità
intellettuale.
Infatti, se per assurdo ci fosse qualcuno da salvare dello
stalinismo, questo qualcuno non potrebbe che essere Stalin stesso.
Perché dovremmo salvare, al posto dell’originale, le innumerevoli
imitazioni su scala ridotta? Stalin non farà mai più schifo dei
suoi più devoti seguaci. Se c’è qualcuno da incenerire
all’istante non è certo Stalin, ma chi, morto il dittatore, ne ha
subito approfittato per scaricargli addosso l’intera responsabilità
usandolo come parafulmine!
Eppure,
nonostante fulmini e saette, le nubi del revisionismo stalinista non
possono niente contro le schiarite del marxismo. In effetti, i dieci
piccoli saggi, più che cercare di ripristinare la Storia, sono solo
uno degli ultimi tentativi di mantenere in vita una storiografia che
ha perso, per sempre, la sua faziosa giustificazione storica. Non
bisogna nemmeno prendere troppo sul serio questi storici. Orfani del
PCI, perduta la bussola che ne avvalorava la chiave interpretativa,
sono destinati a passare via via tutti nel campo dei revisionisti o a
restare prigionieri nel campo santo delle storiografie che non hanno
mai avuto un’anima. È solo questione di tempo. Altra strada non
possono percorrere, non avendo alcun strumento alternativo che li
possa salvare da tale deriva. Lo si capisce alla fine del libro
quando, dopo averci rotto le scatole per oltre trecento pagine con la
Storia super-partes, né di destra né di sinistra, Angelo D’Orsi,
si rende conto che non possono esserci, giustamente, «memorie
condivise».
Ma una volta divisa in due la memoria, la Storia ritorna ad essere di
destra o di sinistra. E non potrebbe essere altrimenti. Perché mai,
infatti, dovremmo avere una memoria condivisa? Il 25 Aprile sarà
Festa
Nazionale
quando il Paese non sarà più diviso in classi, fino ad allora ogni
classe si terrà la memoria sua. Condividere oggi la memoria vuol
dire avere una memoria interclassista, liberale. E il liberalismo è
la memoria storica del capitalismo, la memoria interessata di chi
vuol scordarsi del marxismo. Solo festeggiando dalla nostra parte,
conserveremo l’integrità della nostra memoria storica. Il
liberalismo è la memoria corta del proletariato. Tuttavia, se
accorciare la memoria, per il liberalismo, vuol dire appiattirla
equiparando partigiani e repubblichini, solo un antirevisionismo da
quattro soldi può accontentarsi di non avere «dubbi
su quale fosse la parte giusta».
Lo sapevamo senza bisogno di revisionismo, antirevisionismo e
rovescismo, cioè di tesi, antitesi e sintesi della stessa matrice
storiografica di provenienza liberaleggiante. Non è importante
sapere l’ovvio sulla Resistenza, ovvero da che parte si schierò,
decisivo è sapere, rispetto ai partigiani, da che parte si è sempre
schierata la storiografia del PCI. Finché è stato in gloria, il PCI
ha dettato alla storiografia il mito della «guerra di liberazione
nazionale». Non c’era davvero bisogno di aspettare Claudio Pavone
per smantellare «uno dei pilastri della vulgata antifascista, ossia
la Resistenza come sola guerra di liberazione». Eppure, secondo Del
Boca & De Luna, è solo con la scomparsa della Prima Repubblica
che i temi del dibattito storiografico han cominciato ad essere
«modellati
sulle esigenze della politica e viceversa».
I due compari antirevisionisti non si sono accorti che il ripristino,
operato da Pavone, della guerra civile al posto della frusta guerra
di liberazione, coincide col crollo dell’URSS e il trasformismo del
PCI in PDS9.
Come si vede, il dibattito storiografico della Prima Repubblica, non
lasciando passare la realtà di una guerra civile, è politicamente
interessato tanto quanto quello della Seconda. Il libro di Pavone
segna soltanto il trapasso da una vulgata interessata e faziosa ad
un’altra ugualmente di nessun interesse storico che non sia fazioso
(anche se il suo libro non lo è, ed anzi è ottimo. Pessimo invece è
chi lo usa per i suoi scopi reconditi)!
Pavone
racconta la Resistenza «come
una guerra a un tempo patriottica, di classe e civile».
D’Orsi scrive che larga parte di resistenti lottò per un
rinnovamento politico e sociale. Lottò insomma per la rivoluzione,
parola tabù che l’antirevisionismo antirivoluzionario non può
pronunciare neanche sotto tortura, pena scoprirsi. Nella guerra civile, dunque, il nucleo
della Resistenza si schierò su posizioni di classe. Chi si schierò
allora sul versante patriottico? Il PCI naturalmente! Ma non fu
affatto facile con una scelta simile tirarsi dietro la classe operaia
come dà ad intendere l’Agosti. La classe operaia infatti marciò
in direzione ostinata e contraria rispetto alla linea del PCI. Lo
ricorda tra i tanti, Liliana Lanzardo, nel suo libro Classe
operaia e Partito Comunista alla Fiat:
«La
strategia della via democratica al socialismo passa, nei primi anni
del dopoguerra, attraverso la collaborazione governativa tra
borghesia progressista (quale? - Nda) e Movimento Operaio (leggi
soprattutto PCI – Nda) […] mentre la classe operaia nella
fabbrica si muove in direzione del tutto opposta a quella
dell’alleanza col capitale».
Cadono così tutti i presunti paradossi della storiografia
antirevisionista la quale vede il merito paradossale nel PCI che
incanala «energie
collettive più vive e reali dell’ideologia... [per]... trasformare
qui in Italia in anelito di libertà e di riscatto quelle stesse idee
che in altri paesi volevano dire totalitarismo e sterminio».
Qua, di paradossale, c’è solo la storiografia
obbiettiva
che scambia un interesse materiale per un interesse ideale.
All’origine dei partiti comunisti, ci sta l’idea classista di
rivoluzione, non interclassista di libertà. Ed è proprio la
negazione della rivoluzione a trasformare il bolscevismo nello
sterminio totalitario dello stalinismo. La resistenza si schierò in
massa col PCI perché ai suoi occhi incarnava l’idea rivoluzionaria
primigenia. Purtroppo, fu appunto per tutelare il suo stravolgimento
totalitario sovietico che il PCI la incanalò nel riscatto della
libertà di commerciò e della libera impresa del Capitale. Altro
riscatto, infatti, nell’Italia del secondo dopoguerra, non ci fu.
Il riscatto fu solo una farsa, terminata nel 1989-91. Quel poco che
la classe operaia riuscì a portare a casa, lo ottenne in generale
anche contro il PCI che nei momenti decisivi fece sempre da freno. E
si capisce, visto che i seguaci italiani di Stalin non stavano al
servizio della classe operaia, ma della cricca al Cremlino in
adorazione della Costituzione Repubblicana, cioè dell’atto
ufficiale con cui si faceva nascere la Repubblica sul cadavere caldo
e ancora fumante della rivoluzione. Un rito funebre mistificato nella
liberazione di una classe operaia che rinasceva a nuova vita! Chi
rinasceva nella Costituzione repubblicana e antifascista, era in
realtà il Programma
di Verona
della Repubblichina!10
Repubblica e Repubblichina non potevano annullarsi del tutto a
vicenda, essendo basate entrambe sugli stessi interessi della classe
capitalista. Non potendo essere all’altezza immaginaria della
rivoluzione democratica, preludio della ridicola via italiana al
socialismo, Ultima
Thule
dell’opportunismo, la Costituzione Repubblicana fu il perno della
restaurazione capitalistica. Per chi la sa leggere in termini di
classe, dunque, nella Costituzione è già presente il suo
smantellamento a restaurazione pienamente compiuta. Quanto più
avanza il dominio di classe dei padroni, tanto più la Costituzione,
avendo raggiunto il suo scopo, diventa obsoleta, sorpassata ed
inutile. Perciò, la Costituzione
è l’asse portante di tutte le leggi anticostituzionali.
Solo gli storici obbiettivi non l’hanno capito, ma questo significa
soltanto che gli storici obiettivi sono obbiettivamente
controrivoluzionari!
Che
il vecchio PCI abbia spacciato per difesa degli sfruttati, l’aver
retto il moccolo ai padroni, sfugge solo agli storici
antirevisionisti. E sfugge loro perché il loro metodo d’indagine
ha lasciato per strada l’unico fatto storico veramente
fondamentale: il marxismo. A che serve perdersi nei rivoli dei
milioni di fatti secondari, quando si trascura l’unico filo
conduttore in grado di legarli insieme tutti quanti? Eppure è quello
che hanno fatto questi storici. Sembra che per questi storici
l’obbiettività possa permettersi il lusso, evidentemente borghese,
di giudicare il vecchio PCI indipendentemente dai canoni del marxismo
cui ha sempre sostenuto di richiamarsi almeno fino al Memoriale
di Yalta,
testamento politico di Togliatti del 1964. Scorrendo l’indice dei
nomi, scopriamo che Stalin è richiamato sei volte, Togliatti sei
volte Stalin, Marx, Engels, Lenin, Trotsky e Rosa Luxemburg manco
una!
Renzo
De Felice, più volte bastonato nel libro, ne Il
fascismo, Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici11,
sostiene che per comprenderlo, la storiografia non possa esimersi dal
fare i conti con tutte le sue principali interpretazioni. Quello che
De Felice sostiene per il fascismo, vale per tutti gli altri
accadimenti storici. Nessuno dei dieci saggi proposti da Del Boca
prende in considerazione il marxismo. Il marxismo è rimosso,
sostituito dalla storiografia più o meno ufficiosa dello stalinismo.
Tutto sommato anche De Felice espunge dalla sua raccolta
l’interpretazione marxista, visto che considera tale quella minore
di Dobb e Sweezy, trascurando quella ben più importante e decisiva
di Trotsky, al quale dedica poco più di un cenno per quanto
positivo. Proprio la mancanza del marxismo, rende pressoché inutile
la ricerca storiografica di De Felice, in quanto monumentale finché
si vuole ma pur sempre monca. Tuttavia, De Felice, può anche essere
scusato, visto che non ha mai flirtato col marxismo. Ma non può
essere scusato minimamente di una simile rimozione chi al marxismo ci
ha comunque girato attorno. Un solo timido confronto con l’analisi
marxista e anche le ultime illusioni democratiche degli storici
obiettivi si sarebbero sciolte come neve al sole.
Aldo
Agosti, che vorrebbe rilegittimare il PCI, esalta infelicemente il
suo ruolo di gendarme. Ricorda il caso di Otello Montanari, ex
partigiano che nel 1990 osò denunciare la copertura offerta dal
Partito, attraverso l’espatrio in Cecoslovacchia, agli assassini
dell’ingegnere Arnaldo Vischi, direttore delle Officine Reggiane.
Lascio a Pansa di sputare ipocritamente sui partigiani, per parte mia
non ho niente da dire, in una guerra civile qualche eccesso è
fisiologico e se crimine c’è stato, deve essere un tribunale di
partigiani del popolo a giudicarlo. Nessun altro tribunale è
legittimato a farlo, perché è infinitamente più insanguinato e da
condannare alla sbarra del più odioso dei criminali partigiani, i
quali comunque in generale uscirono dalla Resistenza in maniera
pulita ed esemplare. Quello che mi preme sottolineare è la faziosità
dello storico obbiettivo. Intravisto il suo amato partito sotto tiro,
è subito venuto in soccorso con una sviolinata tesa ad esaltarne la
«scelta
democratica».
Finito il concerto, s’è ritirato negli archivi del PCI, per tirare
fuori i documenti che comprovassero come il guardasigilli Togliatti
«desse un duro giudizio negativo degli “illegalismi” e parlasse
apertamente di germi di degenerazione nel partito, di “malattia del
mitra”».
Qui innanzitutto, un archibugio bisognerebbe davvero tirarlo fuori,
ma per abbattere una bella scarica di sale su questi storici odiosi e
ottusi che esaltano il “pacifismo” di uno stalinista, senza farsi
venire il dubbio che la striscia di sangue che si porta dietro, renda
ancora più ridicolo e ipocrita il suo opportunistico, falso
richiamo. Infatti, l’Agosti, si è dimenticato alcuni piccoli
particolari. È strano, innanzitutto, come la scelta democratica
(borghese, ovvero democratica solo per la borghesia), per altro scelta da Mosca, sia coincisa con un clima
interno di omertà spezzato solo nel 1990 dalla voce di un ex
partigiano. Doppiamente strano che la scelta democratica, in
cinquant’anni, abbia solo insegnato al Partito come espellere il
Montanari dall’Anpi, dalla presidenza dell’Istituto Cervi, e come
toglierlo dalla commissione regionale di controllo del Partito
stesso. Non c’è che dire: una perfetta scelta democratica che
ricorda in tutto e per tutto l’opzione “purga”, cioè la stessa
opzione stalinista scelta cinquant’anni prima. A scegliere la
democrazia per gli altri son capaci tutti, è garantirla a quelli che
ti son vicini che è difficile. Il metro giusto per valutare una
scelta democratica, è misurarla su sé stessi e il proprio gruppo.
Se all’interno del proprio gruppo non si vede, non c’è stata
alcuna scelta democratica, ma solo un’imposizione burocratica delle
proprie menzogne. E in effetti mentre l’Agosti è convinto che si
sia «guariti
dalla malattia del mitra»,
anche qua non ci vorrà molto per capire che è facile guarire da una
malattia che si attribuisce ad altri. Mentre infatti si dà per
malati
di illegalismi
i soli compagni sani, quelli pronti all’insurrezione
rivoluzionaria, l’Agosti si è dimenticato di dire che il senso
dello Stato (borghese!)
e delle legalità era così ben difeso e rappresentato da Togliatti,
che mentre spediva in Cecoslovacchia i suoi, sulla stampa di partito
metteva in conto i delitti a quei fascisti dei trosko-bordighisti del
Partito Comunista Internazionalista. È facile fare il paladino della
legalità, quando la borghesia ti dà il permesso di reprimere i tuoi
stessi eccessi di stalinismo scaricandoli sulle spalle dei
rivoluzionari autentici.
Abbiamo
così chiarito tutti i misteri della beatificazione antirevisionista
del PCI in risposta alla demonizzazione revisionista. Tenuto conto
del voto dato all’integrazione dei patti Lateranensi nella
Costituzione Repubblicana, possiamo ben definirla un’appendice di
Storia vaticana. Resta soltanto da inserire revisionismo e antirevisionismo
nella giusta collocazione di classe che gli compete.
Il
revisionismo è il concentrato chimicamente puro dell’ideologia
borghese. L’antirevisionismo piccolo borghese a tutela del
giustificazionismo è un prodotto ad un tempo storico e storiografico
di un marxismo bastardo. Ma un marxismo bastardo è pur sempre un
liberalismo di razza! Ecco perché il revisionismo vince a mani basse
contro l’antirevisionismo. L’antirevisionismo è il codismo del
revisionismo, la pezza d’appoggio per ogni ulteriore suo slancio.
Il revisionismo è la politica giusta di una classe borghese che sa
quel che vuole; l’antirevisionismo è la difesa senza più diritto
d’appello di una politica controrivoluzionaria e radicalmente
sbagliata dei dirigenti della classe operaia. Il revisionismo ha
coscienza da vendere tanto quanto l’antirevisionismo è incosciente
d’essersela venduta. Il revisionismo nega la nostra storia, la
storia di classe, l’antirevisionismo interclassista afferma di
meritarselo!
Di
ogni libro contro il revisionismo è sufficiente leggersi l’indice
dei nomi: se non compare, e pure in abbondanza, quello di Lev
Trotsky, uno dei tre nomi in codice del metodo d’indagine marxista,
può essere immediatamente messo all’indice dei libri faziosi. Il
marxismo negato è solo il riflesso della momentanea vittoria
borghese. Con la ripresa rivoluzionaria, la negazione della
negazione, ripristinerà finalmente la Storia, affermandolo...
Stazione dei Celti
Novembre 2012
1 Laterza
2 Ricordo
che al momento della loro
Unità, il voto è per censo e riguarda circa il 2% della
popolazione. Come si vede, non c’è alcun principio trasfigurato
di “una testa un voto”. Le truffe plebiscitarie sono la
raffigurazione precisa della reale Unità d’Italia: “tante
teste, nessun voto”. Bisognerà aspettare la Resistenza e il
secondo dopoguerra perché, col voto alle donne, la fantasia di
Isnenghi, “una testa, un voto”, si trasformi in realtà. E non
poteva essere altrimenti, solo la classe operaia poteva conquistarsi
il diritto di voto, non poteva ottenerlo per grazia ricevuta dalla
borghesia. La borghesia si guarderà sempre dal concedere diritti
alla classe operaia, perché i diritti della classe operaia sono la
negazione dei privilegi borghesi. Quando, come per il suffragio
universale, lo farà perché costretta sotto pressione, farà sempre
in modo che non vada a ledere i suoi diritti fondamentali: il libero
commercio e la libera compravendita. Farà in modo, insomma, che il
voto non serva più di tanto.
3 Così
un giornale borghese rendeva omaggio al capo del PCI, subito dopo
l’attentato. L’articolo è di Federico
Artusio [Umberto Segre] in L’Astrolabio,
n. 16, 10 Settembre 1964.
4 Antonio
Gramsci capo della classe operaia,
in Scritti su Gramsci
di Palmiro Togliatti, Editori Riuniti.
5 Per
la salvezza dell’Italia, riconciliazione del popolo italiano!
- Questo il titolo di un appello dell’Agosto 1936, pubblicato in
Francia in «lo
Stato Operaio»
(n°8). All’epoca Stalin aveva deciso di sondare le possibilità
di un accordo con Mussolini. Entusiasta di tanta coerenza coi
principi del marxismo, la servitù rossa d’Italia non aveva
esitato a lanciare quell’appello, nel quale sono contenute chicche
irripetibili come questa: «FASCISTI DELLA VECCHIA GUARDIA! GIOVANI
FASCISTI! Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a
voi ed a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma
fascista del 1919...». Non mi riesce di proseguire tanto mi vien da
vomitare ogni volta che lo rileggo, ma chi volesse conoscere il
seguito dell’Appello a firma di Togliatti, Longo, Di Vittorio
eccetera, per dare ai lavoratori due
dittature borghesi
in un colpo solo, può trovarlo ancora oggi riportato in Pagine
anticlericali
di Ernesto Rossi, Massari Editore, Bolsena, 2001.
6 Mi
riferisco in particolare al loro libro Togliatti
e Stalin: il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di
Mosca (Elena Aga-Rossi, Victor Zaslavsky) – il Mulino, 2007.
7 Si
tratta del documento La
rivoluzione cinese e le tesi del compagno Stalin,
in Opere Scelte
di Lev Trotsky, Vol. VIII, Prospettiva Edizioni, 2006.
9 È
del 1991, il lodevolissimo libro di Claudio Pavone, Una
guerra civile, saggio sulla moralità della resistenza,
Torino, Bollati Boringhieri.
10 Si
vedano le analogie tra le due carte, nel libro Togliatti
guardasigilli 1945-1946,
di Arturo Peregalli e Mirella Mingardo, Colibrì. Repubblica e
Repubblichina si basavano entrambe sul lavoro, ed entrambe
riconoscevano il primato dell’iniziativa privata individuale
nell’interesse generale della società (s’intende per le loro
azioni...!).
11 Laterza
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