Questo
breve saggio nasce da una tesina di master, datata 2004, che
successivamente ampliai, perché trovasse posto in un volume dedicato
all’argomento psyops
- volume che, a quanto mi consta, non vide mai la luce.
Dopo
tanti anni, pensavo che lo scritto fosse ormai irrimediabilmente
perduto; ritrovare il file, disperso in una cartella del mio
computer, ha costituito per me un’emozionante sorpresa.
Ho
riletto rapidamente il testo, piuttosto scorrevole, e ho deciso di
pubblicarlo – di pubblicarlo
così com’era,
con soltanto qualche piccola correzione ortografica (per lo più
errori di battitura, non rilevati dal correttore all’epoca).
Certo,
avrei potuto modificare qualche passaggio, o al limite aggiungere un
capitolo riguardante il periodo – densissimo di eventi, anche
tragici – che va dal 2004 a questa fine d’anno 2012, ma,
riflettendo un poco, ho subito realizzato che apportare dei
cambiamenti sostanziali sarebbe equivalso a falsificare
un documento.
Parlo
di “documento”, perché quelle lezioni su psyops,
cui assistetti nella primavera del 20041,
mutarono in qualche modo la mia percezione della realtà (sociale)
esterna, costringendomi a sottoporre a critica delle convinzioni
oramai sedimentate, delle “certezze”. Di più: lo studio dei
meccanismi di guerra psicologica mi svelò in che modo, e per quali
fini, versioni di parte e vere e proprie menzogne mi erano state
convincentemente proposte (di fatto, imposte)
come verità di fede.
Quei
pomeriggi, e la loro eco nella mia mente furono dunque un giro di
boa, anche se, ovviamente, non determinarono una fulminea conversione
sulla via di Damasco: da italiano avevo già una dolorosa esperienza
della propaganda mediatica e, a trent’anni e passa, avevo ben
chiaro che, tra il Rambo reaganiano e i sovietici, i più “cattivi”
non erano di sicuro questi ultimi. Intuire confusamente è però cosa
ben diversa dal comprendere: quanto appreso in via Tigor mi fornì
gli strumenti per osservare il mondo con
un minimo
di obiettività, senza partigianeria indotta.
Come
dirò in seguito, ci furono delle ricadute – perché l’essere
umano si sente più rassicurato da una narrazione cucita su misura
per lui che non dalla cruda realtà dei fatti -, ma non ho più
abbandonato la strada del dubbio, dell’analisi e del confronto. In
un certo senso, il più ambizioso saggio “Invito al Socialismo”,
del 2009, è il logico svolgimento di questo scritto, che sottopongo
al vostro giudizio di lettori.
Ribadisco:
non è arduo trovare, nelle pagine che seguono, prove dell’ingenuità
del neofita. Durante una delle lezioni chiesi al relatore, un alto
ufficiale dell’esercito, se la guerra psicologica fosse usata,
oltre che contro target
nemici, anche “a casa propria”, per influenzare le percezioni
della popolazione civile. Mi assicurò di no, e nel mio saggio –
seppure con qualche titubanza, come si vedrà – accolgo il suo
punto di vista che, da bravo soldato, egli presentava come un dato
obiettivo. Oggi, sono profondamente persuaso che il principale
bersaglio della guerra psicologica occidentale siamo proprio noi,
cittadini di Europa e Stati Uniti; e che in questa opera di
“rieducazione”, attuata alternando il bastone alla carota, le
elite
capitaliste hanno investito moltissimo, con risultati (per loro)
soddisfacenti. Anche psywar
può essere una guerra civile, condotta con mezzi non convenzionali.
Del
resto, l’unica parte del saggio che oggi mi sentirei di “rinnegare”
sono le conclusioni, che tuttavia vanno considerate un’eloquente
testimonianza dell’efficacia di psyops.
Mi spiego: dopo aver offerto, in
primis a
me stesso, prove incontrovertibili della cattiva fede e della
doppiezza dell’uomo occidentale, a pagina 68 metto, da babbeo, il
piede nella tagliola ed esalto, senza ironia, il ruolo del mondo
libero –
insomma, mi lascio catturare dall’emozione (capture
their minds)
e finisco per arruolarmi tra i patrioti occidentali in guerra contro
il mondo mussulmano. Colpa imperdonabile per un osservatore,
perdonabilissima per un essere umano: sono proprio le nostre
debolezze, le nostre paure che i guerrieri psicologici sfruttano per
vincere le loro battaglie, in pace e in guerra.
Devo
ammettere che questo “patriottismo occidentale”, quotidianamente
rinfocolato dai media,
affiora anche in un mio articolo del 2007, mai pubblicato, dal titolo
“Un’ipotesi per Nazanin”, in cui – da ingenuo – mi abbevero
alle fonti della propaganda anti iraniana; neppure oggidì, credo,
sono completamente libero da questo condizionamento
storico-culturale. D’altra parte non sono una mente astratta: sono
un mitteleuropeo di lingua italiana e di formazione cattolica, nato
negli anni ’70 del secolo scorso.
Nessun
essere umano sarà mai totalmente obiettivo: l’importante è
rendersene conto.
Oggi
le operazioni psicologiche andrebbero studiate con particolare
attenzione, perché il principale campo di battaglia è l’Europa.
Frasi come “abbiamo
vissuto al di sopra delle nostre possibilità”
e “non
c’è alternativa al rigore”
sono messaggi psyops,
efficacissimi perché semplici e terrorizzanti: i media li diffondono
quotidianamente, instradando l’opinione pubblica sulla via della
rinuncia e della servitù. Mi sento di dire, senza tema di smentita,
che la crisi economico-finanziaria in corso è una vera e propria
aggressione militare, portata avanti secondo modalità non
convenzionali da una classe sociale che intende distruggerne, o
meglio schiavizzarne un’altra.
Le
strategie adoperate in Grecia, Portogallo, Italia ecc. andrebbero
scientificamente studiate, e forse, un domani, produrremo un saggio
sull’argomento.
Le
nude analisi, però, non bastano: come qualcuno ci ha insegnato,
limitarsi ad interpretare il mondo è improduttivo, se non si è
disposti, poi, a lottare per cambiarlo.
Buona
lettura, amici e compagni.
Trieste,
novembre 2012
1.
Che cosa sono le operazioni psicologiche
“Persuade
change influence”:
è il motto che compare sull’insegna reggimentale del 4° Gruppo
aviotrasportato operazioni psicologiche (“Fourth Psychological
Operations Group”) dell’Esercito degli Stati Uniti d’America,
con base a Forth Bragg, nella Carolina del Nord. Assurto, senza
volerlo, agli onori della cronaca per effetto della presenza -
scoperta e documentata dalla stampa2
- di personale militare specializzato in “psyops”
tra i giornalisti della CNN, il reggimento ha per l’appunto il
compito di condurre operazioni psicologiche, tanto in tempo di guerra
che di pace, nei confronti di Paesi nemici od anche solo
potenzialmente ostili agli Stati Uniti.
Ma
cosa si intende esattamente quando si fa riferimento ad operazioni
psicologiche? Lo scopo è efficacemente riassunto in una frase
d’impatto: “Cattura
le loro menti, i loro cuori e le loro anime seguiranno”.
Più in concreto, “le operazioni psicologiche militari (PSYOP) sono
l’insieme di prodotti e/o azioni che condizionano o rafforzano
attitudini, opinioni ed emozioni di specifici target
quali governi di Paesi stranieri, organizzazioni, gruppi o singoli
individui al fine di indurli a comportarsi in modo tale da supportare
gli obiettivi di politica nazionale3”.
Le unità di psyops,
inquadrate oggidì nelle forze armate dei principali Paesi, impiegano
mezzi di comunicazione di massa come radio, televisione, volantini, e
messaggi mirati - e-mails
e sms
indirizzati ai principali uomini politici e personalità di spicco -
oltre che banali altoparlanti nel corso delle operazioni sul terreno,
al fine di influenzare e persuadere opinioni pubbliche ed unità
militari straniere. L’esperienza dei più recenti conflitti ha
dimostrato che l’uso opportuno di attività psyops
può ridurre considerevolmente il morale e l’efficienza delle forze
nemiche, nonchè produrre dissidenza e disaffezione tanto tra le
truppe quanto in seno alla società civile d’un Paese. Alla luce di
questi dati fattuali ben si giustifica la crescente attenzione
riservata dagli stati maggiori, occidentali e non, alle operazioni di
psywar,
viste come sistema di armi non letali ed importante moltiplicatore
per quanto riguarda la protezione di forze ed il combattimento. Nel
corso delle due recenti guerre del Golfo, in effetti, le operazioni
sul campo sono state precedute e probabilmente facilitate4
dall’intensa attività propagandistica indirizzata ai civili e
militari iracheni nell’imminenza dell’attacco: risulta, tra
l’altro, che oltre 40 milioni di volantini, contenenti appelli alla
diserzione ed alla sottomissione spontanea, siano stati disseminati
sul territorio del Paese arabo5.
Per le medesime finalità è stato utilizzato l’aeromobile Command
Solo
dell’USAF che, dotato di sofisticate apparecchiature, può
trasmettere segnali radio in AM e FM, nonchè segnali TV in VHF ed
UHF da un’altezza di circa 6.000 metri.
Detto
quali siano gli strumenti di cui dispongono le moderne unità psyops
(emittenti radio e radiotelevisive, volantini ecc.), bisogna ora
sgomberare il campo da un possibile equivoco: l’arma psicologica
non sta nel mezzo scelto per colpire, bensì nel messaggio trasmesso
e nell’impressione che tale messaggio provoca nel target
cui è destinato. Per chiarire meglio il concetto citeremo un esempio
tratto da una recente pubblicazione specialistica.6
Nel
corso della prima guerra del Golfo i pianificatori dell’USAF ebbero
un’idea quantomeno bizzarra: si trattava di “creare” una
gigantesca immagine olografica sopra la città di Baghdad
raffigurante la figura di Allah e, come sottofondo, una voce grave
che descrivesse Saddam come un traditore ed un nemico dell’Islam.
Pur essendo il progetto tecnicamente attuabile - si trattava di
utilizzare speciali proiettori e di provocare, mediante irraggiamento
con microonde, il riscaldamento di strati dell’atmosfera in modo da
produrre la densità tra aria fredda e calda necessaria a... fare del
cielo un gigantesco schermo! - alla fine la proposta è stata
ritirata: non si era tenuto conto, infatti, che nell’Islam le
immagini di Allah sono proibite (come si può proiettare l’immagine
di un Dio che nessuno ha mai raffigurato?) e che inoltre ben
difficilmente i cittadini iracheni si sarebbero fatti impressionare
da una messa in scena buona semmai a seminare il panico tra gruppi di
primitivi superstiziosi! In sostanza si comprese che l’uso di
tecnologie pur avveniristiche (il mezzo) non avrebbe potuto sopperire
alla debolezza intrinseca di un messaggio ingenuo e - in ultima
analisi - sbagliato! Senza contare che le modalità di diffusione
appaiono, al senso comune, “un po’ troppo” innovative. Al
contrario, la propaganda veicolata attraverso strumenti relativamente
“semplici” e convenzionali, quali i volantini sparsi dagli
elicotteri, ha verosimilmente contribuito, nella stessa guerra, alla
rapida resa di piccole e grandi unità irachene.
Da
quanto appena visto si ricava un’ulteriore verità relativa a
psyops:
le operazioni psicologiche, per avere prospettive di successo, devono
essere precedute da un’attività diretta ad apprendere il maggior
numero di informazioni possibile sul nemico - in cosa crede, i gusti,
i punti di forza e di debolezza, la vulnerabilità, il complesso di
valori e credenze su cui la società si fonda. Solitamente gli
esperti ricollegano la diffusione delle operazioni psicologiche come
effettivo “sistema d’arma” ai grandi progressi fatti, nel corso
del ‘900, dalle scienze comportamentali, “che ora ci consentono
di conoscere e comprendere cosa c’è alla base di certi modi di
fare”7
ed ai rapidissimi sviluppi nella sfera della comunicazione di massa.
I primi impieghi coscienti e pianificati di armi psicologiche per
influenzare un conflitto risalirebbero agli anni della seconda guerra
mondiale. Nella letteratura specializzata non mancano mai riferimenti
a “Tokyo Rose”, l’emittente giapponese che trasmetteva musica,
propaganda e messaggi di sconforto nei confronti dei soldati
americani e dei loro alleati; né alle trasmissioni radio della
leggendaria BBC che, tra maggio e settembre 1940, quando l’invasione
tedesca dell’isola pareva imminente, inondò l’etere di
particolarissime “lezioni di inglese” dedicate ai militari del
Reich. I temuti nemici venivano invitati a far pratica ripetendo
frasi come “la nave sta affondando” e coniugando al presente il
verbo brennen
(“bruciare”). Per comprendere gli scopi dell’iniziativa, solo
all’apparenza innocua, va considerato che le frasi relative al
“bruciare nella Manica” confermavano, tra gli impauriti
ascoltatori, le voci diffuse a bella posta da agenti britannici sul
continente secondo cui la Royal Navy sarebbe stata in grado di
incendiare le acque del canale per impedire l’attraversamento
tedesco. La notizia, che oggi può far sorridere, era evidentemente
falsa: pure, nell’atmosfera di paura e agitazione di quei giorni,
venne presa sul serio dall’Alto Comando della Wehrmacht e contribuì
a dissuadere i vertici militari dal dare corso all’operazione
Seeloewe.8
In
sintesi, la seconda guerra mondiale rappresenta, secondo gli esperti,
il primo conflitto della Storia in cui le “armi psicologiche”
sono state usate sistematicamente e su larga scala dai contendenti:
sarebbe tuttavia erroneo affermare - come molti, fra i non addetti ai
lavori, sono tentati di fare - che l’utilizzo delle tecniche di
guerra psicologica risalga agli anni 1939-459.
Un
altro punto su cui soffermare la nostra attenzione riguarda la
veridicità o meno delle informazioni contenute nel messaggio psyops.
Non di rado si sostiene, nel presentare al pubblico la realtà delle
operazioni psicologiche, che le notizie veicolate sarebbero sempre
“vere”, od avrebbero comunque una base di verità.
L’assicurazione suona un po’ troppo politically
correct,
ed appare insostenibile alla luce degli esempi fin qui proposti, cui
molti altri potrebbero aggiungersi, tratti dalla storia ed anche
dalla cronaca più recente. In realtà, perché un messaggio possa
essere astrattamente efficace nei confronti di chicchessia (forze
combattenti, governanti od opinione pubblica) non occorre che
contenga una “verità”: è sufficiente che risulti credibile per
l’ascoltatore, che sia cioè “verisimile”. La verosimiglianza
va valutata in rapporto alle circostanze del momento, non in
assoluto: la minaccia di incendiare il canale della Manica non
sarebbe probabilmente presa granché sul serio, oggi, da un ipotetico
nemico della Gran Bretagna; ma, come detto, scosse ed impressionò
sia i comandi che i soldati tedeschi nel lontano 1940.
A
questo punto il lettore, sulla scorta dei numerosi esempi finalizzati
a dar maggior concretezza alle definizioni proposte inizialmente, si
sarà probabilmente fatto un’idea di cosa siano le psyops
e di quali ne siano gli elementi caratterizzanti. Riassumendo, si
tratta di operazioni militari attraverso le quali, tanto in tempo di
pace quanto di guerra, si cerca di trasmettere determinati messaggi
ad un target
straniero, al fine di orientarne percezioni e comportamento in senso
favorevole all’emittente. I mezzi usati, strumentali rispetto al
messaggio, vanno scelti in rapporto alla situazione concreta ed al
bersaglio che si intende raggiungere. Un tanto implica una previa
approfondita conoscenza del sistema di valori del gruppo/popolazione
contro cui è diretta l’azione. Le informazioni veicolate non
debbono necessariamente essere vere: è sufficiente che siano
credibili per il destinatario e provochino - a seconda dei casi -
timore, fiducia o simpatia nei confronti di chi si serve di psyops.
Prima
di procedere ulteriormente nell’analisi, è d’uopo distinguere le
operazioni psicologiche da altri tipi di azioni che, per diversi
ordini di motivi, si prestano ad essere confuse con le prime. La
“Diplomazia pubblica” è il tentativo, attuato però a livello
politico-diplomatico e non militare, di persuadere le opinioni
pubbliche straniere del contenuto e della saggezza delle proprie
politiche, intenzioni ed azioni: rientra in questo ambito il discorso
tenuto, alla vigilia del secondo intervento in Iraq, dal Segretario
di Stato USA Colin Powell davanti al Consiglio di sicurezza dell’ONU,
allo scopo di convincerne i membri dell’indispensabilità di
intraprendere una guerra preventiva contro Saddam Hussein.
L’iniziativa fu, come si ricorda, un clamoroso insuccesso della
diplomazia americana.
Inoltre,
il fatto che le psyops
siano per definizione dirette contro un obiettivo straniero basta ad
escludere dalla categoria (sebbene strategie e mezzi usati siano
sovente gli stessi) le ricorrenti campagne di disinformazione,
indottrinamento e/o propaganda cui, ancor più oggi che in passato, i
governi e chi controlla i mezzi di informazione sottopongono
l’opinione pubblica dei rispettivi Paesi, a prescindere dal livello
di sviluppo e dalle aree geografiche.10
All’interno
delle psyops
propriamente dette è ulteriormente possibile enucleare distinti
sottoinsiemi, in ragione vuoi della natura delle fonti utilizzate
vuoi delle finalità operative e dei diversi soggetti contro cui si
agisce.
Sotto
il primo profilo, si parla di psyops
“bianche” a proposito di quelle che apertamente e con precisione
annunciano la paternità del prodotto11.
Le psyops
“grigie”, invece, trasmettono messaggi diffusi con l’obiettivo
di evitare l’identificazione della fonte di emissione; a loro
volta, le informazioni di psyops
cd “nera” sono attribuite ad una fonte diversa da quella reale12.
Altra
suddivisione che abitualmente viene proposta è quella tra psyops
“tattiche”, psyops
“strategiche” e psyops
“di consolidamento”.
Mentre
le prime coincidono con attività intraprese in un’area
circoscritta e prevedono un impatto molto localizzato (per esempio,
la resa di una piccola unità nemica, da ottenere mediante lancio di
volantini ed uso di veicoli muniti di altoparlanti), le psyops
strategiche
vengono messe in atto mediante una campagna accuratamente pianificata
contro un obiettivo più grande di quello delle operazioni tattiche
(si può trattare di una importanti unità militari così come di
governi e gruppi di pressione); infine, le attività di
consolidamento hanno l’obiettivo di assistere le autorità civili e
militari nell’indispensabile opera di stabilizzazione dei risultati
raggiunti, una volta conclusa la guerra: non è sufficiente vincere
tutte le battaglie, se poi non si è in grado di mantenere l’ordine
pubblico e di assicurare un certo appoggio popolare al nuovo governo.
Terminata
la fase delle premesse con le distinzioni suaccennate, è ora
possibile introdurre il tema specifico di questo nostro lavoro.
Partendo dalla già riportata affermazione secondo cui “vi sono
numerosi esempi dell’uso della guerra psicologica in tutta la
storia”, abbiamo condotto una ricerca su varie fonti, antiche e
recenti, per accertare se ed in quale misura, prima della seconda
guerra mondiale, attività di condizionamento psicologico venissero
effettivamente utilizzate per il raggiungimento di obiettivi
militari; si tratterà poi di analizzare il carattere di operazioni
la cui eco è giunta fino a noi per verificarne la somiglianza o meno
con quello delle moderne psyops;
con la curiosità e l’assenza di preconcetti che debbono
accompagnare qualsiasi buona ricerca valuteremo infine, alla luce
degli elementi raccolti, l’attendibilità dell’asserzione secondo
cui la nascita delle operazioni psicologiche come effettivo “sistema
d’arma” deve essere fatta risalire all’ultimo conflitto
mondiale. Un’ultima avvertenza: per motivi di spazio a nostra
disposizione, solo un’esigua porzione del materiale raccolto potrà
formare oggetto di sommaria analisi nelle pagine che seguiranno13.
Tralasciando quindi episodi e fatti di minore interesse ci
soffermeremo su quelli che maggiormente hanno attratto la nostra
attenzione, in quanto almeno in apparenza più attinenti
all’argomento da noi trattato.
2.
Distruttori di città e maestri di propaganda
Giudicato
dagli esperti un “validissimo precursore di quella che oggigiorno è
una dottrina diffusa in ogni scenario operativo moderno14”,
cioè di psyops,
il cinese Sun Tzu è stato, nel VI secolo avanti Cristo, il primo a
teorizzare l’importanza del fattore psicologico sul campo di
battaglia. Nella sua - ancor oggi apprezzata - opera, “L’arte
della Guerra”, egli scrive infatti “... il
massimo dell’abilità consiste nel piegare la resistenza del nemico
senza combattere!”
Reso
il doveroso omaggio a quest’uomo di brillante intelligenza,
dobbiamo tuttavia chiederci se davvero nessuno, prima di lui, abbia
provato a far uso di tecniche di condizionamento o propaganda nei
confronti degli avversari, o ne abbia intuito l’importanza:
dopotutto l’epoca in cui visse Sun Tzu è relativamente recente, se
rapportata a quelle che videro la nascita dei primi grandi imperi, e
dunque dell’espansionismo umano.
Lo
stratagemma del cavallo di legno, descritto da Virgilio nell’Eneide,
ma attingendo a tradizioni ben anteriori, pose fine alla guerra di
Troia, conflitto che ebbe luogo al tramonto del II millennio a. C.
Sebbene la vicenda sia sospesa tra realtà e mito, c’è un
particolare che attira l’attenzione del cultore di psyops:
a convincere i troiani che gli achei hanno desistito dal decennale
assedio e si sono rassegnati a fare mestamente ritorno in patria è
un finto disertore greco, l’astuto Sinone, che, prestando le sue
parole ed un’adeguata “recitazione” al piano elaborato da
altri, ottiene che siano gli stessi teucri a trasportare entro le
mura lo strumento della loro distruzione, offrendo ai nemici la città
ed una poco dispendiosa vittoria.
Contemporaneo
degli eroi di Omero, il Faraone Ramses II è probabilmente il primo
sovrano ad averci lasciato un dettagliato resoconto d’una battaglia
da lui combattuta: quella di Qadesh, contro gli Ittiti, nel 1288 a.
C. Il combattimento, che impegnò due eserciti assai forti e
numerosi, fu esaltato dagli Egiziani con bassorilievi, iscrizioni su
templi e in altri modi. Su tutto e tutti domina la figura del giovane
Faraone, che a un certo punto pare abbandonato dai suoi: “Con
me non c’è principe né auriga / non c’è soldato né ufficiale
/ il mio esercito mi ha abbandonato / la mia cavalleria si è
ritirata / non si sono fermati a combattere contro il nemico / così
dice Sua Maestà”.15
E poi, a scontro concluso: “State
sicuri, rafforzate il vostro animo, / o miei soldati / Guardate: io
ho vinto / pur essendo solo, / perché ho Ammone come mio protettore.
/ Perché è così vile il vostro cuore, / Miei cavalieri?”
Dalla
lettura dei testi appare evidente che, oltre sette secoli prima della
nascita di Sun Tzu in Cina, Ramses il Grande avesse già ben chiara
l’utilità di magnificare le proprie gesta, e sia stato un abile
propagandista di se stesso: a ciò è dovuta in parte la sua fama,
ineguagliata da alcun Faraone delle due terre (con l’eccezione,
forse, di Tutankhamon, la cui celebrità è tuttavia legata
esclusivamente al ritrovamento di una tomba quasi intatta). Ha senso
tuttavia domandarsi a chi fosse diretta la propaganda del faraone che
andava in battaglia, il suo tentativo - riuscito - di conquistare le
menti e l’immaginazione. Certamente ai posteri: investiti di onori
divini, i sovrani egizi si preoccupavano non poco del ricordo che
avrebbero lasciato, e costruivano per l’eternità. Anche il
giudizio dei contemporanei, però, poteva essere convenientemente
influenzato: udendo narrare le eroiche imprese del principe,
vedendole ovunque raffigurate su monumenti maestosi, gli egiziani non
avrebbero avuto ragione di dubitare della natura sovrumana di Ramses,
e gli avrebbero obbedito ciecamente. Ma, al di là di questo, si può
ipotizzare che l’autoglorificazione del sovrano avesse anche una
finalità bellica, quella cioè di intimorire potenziali nemici
(oltre agli Ittiti)?
Sebbene
nella vicenda poetica il re di Kheta (Muwatalli), una volta viste le
sue schiere annientate dal Faraone, implori il magnanimo vincitore di
concedergli salva la vita, sappiamo che in realtà la battaglia si
concluse con un nulla di fatto: l’esercizio egizio rinunciò a
proseguire la campagna, e la cittadella di Qadesh rimase in mani
ittite. Lo stesso Ramses non mosse più guerra agli anatolici: anzi,
chiese ed ottenne la mano di una loro principessa per suggellare la
pace tra i due imperi. D’altro canto, se il fine delle iscrizioni
fosse stato quello di atterrire futuri nemici (visto che gli ittiti
conoscevano bene l’esito della battaglia, e a loro volta si
attribuirono la vittoria!), il messaggio veicolato dalla narrazione
non sembrerebbe granché efficace: in molti versi il Faraone chiama
“vili” i suoi guerrieri e li rimprovera di averlo sostanzialmente
abbandonato nell’ora del pericolo! E’ piuttosto da ritenere,
allora, che l’attività propagandistica avesse scopi squisitamente
interni, di consolidamento del potere regio a discapito, magari, di
quello della casta militare.
Sia
come sia, quella condotta da Ramses II non può essere considerata
un’operazione psicologica nel senso proprio del termine.
Più
o meno nello stesso periodo storico, ma nell’area oggi denominata
Medio Oriente, altri potenti sovrani dettavano iscrizioni di tono
molto differente rispetto a quelle di Qadesh. Ecco come si presentava
un re assiro16:
“l’eroe
conquistatore, il terrore del cui nome ha sopraffatto tutte le
nazioni; la luminosa costellazione che, secondo il suo potere, ha
mosso guerra a tutti i Paesi stranieri sotto gli auspici di Bel (...)
con una moltitudine di re ho combattuto, e su tutti loro ho imposto
il vincolo di servitù; non c’è alcuno pari a me nella battaglia.
(...) Al servizio di Ashur mio Signore radunai i miei carri e i miei
guerrieri... attraversai la regione di Kasiyaia, una terra difficile
(da percorrere). Ingaggiai battaglia con i loro 20.000 guerrieri ed i
5 re nel Paese di Comukha. Li sconfissi. I ranghi dei loro guerrieri
furono travolti in battaglia come da una tempesta. I loro cadaveri
coprirono le valli e le cime delle montagne. Tagliai le loro teste.”
A proposito di un’altra campagna: “Attraversai
il Tigri e presi la città di Sherisha loro roccaforte. I loro
guerrieri colpii come fiere nel cuore della foresta. Le loro carcasse
riempivano il Tigri, e le cime dei monti. (...) La città e il suo
palazzo bruciai col fuoco, distrussi e rasi al suolo.”
Ancora: “Tiglath
Pileser, il re potente, l’amante della battaglia, che ha spazzato
la faccia della terra.”
Le
parole appena lette, fiere e cariche di spaventosa violenza,
suscitano in noi un senso di raccapriccio più che di ammirazione: e
non sono certo le più crude tra quelle lasciateci dai monarchi
assiri17.
Ancor oggi, a distanza di migliaia di anni dalla caduta del loro
impero, i guerrieri di Ninive sono immaginati come sorte di demoni in
forma umana, che scuoiavano, uccidevano e stupravano per il solo
piacere di farlo: appunto, “amanti delle battaglie”. Ma stavano
realmente così le cose? Lo scopo dei sovrani mesopotamici era
davvero quello di essere ricordati dalle generazioni future come
mostri sanguinari, o c’era dell’altro, un valido motivo che
giustificasse simili iscrizioni? Per azzardare una risposta è
necessario esaminare successivi passi della fonte or ora citata (chi
parla è sempre il terribile Tiglath Pileser): “Gli
uomini dei loro eserciti si sottomisero al mio giogo (senza
combattere). Ebbi compassione di loro. Imposi loro tributi e offerte
(...) Io giunsi alla città di Milidia, appartenente al Paese di
Khanni-rabbi, che era indipendente e non sottomesso a me. Essi si
astennero dal venire a battaglia con me; si sottomisero al mio giogo,
ed io ebbi compassione di loro. Non occupai la città, ma imposi loro
in segno di fedeltà un tributo fisso...(...) Assediai la metropoli
di Arin, essi si sottomisero al mio giogo ed io risparmiai la
città...”
Nei suoi annali, d’altra parte, re Assurbanipal si proclama
“pastore,
protezione del mondo intero”;
inoltre, sotto il suo scettro “il
mondo intero è diventato liscio come l’olio”.
A
questo punto si fa strada l’ipotesi che, con il loro alternarsi di
toni ed esempi di condotta nei confronti delle nazioni sottomesse,
gli annali dei re assiri, più che un libro scritto col sangue dei
vinti, fossero il sofisticato strumento di un ben preciso disegno
politico, il cui obiettivo era di terrorizzare i potenziali nemici sì
da indurli a preferire la resa ad un annientamento che, altrimenti,
veniva eloquentemente promesso. Questa tesi viene sostenuta in un
articolo apparso di recente su un quotidiano nazionale18,
basato a sua volta su di un opera di carattere specialistico19.
Secondo l’autore i sovrani assiri sarebbero stati i primi a
teorizzare il principio della “guerra giusta”, oggi ripreso dagli
Americani; e l’affermazione della superiorità schiacciante delle
forze armate del re - l’esercito assiro, non solo la sua guida, è
sempre al centro delle vicende narrate, ed è lodato per la sua
invincibilità - sarebbe funzionale non tanto ad intimorire
l’avversario, quanto ad “evitare la guerra con la solo minaccia
della guerra, la dimostrazione di forza”. Il re non darà l’ordine
di attacco perché gli piaccia la guerra, che anzi aborre - prosegue
l’articolo - ma per il bene del mondo. In quest’ottica è
evidente che gli alleati che defezionano saranno trattati alla
stregua di nemici.
Cominciano
ad emergere elementi interessanti per lo studioso di psyops:
l’impiego di una categoria di professionisti alle dipendenze del
governo (gli scribi di palazzo) per la redazione di testi scritti;
l’ostentazione di forza finalizzata al conseguimento dei risultati
di una guerra vittoriosa senza che sia necessario combatterla; la
credibilità della minaccia così come delle promesse. Siamo agli
albori delle operazioni psicologiche? Dopo averlo - non solo
implicitamente - sostenuto, l’autore frena: “questi documenti di
propaganda differiscono per molti aspetti dalle giustificazioni delle
guerre moderne (...) si tratta di testi scritti per le audience
del futuro più che per i contemporanei”20,
chiosa alla fine.
Sottoponiamo
a critica quest’ultima affermazione, in apparenza poco coerente con
l’analisi che precede. C’è ad esempio un passo, nelle iscrizioni
già menzionate21,
che ci dà un’idea dell’importanza attribuita dal re alla
diffusione dei testi: “possano
Anu e Vul, i grandi dei, consegnare alla perdizione il nome di
chiunque danneggerà le mie tavolette e i miei cilindri, o le
inumidirà con l’acqua o le bruciacchierà col fuoco, ovvero - è
questo il passaggio più interessante - assegnerà loro, nella sacra
casa del dio, una posizione ove non possano esser viste o comprese
(...) “
e via maledicendo. L’elemento non è in sè decisivo: la minaccia
potrebbe essere rivolta ai sudditi, o addirittura alle generazioni
future (“possa
il suo nome e la sua razza perire”).
Esiste tuttavia un’altra fonte, ben più accessibile delle
iscrizioni assire, cui è possibile far riferimento: si tratta della
Sacra Bibbia. Nell’Antico Testamento gli assiri sono una presenza
costante e temuta: “portano
oscurità, non luce, morte, non vita”22,
ma sono anche il terribile strumento dell’Altissimo per punire il
Suo popolo quando si allontana dal rispetto della legge mosaica. Il
libro di Giuditta si apre con il racconto della campagna intrapresa
dal re degli Assiri contro il Paese dei Medi. Il signore di Ninive,
in vista della guerra, spedisce messaggeri ai popoli dell’oriente e
dell’occidente, ordinando loro di accorrere con le loro schiere e
di porsi sotto il suo comando: quelli però “disprezzarono
l’invito di Nabucodonosor re degli assiri e non lo seguirono nella
guerra, perché non avevano alcun timore di lui, che ai loro occhi
era come un uomo qualunque”23.
Offeso dalla risposta sprezzante, il re giura vendetta: dopo aver
sottomesso i Medi e ucciso Arpacsàd, loro re, egli allestisce un
esercito di centoventimila fanti e un forte contingente di cavalleria
e carri da guerra per “punire
con la distruzione chiunque non si era allineato con l’ordine da
lui emanato24.”
Ecco il compito affidato al generale Oloferne: “muoverai
contro tutti i paesi di occidente, perché quelle regioni hanno
disobbedito al mio comando. A costoro ordinerai di preparare la terra
e l’acqua, perché con collera piomberò su di loro e coprirò la
terra con i piedi del mio esercito e li metterò in suo potere per il
saccheggio. Quelli di loro che cadranno riempiranno le valli e ogni
torrente e fiume sarà pieno dei loro cadaveri fino a straripare; i
loro prigionieri li spingerò fino agli estremi di tutta la terra.25”
Inutile proseguire nella narrazione: dopo immani devastazioni e
stragi sarà la mano di Dio a fermare gli assiri.
Ciò
che importa realmente osservare è che il re menzionato nella Bibbia
usa lo stesso linguaggio delle Iscrizioni reali assire! L’assonanza
potrebbe essere casuale, o frutto della comune origine semitica dei
due popoli: ma è certo più logico ipotizzare che l’eco della
propaganda assira26
fosse giunta fino alla terra di Israele.
Se
così fosse, e non abbiamo ragione di dubitarne, dovremmo concludere
che i mesopotamici siano stati i primi a servirsi delle operazioni
psicologiche in ambito militare, con buon successo e
continuativamente. Per ricollegarci ai concetti enunciati nel primo
capitolo, si trattava di una propaganda “bianca”, con finalità
per lo più strategiche e di consolidamento, basata su rudi minacce
di annientamento cui faceva da contraltare, per chi si sottomettesse
spontaneamente, il balenio di opportunità di una vita migliore,
sotto il giogo benevolo dei sovrani di Ninive. “Parcere
subiectis, debellare superbos”:
il celebre verso virgiliano riassume efficacemente anche l’orizzonte
politico dei seguaci di Ashur. E’ appena il caso di notare che, per
crudele ironia della Storia, proprio la terra d’origine degli
antesignani di psyops
sia stata interessata, nell’ultimo quindicennio, da devastanti
conflitti nel corso dei quali, come mai in passato, si è fatto largo
uso delle operazioni psicologiche.
3.
Oriente contro occidente
Nonostante
la forza d’un esercito mobilissimo e l’oscuro fascino che ancora
esercitano sui moderni, anche gli assiri, con il loro impero,
svanirono ad un certo punto nelle nebbie della storia. Dalle
turbolenze che agitarono per qualche decennio il vicino oriente
emerse alla fine un potere nuovo: quello dei persiani, guidati dal
genio di Ciro il Grande (559-530 a.C.). Eccellente stratega e amante
della cultura e delle arti, conquistò in breve tempo la Media,
l’Assiria, la Lidia e tutta l’Asia Minore, gettando le basi di
quello che viene considerato il primo impero universale. Assai
interessante, ai nostri fini, è la strategia da lui scelta per
sottomettere Babilonia. L’ultimo sovrano della città, il
re-sacerdote Nabonedo, aveva sostituito al culto di Marduk quello
assiro, provocando malumore e risentimento tra i sudditi: forse per
paura di rivolte, risiedeva con la sua corte in un’oasi
lussureggiante, a gran distanza dalla capitale. Ciro sapeva tutto ciò
e, proclamatosi figlio di Marduk, conquistò le menti e i cuori dei
babilonesi, che gli aprirono le porte come ad un liberatore. L’uso
accorto della propaganda, reso possibile dalla perfetta conoscenza
dei costumi locali, gli garantì dunque una vittoria piena ed
incruenta27!
I
successori di Ciro, pur senza possederne l’acume politico-militare,
vollero imitarlo, lanciandosi alla conquista del mondo conosciuto.
Era inevitabile che, prima o dopo, la fertile Europa attirasse
l’attenzione dei sovrani achemenidi. La prima tappa della conquista
del continente non poteva che essere l’assoggettamento della
Grecia, ragionò re Dario. Pur se talvolta conflittuali, i rapporti
tra oriente persiano ed occidente ellenico erano continui e
stimolanti: l’inventore della storiografia greca, Erodoto, era di
casa in Asia Minore e nelle sue cronache narra diffusamente e con
ammirazione le vicende dei re persiani. Basta un fatto a darci la
misura della considerazione in cui i discendenti di Ciro erano tenuti
presso gli elleni: in lingua greca il termine “o
basileus”,
con l’articolo, stava a designare il re, di Sparta, Micene o
d’Egitto che fosse; solo il sovrano di Persepoli veniva indicato
semplicemente come “basileus”,
senza bisogno d’articolo determinativo: Re per antonomasia,
insomma, o Re dei re!
Questo
potentissimo sovrano marciava ora, alla testa di un esercito
sterminato, alla volta della Grecia. Il Paese era diviso in una
miriade di città-stato, le più forti delle quali erano Atene e
Sparta: non sarebbe stato un problema sottometterle, pensava
l’Achemenide. Invece la piana di Maratona fu testimone dell’eroismo
ateniese e dell’ingloriosa sconfitta di Dario (anno 490 a.C.).
Morto
quest’ultimo, il giovane ed audace re Serse decise di vendicare
l’umiliazione patita dal suo predecessore. Non è questa la sede
per trattare di quella lunga campagna, conclusasi com’è noto con
la distruzione dell’esercito e della flotta persiani: più
proficuo, ai fini della nostra ricerca, è analizzare gli sforzi
indubbiamente fatti dal Gran Re per convincere i greci
dell’inopportunità di resistergli, ed il perché del loro completo
fallimento. La fonte, preziosissima, è lo storico greco Erodoto che,
all’epoca degli eventi narrati, era un fanciullo.
Radunata
un’immensa schiera28,
formata con contingenti provenienti da ogni regione dell’impero,
Serse ordinò di scavare un canale attraverso la penisola dell’Athos
per permettere alle sue navi il passaggio. “A
pensarci bene trovo che Serse ordinò lo scavo del canale per mania
di grandezza, volendo ostentare potenza e lasciare memoria di sè. In
effetti, benchè avessero la possibilità, senza alcuna fatica, di
trascinare le triremi attraverso l’istmo, impose l’apertura di un
varco sino al mare largo tanto da permettere il passaggio di due
triremi affiancate spinte a forza di remi. Agli stessi ai quali era
stato comandato di tagliare l’istmo, fu ordinato anche di unire con
un ponte, come sotto un giogo, le due rive del fiume Strimone29.”
Non fu questa l’unica occasione in cui il persiano fece sfoggio
della sua potenza al fine evidentemente di sgomentare i nemici. “E
quando il braccio di mare era ormai aggiogato, sopraggiunse una
violenta tempesta, si abbattè su tutte quelle opere e le disfece.
Serse, adirato con l’Ellesponto, diede ordine di infliggergli
trecento colpi di frusta e di tuffare in acqua un paio di ceppi30.
E ho pure sentito dire che assieme a costoro inviò dei marchiatori a
bollare l’Ellesponto. Ordinò poi di pronunciare, mentre lo
fustigavano, le seguenti barbare e insolenti parole: “Acqua
proterva, il tuo signore ti infligge questa pena, perché lo hai
offeso senza aver da lui ricevuto alcuna offesa (..)”:
così riferisce Erodoto, che coglie il significato propagandistico
del gesto, ma non se ne lascia impressionare più di tanto. Quelle di
Serse sono solo “barbare e insolenti” parole - si noti - così
come barbari sono i suoi atti: la teatralità asiatica non fa presa
sull’anima greca, occidentale! Un altro episodio, riportato dallo
storico, è illuminante in tal senso: “Si
racconta che quando ormai Serse aveva varcato l’Ellesponto, un uomo
del posto esclamò: “O Zeus, perché assumi l’aspetto di un
Persiano e ti fai chiamare Serse invece che Zeus e vuoi devastare la
Grecia conducendole contro il mondo intero? Potevi farlo anche senza
tutto questo.”
E’ facile cogliere, nelle parole pur ammirate e timorose del
testimone, un sottofondo di ironia.
Più
che l’ostentazione di forza, c’è un altro particolare che non
sfugge agli osservatori greci: “Posato
il piede in Europa, Serse osservò le sue truppe che attraversavano
lo stretto a suon di frustate.”
Frustate: i sudditi del Gran Re altro non sono altro che schiavi; i
greci lo sanno, e sono disposti ad unirsi, dimenticando
temporaneamente divisioni e inimicizie, pur di scongiurare un simile
destino. Paradossalmente, quindi, la propaganda persiana sortisce
l’effetto opposto a quello sperato: rafforza la volontà di
resistenza, crea un fronte comune contro l’invasore. Possibile che
egli ed i suoi sottoposti non se ne rendano conto? C’è un momento
in cui un’ombra di consapevolezza fa capolino nella mente del re
persiano: discorrendo con il transfuga greco Demarato, egli osserva
“in
effetti, a mio parere, neppure se tutti i greci e tutti i rimanenti
abitanti dell’occidente si coalizzassero, sarebbero in grado di
resistere al mio attacco, a meno che non agissero con autentica
coesione.”
Tuttavia, quando lo spartano tenta di dissuaderlo dalla spedizione,
affermando, a proposito dei suoi connazionali: “primo:
è impossibile che accettino mai i tuoi discorsi, che comportano
schiavitù della Grecia; secondo: ti affronteranno in battaglia anche
se tutti gli altri greci passeranno dalla tua parte. Il loro numero?
Non chiedere quanti siano per osare agire così; che siano mille sul
campo di battaglia, o di più o di meno, altrettanti combatteranno
contro di te!”
Serse scoppia a ridere fragorosamente. Non gli ha forse assicurato
Mardonio, il più ascoltato tra i suoi consiglieri: “sappiamo
come combattono, conosciamo la loro forza, ed è ben poca cosa (...).
Mio re, chi ti si opporrà sfidandoti militarmente, quando guiderai
insieme la massa degli Asiatici e la flotta intera?”
La risata del Gran Re si spegnerà a Salamina; la sicumera di
Mardonio non sopravvivrà alla decisiva battaglia di Platea.
Si
può concludere che l’insuccesso dei persiani nel tentativo di
piegare l’altrui volontà di resistenza deriva dall’incapacità
degli invasori di intendere la mentalità greca, i valori che stanno
alla base della civiltà occidentale: il rispetto della legge, il
senso dell’onore, l’amore per la libertà, da anteporre alla vita
stessa31.
Eppure gli strumenti per comprendere non facevano difetto: lo stesso
Serse, così come i suoi consiglieri, aveva occasione di confrontarsi
quasi quotidianamente con fuggiaschi greci, presso la sua corte. Fu
forse l’orgoglio, la “hybris”
di cui parla Eschilo ad accecare il Gran Re; o forse la coscienza di
disporre d’un esercito che in Asia non aveva rivali. In fondo,
l’esibizione di forza da lui voluta avrebbe probabilmente dato i
frutti sperati se, dalla parte del nemico, ci fosse stato un popolo
culturalmente affine ai persiani. Per gli elleni, al contrario, la
prospettiva di essere assoggettati ad un solo uomo, di saggiarne a
suo piacimento la frusta, appariva peggiore della morte, era
insopportabile; invece di terrorizzarli, la spavalderia e la
tracotanza del re rafforzarono in loro la volontà di opporsi, a
qualsiasi costo. Di fronte alla minaccia esterna compresero, ad onta
di rivalità e inimicizie, di essere un popolo. Serse, che avrebbe
avuto tutto l’interesse a giocare sulle divisioni altrui, ottenne
il risultato di farli marciare uniti contro gli invasori, e perse. Il
suo messaggio voleva essere: non c’è alternativa alla
sottomissione. Le città lo lessero così: l’unica alternativa alla
servitù è la vittoria!
Conosci
il tuo nemico: è una regola da seguire oggi come 2500 anni fa; per
leggerezza o condizionamento culturale, gli eredi di Ciro non vi si
attennero.
Per
la prima volta nella storia si scontrano non solo due eserciti o due
imperi, ma due civiltà: l’oriente e l’occidente. Da questo
conflitto, che si ripeterà poi molte volte nei secoli successivi, e
dall’inattesa vittoria dei greci nascerà il primo barlume di
coscienza europea.
4.
Il re del mondo
Tra
i grandi condottieri della Storia, Alessandro Magno è forse quello
che più di ogni altro sembra appartenere, più che al mondo reale,
alla sfera dell’epica e della poesia: asceso giovanissimo al trono
di Macedonia, un paese di secondaria importanza, in poco più di
dieci anni creò un impero quale mai si era visto prima, conquistando
la Persia e spingendosi fino alle estreme regioni della terra; per
poi morire a soli trentatrè anni (età fatidica!), vittima della sua
sete di avventura e di vizi pari alle virtù. Davvero, il paragone
con l’omerico Achille - che egli incoraggiò in vita, venerando nel
mirmidone il suo modello - non è il frutto della piaggeria di
letterati di corte: come l’antico eroe, il colto Alessandro visse
un’esistenza breve ma densissima, costellata di trionfi, amori e
disgrazie32.
Le
imprese del re di Macedonia, così come i nomi dei suoi nemici (Dario
III, l’indiano Poro), sono ben note al grande pubblico: in questo
capitolo cercheremo di analizzare, dal punto di vista di psyops,
alcuni comportamenti da lui tenuti nel corso delle sue lunghe
campagne.
Passato
per la prima volta in Asia dopo aver sottomesso la Grecia, il giovane
re si recò immediatamente a Troia, risorta, col tempo, dopo la
distruzione di mille anni prima. Snobbando la lira di Paride
Alessandro, che i cittadini gli offrivano, egli onorò il leggendario
Achille nel seguente modo: untosi d’olio, corse nudo insieme ai
suoi compagni fino alla tomba dell’eroe, e qui depose una
ghirlanda. Era un tributo assai notevole, reso in maniera
spettacolare33;
ed il gesto, come quasi tutti quelli compiuti da Alessandro in vita,
aveva un preciso significato simbolico e propiziatorio.
Come
testimonia Erodoto34,
prima di penetrare in Grecia, 150 anni prima, re Serse era salito
alla rocca di Priamo, e colà aveva sacrificato mille buoi agli dei
per ottenerne il favore. Toccava ora all’occidentale richiamarsi a
quell’antica epopea: Alessandro “continuò ad accentuare il suo
legame con la prima invasione greca, quella del passato omerico.
Tributò sacrifici alle tombe di Aiace e di Achille e li onorò come
suoi degni predecessori, perché al momento di invadere l’Asia era
il favore degli eroi greci della guerra troiana che egli riteneva
particolarmente importante per la sua campagna35.”
In
tale occasione, la propaganda del macedone parlava a due popoli: ai
persiani, rammentando loro che mai l’oriente era riuscito a
prevalere sull’occidente e che lui, l’emulo di Achille, non si
sarebbe arrestato fino alla definitiva vittoria; ai riottosi greci,
rivendicando per il condottiero, la sua casata ed i compagni la piena
appartenenza alla koinè
culturale ellenica36.
C’è
un ulteriore episodio, relativo agli esordi dell’impresa asiatica,
che attira la nostra attenzione sulla capacità del re di sfruttare
le percezioni a suo vantaggio: a Gordio, davanti al pubblico più
vasto possibile, egli raccolse una sfida, consistente nello
sciogliere un nodo di corteccia che, nell’acropoli, legava il carro
di re Mida al suo giogo. In quattro secoli nessuno c’era mai
riuscito, ed anche Alessandro, per quanto tirasse, non ottenne
dapprima alcun risultato. Visto che un fallimento avrebbe nociuto al
suo prestigio, egli snudò la spada e tagliò finalmente il nodo a
metà, affermando che esso era stato sciolto, se non disfatto! Un
atto di arroganza? Piuttosto una mossa geniale, dettata più dal
calcolo che dalla frustrazione: se avesse risolto la questione in
modo maggiormente ortodosso, forse il giovane re non sarebbe riuscito
ad attrarre altrettanto interesse su di sè. I suoi propagandisti
trasformarono l’evento in un leggendario successo: “ci furono
tuoni e lampi proprio in quella notte”
a significare che Zeus approvava e così furono offerti sacrifici
“agli dei
che avevano dato il loro segno e ratificato lo scioglimento del
nodo”37.
Basta
considerare gli esempi fin qui fatti per giungere ad una prima
conclusione: con le sue gesta, gli atteggiamenti e le frasi dei
cronisti Alessandro intendeva far giungere il suo messaggio a tutti,
posteri e contemporanei, amici e nemici. Mirava costantemente a
crearsi intorno un’aura di invincibilità, di leggenda, per fini
che andavano dalla più rapida sottomissione d’un paese alla
diffusione, nel tempo e nello spazio, della propria fama.
Alessandro
Magno sapeva conquistare le menti ed accendere l’immaginazione: non
deve tuttavia stupire il fatto che egli mai cercò di vincere una
battaglia senza combatterla, impiegando quelle che oggi i manuali
definiscono operazioni psicologiche “tattiche”. Non c’è in
questo nessuna contraddizione: fedele imitatore del divino Achille,
egli si batteva eroicamente38
alla testa dei suoi eteri
(compagni,
in greco), e più ancora che delle battaglie vittoriose, gioiva
nell’affrontare con la spada in pugno nemici valorosi sul campo. Un
successo ottenuto senza spargimento di sangue sarebbe parso al re
indegno dei suoi modelli omerici: d’altra parte, la straordinaria
abilità di Alessandro come tattico e stratega, oltre che come
singolo combattente, gli consentì, durante le fasi della conquista,
di aver facilmente ragione di ogni opposizione, quali che fossero le
circostanze39.
Le
operazioni in cui il sovrano eccelleva, invece, erano quelle che si
definiscono “di consolidamento”. Consideriamo i fatti: al suo
arrivo in Egitto, non soltanto Alessandro non fu accolto da
manifestazioni ostili, ma venne considerato dagli egiziani alla
stregua di un liberatore. Il re sapeva bene che il maggior motivo di
risentimento degli egizi nei confronti dei dominatori persiani era
rappresentato non dal modesto tributo annuo dovuto a Persepoli, bensì
dallo scarso rispetto mostrato dagli iranici nei confronti
dell’antichissima religione nazionale. Alessandro, che tante
nozioni aveva appreso dal suo maestro Aristotele ed aveva, nei
confronti dei paesi attraversati, la genuina curiosità
dell’esploratore, trovò abilmente il modo di cattivarsi il
rispetto dei nuovo sudditi: per prima cosa rese spontaneamente
omaggio al Bue Apis e tosto accettò di essere incoronato Faraone
dell’alto e del basso Egitto nell’antica Menfi. Ad uso degli
egiziani fece inoltre circolare la voce che Nectanebo, l’ultimo
sovrano egizio cacciato da Artaserse III pochi anni prima, era
riuscito a riparare presso la corte macedone dove, assunto l’aspetto
del Dio Ammon, avrebbe reso incinta la regina Olimpiade di
Alessandro. La storiella, così come la diceria relativa al fatto
che, nel tempio della divinità, il profeta di Ammon Ra lo aveva
salutato come figlio e gli aveva concesso il dominio del mondo,
ebbero l’effetto - largamente previsto - di rafforzare l’autorità
del sovrano macedone nei confronti di un popolo a lui estraneo, ma
del cui sostegno egli necessitava.
La
condotta seguita da Alessandro Magno in Egitto suscita ammirazione.
Egli mostra di conoscere e seguire tutte le regole che stanno alla
base delle moderne psyops:
perfetta conoscenza dell’obiettivo, credibilità del messaggio
veicolato40
e sua idoneità ad influire favorevolmente (per il conquistatore) sul
contegno di un popolo intero. Inoltre, la gestione delle operazioni è
affidata a specialisti: i segretari e gli storici-propagandisti - tra
cui il celebre Callistene41
- al seguito della spedizione. E c’è un altro particolare che va
rammentato a quanti sostengono che le psyops
sono un’invenzione del ventesimo secolo: invece di un satrapo sul
modello persiano, in Egitto Alessandro nominò due governatori civili
indigeni, Petisi e Doloaspi, mentre l’amministrazione delle finanze
fu affidata a un residente greco. A due macedoni, personaggi non di
primo piano, fu assegnato il comando militare (ma non il governo
civile!), con l’ordine di mantenere un basso profilo. Il pensiero -
ed il paragone - corre spontaneo al ben più arrogante comportamento
tenuto dagli americani in Iraq, dopo la conquista di Baghdad
nell’aprile 2003: presentatisi come liberatori del popolo iracheno,
smentirono ben presto la loro stessa propaganda, sciogliendo il
locale esercito, fonte di sostentamento per centinaia di migliaia di
uomini, ed arrogando a sè ogni potere militare e civile, con le
tragiche conseguenze cui assistiamo in diretta quotidianamente.42
Chi
è il professionista, viene da chiedersi, chi i maldestri dilettanti?
Su
un solo popolo non poteva far presa, ovviamente, la campagna
psicologica di Alessandro: e si trattava dei suoi macedoni. Molti di
essi ritenevano che, affermando qua e là le proprie origini divine,
il conquistatore offendesse la memoria del padre Filippo:
l’opposizione venne allo scoperto dopo che Dario III fu
definitivamente battuto e la Persia conquistata. Considerandosi
oramai Re dell’Asia, egli - intelligentemente - volle rendersi
accettabile ai sudditi iranici e adottò una forma di abbigliamento
che costituiva una via di mezzo tra quella macedone e quella
persiana43.
Com’è stato notato44,
Alessandro intendeva fondare un regno nuovo, che fondesse nel culto
della propria persona razze, società e costumi diversi, per cui non
disdegnava di adottare aspetti da lui apprezzati del cerimoniale dei
popoli conquistati, fossero persiani, indi o battriani. Accettò dai
nuovi sudditi, contro la volontà dei capi macedoni45,
l’onore della proskynesis,
da sempre riservata al Gran Re, e reclutò giovani persiani ed
asiatici per il suo esercito. I timori dei connazionali erano
tuttavia immotivati: il sovrano non mutò le sue abitudini nei loro
confronti, e le truppe rimasero suddivise per nazionalità, con
quelle macedoni che continuavano a costituire il nerbo dell’armata.
Per
i rudi montanari partiti della Macedonia era difficile comprendere,
d’altronde, il genio di un uomo che aveva messo a frutto la lezione
di Aristotele: autentico re del mondo, egli volle far sì che tutte
le genti sottomesse al suo scettro lo riconoscessero come il
“proprio” sovrano, e gli obbedissero non per forza46,
ma per amore.
La
sua strategia ebbe successo, se è vero che, ancora nell’ottocento,
in sperdute regioni dell’Asia si fantasticava sul ritorno di un re
che altri non era se non l’immagine mitizzata di Alessandro il
Grande; colui che, incompreso dai suoi macedoni, conquistò l’anima
dei popoli e dei poeti, per sempre.
5.
Hannibal ad portas!
Tra
le figure dei grandi condottieri dell’antichità quella del
cartaginese Annibale rappresenta in certo senso un’anomalia; e
altrettanto si può dire delle sue imprese, in tempo di guerra e di
pace47.
Egli infatti combattè non per sete di conquista o di gloria, ma per
salvare la patria; e rivolse le armi contro un unico nemico, Roma,
nel corso di una campagna che si trascinò per anni e anni ed alla
fine, nonostante la sovrumana abilità militare del punico, lo vide
sconfitto.
Fra
tutti gli episodi che hanno per protagonista Annibale quello che
maggiormente accende la fantasia dei liceali è l’attraversamento
delle Alpi, in pieno inverno. Ancor oggi gli studiosi si domandano
se, per giungere in Italia, l’esercito invasore sia passato
attraverso il Moncenisio o il Piccolo San Bernardo: la cosa è
ininfluente ai nostri fini, ciò che conta è l’impresa in sè.
Indubbiamente, Annibale scelse la via dei monti per evitare
l’intercettazione da parte degli eserciti consolari romani che
muovevano verso la Liguria e il sud dell’odierna Francia: così gli
storici in genere giustificano la sua decisione arrischiata, ma c’è
probabilmente dell’altro. Chiunque ha avuto l’occasione di
fissare lo sguardo su di uno svettante massiccio montuoso nella
stagione fredda, lontano dalla civiltà e dal turismo di massa, ben
conosce lo smarrimento dell’anima di fronte ad uno spettacolo
imponente come pochi altri in natura. La vista delle Alpi, con le
loro giogaie coperte di neve, dovette atterrire i soldati al seguito
di Annibale, e forse persino lui stesso: ma, vinta quell’insuperabile
barriera, chi mai sulla terra avrebbe avuto il coraggio di opporsi a
uomini che erano riusciti nell’impresa?
Il
tributo pagato dall’esercito alle montagne fu altissimo: migliaia
di guerrieri scomparvero nei crepacci o morirono assiderati, ma le
truppe che, dopo giorni di indicibile sofferenza, scorsero
verdeggiante ai loro piedi la pianura padana avevano dimenticato cosa
fosse la paura. Annibale aveva raggiunto il suo duplice scopo: quello
di annunciare nella maniera più clamorosa la propria venuta a romani
ed italici; quello di poter disporre di un ristretto ma temprato
esercito di veterani prima ancora di incrociare la spada con le
legioni. Questi uomini, motivati e adoranti, lo seguiranno fino
all’epilogo della sua straordinaria avventura.
La
strategia di Annibale in Italia apparve subito chiara ai
contemporanei: valutando il sistema di alleanze creato da Roma
piuttosto debole, egli perseguiva il disegno di isolare l’urbe
spingendo alla defezione - e conquistando alla sua causa - i popoli
soggetti ai romani. Alle nazioni via via conquistate egli dichiarava
di essere venuto a liberarle dal giogo della spietata prepotenza
romana: il messaggio era reso credibile dalle sonore sconfitte
inflitte alle legioni (al Ticino, alla Trebbia, al Trasimeno),
dall’ars
punica48
grazie alla quale il barcide si era tratto più volte d’impaccio;
dall’abilmente propagandato giuramento di odio eterno ai romani che
rassicurava i nuovi seguaci circa la determinazione cartaginese a
continuare la lotta fino alla vittoria. Inoltre Annibale non
manifestò mai l’intenzione di allargare l’impero punico
all’Italia, e rispettò culti e tradizioni dei popoli con cui
veniva in contatto. Quest’intelligente politica fruttò
all’invasore il prezioso appoggio di galli ed etruschi, nonchè di
molte città greche del meridione: l’armata con cui Annibale
affrontò in Puglia gli eserciti consolari di Emilio Paolo e Varrone
era rinforzata da un buon numero di ausiliari.
Il
trionfo di Canne, contro un nemico superiore per numero ed armamenti,
rimane il più fulgido esempio del genio militare del barcide: a quel
punto la strada per Roma era aperta, e tanti, dopo Maarbale, si sono
interrogati sul motivo per cui il duce cartaginese non diede ordine
di marciare sulla città. Davvero Annibale non sapeva sfruttare le
sue vittorie?
Va
in primo luogo tenuto conto che (abbastanza stranamente) l’esercito
cartaginese non disponeva di macchine d’assedio49,
e che le mura di Roma, rinforzate di recente da Q. Fabio Massimo,
erano alte e possenti; v’è però anche un’altra spiegazione, più
convincente a parere di chi scrive, dal momento che attribuisce un
ben preciso significato al comportamento attendista di Annibale. “Il
terribile avversario (...) non progettava assolutamente la conquista
e la distruzione di Roma. L’offerta di pace di Annibale dopo Canne
e la dichiarazione di intenti nel trattato con Filippo di Macedonia,
dimostrano che egli mirava soltanto al ristabilimento dello statu(s)
quo ante.50”
Come
i fatti successivamente comprovarono, per i quiriti non c’era
tuttavia alternativa all’eliminazione (fisica) di Annibale e alla
distruzione della sua patria: quando egli infine lo comprese, la
fortuna aveva già iniziato ad abbandonarlo. Eppure Senato e popolo
romano vissero attimi di terrore allorchè, trascorsi ormai cinque
anni dalla battaglia di Canne, dall’alto delle fortificazioni le
sentinelle scorsero le avanguardie cartaginesi che si approssimavano
alla città (211 a. C.).
In
quest’occasione, va detto, Annibale non progettava affatto di
prendere l’urbe, essendo le sue schiere numericamente ridotte51:
si trattava di un’operazione dimostrativa, “tattica”, volta ad
un ben più limitato obiettivo, la liberazione di Capua52
dall’assedio romano. Ecco come si svolsero gli eventi: visto che la
sua presenza in Campania non aveva alcun effetto sugli eserciti
consolari fortemente trincerati intorno alla città, il condottiero
rimosse il campo col favore delle tenebre53
e iniziò una marcia rapidissima alla volta della capitale. Sperava
che, accortisi della sua improvvisa partenza verso il nord e
indovinatene in ritardo le intenzioni, i consoli si mettessero al suo
inseguimento; ovvero che il Senato, vedendo il temuto nemico
accamparsi a sole due miglia dalle mura, stimasse le legioni
distrutte e offrisse la pace, o una tregua. Non accadde nulla di
tutto questo: dopo l’iniziale sconcerto i cittadini si prepararono
disciplinatamente a resistere. “Piccola
cosa a dirsi, ma sufficiente a mostrare la forza d’animo del popolo
romano, il fatto che proprio nei giorni dell’assedio il terreno,
ove Annibale aveva disposto l’accampamento, fu messo all’asta a
Roma e trovò un compratore. Annibale, da parte sua, volle imitare
tanta fiduciosa sicurezza e pose in vendita i banchi di cambio della
città: ma non fu trovato alcun compratore, sicchè fu palese che
anche i presagi del destino erano favorevoli (ai romani)”54.
Al
cartaginese fu ben presto chiaro che il suo audace piano era fallito:
Capua era ormai destinata a cadere. Prima di ritirarsi, tuttavia,
Annibale volle dire addio a Roma a modo suo: mentre sulla città si
abbatteva una violenta grandinata primaverile55,
tre cavalieri furono visti galoppare forsennatamente verso Porta
Collina. Nonostante la pronta reazione delle sentinelle, uno dei tre
afferrò un giavellotto, ne ravvolse la punta in uno straccio e con
due selci asciutte provocò la scintilla che fece avvampare la lama.
Incurante delle frecce avversarie, l’uomo spronò la sua
cavalcatura e, giunto a portata di tiro, scagliò l’arma
all’interno delle mura: stando alla narrazione la lancia cadde nel
Campo Scellerato, dove venivano sepolte vive le Vestali che avevano
infranto il voto di castità. Le vedette romane riconobbero in mezzo
ai lampi il volto tormentato del lanciatore: era proprio lui,
Annibale, l’odiato nemico. Verità o leggenda? che importa, ci
piace credere che le cose siano andate così; e concedere ad un uomo
nobilissimo di congedarsi con un gesto tanto inutile56
quanto grandioso.
In
definitiva Annibale perse la guerra perché aveva sottovalutato la
tenacia e l’ambizione dei romani, la loro arrogante certezza di
essere destinati a dominare il mondo. Nato da una stirpe di mercanti,
aveva lottato per assicurare una fruttifera pace alla sua terra; ma
l’irriducibile nemico voleva espandersi, non convivere.
Hannibal
ad portas!
per secoli, le matrone romane avrebbero fatto ricorso a questa
esclamazione, divenuta proverbiale, per intimorire i bimbi troppo
vivaci. Il nome dell’uomo che aveva fatto tremare Roma diventò un
espediente per mettere a letto i fanciulli.
6.
Un ponte sul Reno
Nelle
piazze di molte città del continente un uomo ci guarda dall’alto,
rivestito del paludamentum
e
dell’inseparabile corazza: caratteristiche del suo volto sono gli
zigomi pronunciati e gli occhi che, pur scolpiti nella pietra,
conservano l’eco della vivacità del modello.
E’
corretto, ma riduttivo, definire Caio Giulio Cesare uno dei più
grandi comandanti militari di tutti i tempi: al di là
dell’impressionante varietà dei campi in cui il suo ingegno gli
permise di primeggiare, il romano fu soprattutto un abilissimo
politico e uno statista lungimirante come pochi. La prova sta nel
fatto che l’impero da lui edificato sulle ceneri dell’ormai
decrepita repubblica romana sopravvivrà al fondatore per oltre
cinque secoli; e questo a non voler considerare Bisanzio e, su altro
piano, l’innegabile influenza esercitata da una figura realmente
superiore sul successivo sviluppo della civiltà europea, fino ad
oggi. Tra i meriti da attribuire a Giulio Cesare v’è quello d’aver
compreso - per primo in maniera chiara - il ruolo centrale di quella
che oggi chiamiamo “opinione pubblica”, il cui sostegno
dev’essere ottenuto e conservato da chi si appresta a realizzare
trasformazioni epocali nella struttura d’una società. Anzi:
l’opinione va influenzata, blandita e, ove possibile, creata: non a
caso, con i suoi acta
diurna e
gli acta
senatus57,
il più illustre rampollo della gens
Iulia può
essere considerato, se non l’inventore, il geniale precursore del
giornalismo moderno.
Alla
luce di quanto detto, il costante ricorso all’arma psicologica da
parte di Cesare, nel corso delle tante campagne che lo videro
protagonista, non può né deve stupire: ciò che semmai colpisce
sono le tecniche e gli strumenti di volta in volta utilizzati. Come
Alessandro, egli non sottovalutava il potere della parola scritta, se
capillarmente diffusa: ma a differenza del macedone, non aveva
bisogno di letterati professionisti che magnificassero le sue
imprese. Giulio Cesare fu, tra le altre cose, uno dei maggiori autori
latini; e i “Commentarii” redatti di suo pugno, e lodati persino
dagli avversari58,
si dimostrarono un mezzo di propaganda straordinariamente efficace.
Le
doti di persuasore del romano si manifestano compiutamente nella
guerra civile che lo vede opposto ai sostenitori del declinante
potere oligarchico59:
la propaganda cesariana è rivolta alla società civile non meno che
ai nemici sul campo di battaglia. Nei confronti di questi ultimi -
che Giulio Cesare definisce “adversarii”
e non “hostes”,
con ciò lasciando aperte le porte alla riconciliazione60
- egli fa costante mostra di magnanimità (soprattutto per quel che
riguarda legionari ed ufficiali subalterni), mirando ad ottenere la
resa dei suoi avversari piuttosto che ad annientarli: lo scopo è
magistralmente raggiunto nei primi tempi del conflitto contro Pompeo
e soprattutto nella guerra di Spagna contro i pompeiani Afranio e
Petreio, quando le truppe repubblicane passano nella loro totalità
dalla parte di Cesare, abbandonando i comandanti.
Tuttavia
il principale destinatario della propaganda giuliana è lo strato
“medio” dell’opinione pubblica romana, gli equites
e la piccola borghesia cittadina ed italica che, travolti dagli
eventi, non hanno all’inizio ben chiaro da che parte convenga
stare: per ottenere il loro appoggio, anche in chiave futura, egli si
serve certamente di uomini fidati ed iniziative clamorose, ma anche e
soprattutto dei formidabili Commentarii. Nella sua ricostruzione dei
fatti, ben presto di dominio pubblico, Cesare sottolinea di essersi
sempre mantenuto nell’ambito della legalità, insiste sul proprio
desiderio di una pace duratura; gli stessi episodi di clementia,
confermati più o meno a malincuore dagli oppositori, sono un
messaggio rassicurante per i destinatari dell’azione. Il futuro
imperatore promette riforme ed una politica tale da assicurare gloria
e prosperità per il popolo romano negli anni a venire: la
convinzione che una profonda trasformazione della società sia
necessaria si trasmette naturalmente ai lettori, e mette radici nel
loro animo. Prima di conquistare Roma, Giulio Cesare conquista i
romani.
Premesso
questo, non manchiamo di osservare che la più straordinaria
operazione psicologica condotta a buon fine da Cesare appartiene ad
un periodo precedente, e riguarda l’attraversamento di un fiume
impetuoso.
Proconsole
in Gallia, il romano non sottovalutava la minaccia rappresentata dei
germani che, attraversando il Reno, compivano sporadicamente
terribili razzie in territorio gallico, ritirandosi poi dietro la
protezione del grande fiume. La dura lezione inflitta agli Svevi di
Ariovisto non tranquillizzava il condottiero: era indispensabile
impressionare quei barbari dando loro un segno tangibile della
superiore potenza di Roma. L’unica via possibile era oltrepassare
quel rivo che i popoli germanici consideravano una frontiera
invalicabile da qualsiasi nemico. Gli Ubi si offrirono di fornire le
navi necessarie all’impresa: ma Cesare optò per una diversa
soluzione, assai più efficace ai suoi fini. Per rendere possibile
l’attraversamento, ordinò la costruzione di un ponte che fu
realizzato in tempi così rapidi da passare la storia come una delle
più grandi opere di ingegneria della storia. Dopo appena dieci
giorni l’esercito romano passava il Reno: sbigottiti da un’impresa
che andava al di là della loro immaginazione (e delle loro capacità
tecniche!), i germani abbandonarono i loro villaggi all’invasore e
si sparpagliarono nelle foreste. Senza bisogno di combattere, Giulio
Cesare aveva vinto la guerra: riattraversato il fiume in piena
tranquillità dopo 18 giorni, egli ordinò ai soldati di distruggere
quel ponte che tanto aveva atterrito i nemici. Anche quest’ultima
decisione ebbe un impatto psicologico fortissimo: quale doveva essere
il potere dei romani se essi potevano permettersi di abbattere
un’opera tanto meravigliosa?
L’obiettivo
iniziale del proconsole era quello di incutere nei germani un timore
superstizioso, ribadendo l’inarrivabile supremazia di Roma: poteva
dirsi raggiunto, non valeva la pena di lasciare truppe a presidiare
località povere di attrattive.
Non
solo il senso del messaggio era incontrovertibile (“ovunque vi
nascondiate, Roma possiede gli strumenti per raggiungervi ed
annientarvi: vi conviene rinunciare a sfidarla!”), ma il mezzo
usato per veicolarlo era l’unico davvero idoneo, viste le
circostanze, nei confronti di popoli che non conoscevano la scrittura
ed ammiravano più d’ogni altra cosa il potere delle armi.
Da
allora, per merito di Cesare e della sua finezza psicologica61,
la frontiera del Reno fu una tra le più sicure del mondo romano.
Avendo
fatto cenno all’abilità del grande generale nel fare uso di
manovre di “conquista delle menti” per finalità - a seconda dei
casi - strategiche, tattiche e di consolidamento, è il caso di
chiedersi ora se simili tecniche persuasive facessero parte del
patrimonio di conoscenze della generalità dei comandanti romani. In
verità, le pagine degli antichi cronisti riportano numerosi esempi
di operazioni psicologiche in epoca repubblicana ed imperiale: un
episodio interessante è quello narrato dal suo stesso protagonista62
e risalente all’assedio di Gerusalemme da parte delle legioni di
Tito, nel 70 d.C. Giuseppe Flavio, prima di passare dalla parte di
Roma, era stato uno dei più autorevoli capi della rivolta giudaica:
fidando nella sua capacità di persuadere i connazionali, Tito inviò
proprio lui a chiedere la resa della città, promettendo in cambio
clemenza e perdono per tutti. Giuseppe onorò il compito affidatogli
producendosi in un lungo e appassionato discorso: la vittoria dei
ribelli era impossibile, sottolineò più volte, in quanto l’impero
disponeva di risorse illimitate, e nessuna forza al mondo era in
grado di opporglisi. D’altronde, i rivoltosi non lasciavano scelta
ai romani: non avessero consegnate le armi, sarebbero stati loro
stessi i responsabili della distruzione di Gerusalemme e del sacro
tempio che avevano giurato di difendere. Invitò infine gli assediati
ad aver pietà della loro nazione e delle loro famiglia, non prima di
aver fatto ricorso ad argomenti di carattere religioso: a Dio, e non
alle armi, spetta la difesa del popolo eletto, così sta scritto
nella Bibbia - disse.
Stavolta
la manovra non ebbe successo: un sasso scagliato dalle mura centrò
in pieno il futuro storico, che per poco non ci rimise la vita; Tito
dovette ordinare l’assalto.
Evidentemente,
per far breccia nell’animo di fanatici religiosi non bastavano,
allora come oggi, gli appelli alla ragione, e neppure la miglior
conoscenza delle scritture: chi è imbevuto di incrollabili certezze
intende soltanto la logica della spada.
Non
solo, come s’è visto, l’arma psicologica era usata in guerra:
l’utilizzo di essa era anche suggerito dagli scrittori di cose
militari dell’epoca, come Polieno e Sesto Giulio Frontino63.
In effetti, a differenza di altri popoli, i pragmatici romani non
amavano la guerra in sè e per sè, ed erano ben lieti se gli
obiettivi prefissi venivano raggiunti attraverso la resa del nemico
piuttosto che con una battaglia sanguinosa: ciò non comporta
tuttavia che essi facessero sistematico ricorso ad un corrispondente
delle odierne operazioni psicologiche. Nei secoli della repubblica e,
più tardi, in quelli del principato solo i soldati e gli ufficiali
di rango inferiore potevano dirsi “di carriera”: per i rampolli
delle famiglie più in vista i comandi militari erano solo una tappa
del cursus
honorum, e
la loro assegnazione coincideva comunque con cariche di durata
annuale, salva la possibilità di limitate proroghe. Non esistevano
quindi, per questi alti ufficiali “di complemento”, scuole di
guerra equiparabili a quelle attuali, ove apprendere i segreti
dell’arte militare. Se avevano fortuna, i giovani tribuni e legati
potevano essere chiamati a servire sotto comandanti esperti ed
apprenderne le tecniche: Cesare, ad esempio, deve non poco all’abile
Lucullo, ma altri furono meno avvantaggiati. In definitiva, a
decidere le strategie da seguire era sempre il singolo: e spesse
volte furono il coraggio e la disciplina dei legionari - quest’ultima
la vera arma segreta dei romani! - a segnare le sorti delle
battaglie, ponendo rimedio all’inettitudine di duces
ambiziosi.
7.
Carnefici e santi
Dopo
il crollo dell’impero romano, nel V° secolo dell’era cristiana,
inizia per l’occidente un lungo periodo di stagnazione, nelle arti,
nelle scienze e nell’organizzazione sociale: si affacciano i secoli
bui del medioevo. Anche i progressi nell’arte della guerra vengono
dimenticati: gli eserciti del tempo sarebbero sembrati, ai teorici
d’età romana, più orde indisciplinate che truppe regolari; le
battaglie si riducevano, nella gran parte dei casi, a furiose zuffe
tra (pochi) guerrieri equipaggiati alla bell’e meglio, e gli
ignorantissimi comandanti erano piuttosto inclini alle brutalità
gratuite che non a raffinati calcoli strategici. Il nemico andava
vinto, non convinto!
Il
fiume della Storia però non si arresta: altrove fioriscono nuove
culture, e uomini di talento creano dal nulla potentati destinati a
sopravvivere negli annali. Una figura si staglia su tutte: quella del
mongolo Temujin, che per le sue straordinarie conquiste si meritò il
titolo di “Cinghis
Kaghan”
(il Sovrano oceanico), volgarizzato dagli occidentali in Gengis Khan.
Nel breve volgere di alcuni decenni il ragazzo esiliato dalla tribù
d’origine alla morte del padre riuscì a raccogliere sotto il suo
scettro tutti i popoli dell’Asia64
e, ad onta della tradizione che lo dipinge come un mostro assetato di
sangue ed analfabeta65,
si affermò come uno dei più brillanti e capaci comandanti militari
di ogni tempo.
E’
riconosciuto dagli studiosi che il condottiero faceva uso abituale
delle psyops66,
degli
inganni67,
della sicurezza operativa e della distruzione dei processi
decisionali avversari; vista l’importanza attribuita alla rapidità
di spostamento delle truppe ed alle comunicazioni, non deve inoltre
stupire che, con parecchi secoli d’anticipo sul “selvaggio west”,
Gengis Khan abbia ideato un sistema di posta militare che ricorda
molto da vicino il pony
express.
Proviamo
ad immaginare ora, per un momento, l’esercito mongolo che si
schiera per la battaglia: contrariamente a quanto si crede, la sua
consistenza numerica è quasi sempre inferiore a quella degli
avversari! Al nemico, tuttavia, sembrerà di aver di fronte una
moltitudine infinita: com’è possibile? Il trucco c’è, anche se
vederlo non è agevole: invece di raggrupparsi, i cavalieri mongoli,
armati per lo più alla leggera68,
formano reparti mobilissimi che sciamano da destra a sinistra,
togliendo all’avversario qualsiasi punto di riferimento e
saggiandone la capacità di reazione. Spesso l’esercito straniero,
preso dal nervosismo, comincia a disunirsi. E’ a questo punto che
entra in gioco un’arma dall’apparenza innocua: si tratta di
enormi tamburi, trasportati ciascuno da quattro persone, il cui
rullare sinistro sparge il terrore tra le file nemiche. Agilità,
dardi penetranti e maneggevoli spade ricurve trasformano poi gli
scontri in autentiche mattanze, da cui il “Sovrano oceanico” esce
sempre vincitore.
Oltre
ad essere imbattibile in campo aperto, Gengis Khan padroneggia anche
perfettamente le tecniche di assedio, che ha appreso dai cinesi: più
che la facilità con cui le città cadono, però, ad impressionare è
l’efferatezza delle stragi commesse dai mongoli all’interno delle
mura. Si tramanda di popolazioni sterminate fino all’ultima donna e
bambino, con l’aggiunta addirittura di cani e gatti; in altre
occasioni a venir risparmiati sono soltanto gli artigiani, chiamati a
dare il loro contributo all’edificazione della capitale Karakorum.
E’
innegabile che simili condotte disumane facciano meritare in pieno,
ai mongoli, la nomea di “barbari”: c’è tuttavia, in questa
barbarie, qualcosa di calcolato, di attentamente studiato. Un
episodio è in tal senso illuminante: appreso dell’esistenza di un
potente impero confinante con i suoi domini, il Khwarezm69,
Gengis Khan invia al sovrano di quel paese, Mohammed, un’ambasceria
con ricchi doni, forse per metterlo alla prova. Mohammed fa la cosa
sbagliata: incamera l’oro e uccide gli ambasciatori, offrendo così
all’imperatore mongolo la possibilità di dire: “la guerra è
stata vostra scelta!” e di intervenire con l’esercito.70
Anche in un’altra occasione Gengis Khan non manca di ammonire chi
si appresta a resistergli: “la rovina si abbatterà su di voi!”
Distruzioni
ed assassinii di massa andrebbero quindi intesi alla stregua di
“azioni dimostrative”, volte a demoralizzare il nemico e a
spingere gli altri popoli alla volontaria sottomissione71?
La
tesi appare fondata, specie se si tiene a mente che, in qualche
circostanza, i massacratori mongoli risparmiano la vita ad alcuni
abitanti delle città conquistate, perché testimonino nel mondo la
furia e l’invincibilità dei cavalieri asiatici: si potrebbe
parlare in questi casi, se la definizione non apparisse troppo
cinica, di “messaggi-psyops
in carne
ed ossa”, indirizzati alle genti non ancora assoggettate!
Avendoli
finora descritti alla stregua di spietati (ed astuti) genocidi, può
far specie che si citi un episodio in cui i mongoli vennero accolti…
come liberatori! Eppure merita ricordarlo72:
nel 1218, saputo della ribellione dei Qara Khitai, Gengis Khan inviò
il suo miglior generale, Jebe, con un esercito di 20.000 uomini a
riconquistare il territorio73.
Una volta tanto non fu necessario combattere e vincere: la
popolazione musulmana dell’impero del Qara Khitai insorse e
all’arrivo dei mongoli si consegnò al loro capo. Da tempo era
stanca delle persecuzioni del buddhismo, cui – dall’ascesa al
trono del naimano Kuchlug, vecchio avversario di Temujin – si erano
aggiunte quelle del cristianesimo. Per le popolazioni turcofone dover
scegliere tra Gesù e Buddha era inconcepibile: essi ritenevano
infatti uguali ed ugualmente rispettabili tutte le religioni. Perciò
aprirono le porte a Gengis Khan, che dovette alla sua (non
immeritata) fama di tolleranza in materia religiosa la riconquista di
un regno senza spargimenti di sangue!
Mentre
nelle sconfinate distese asiatiche si affermano quelli che saranno
conosciuti come “imperi delle steppe”, l’Europa ritrova pian
piano la strada dello sviluppo: contemporaneamente all’adozione di
nuove tecniche nel campo produttivo, si assiste alla nascita dei
primi abbozzi di stati nazionali, destinati ad erodere nel tempo
l’autorità del Sacro Romano Impero di nazione germanica.
Tra
tutti gli ordinamenti medievali, però, quello che mostra maggior
forza e compattezza è la Chiesa di Roma: governa un territorio
ristrettissimo, è vero, ma la sua influenza è di fatto illimitata,
potendo contare, oltre che sulla protezione di Dio Onnipotente, anche
e soprattutto sul monopolio della cultura. Non va infatti dimenticato
che, in un mondo di illetterati74,
gli unici a saper scrivere e a coltivare le arti liberali erano
appunti i chierici, cui si deve, tra l’altro, la conservazione del
grande patrimonio letterario greco e latino75.
Eppure,
nei primi secoli del secondo millennio, anche questa saldissima
organizzazione entra in crisi: corruzione ed ignoranza si diffondono
come una pestilenza negli strati più bassi del clero, facendo da
triste contraltare all’indegnità dei vertici, messa spietatamente
alla berlina dai poeti del tempo. Si diffondono così movimenti
ereticali, votati a riformare quando non addirittura ad abbattere la
chiesa ormai corrotta; movimenti spesso animati da personalità
eccezionali, il cui ascendente sulle popolazioni mette giustamente in
allarme le gerarchie cattoliche. Lotte e persecuzioni si
moltiplicano, ma qualcuno, all’interno della chiesa, si rende conto
che per battere l’eresia non sono sufficienti le spade, pur
generosamente fornite dai principi temporali.
Domenico
di Guzmàn, il futuro S. Domenico, nasce in Spagna intorno al 1170, e
in gioventù frequenta l’università di Valencia, segnalandosi per
la capacità oratoria e la predisposizione alla disputa teologica.
Nel 1206, recatosi in Francia al seguito del vescovo di Osma, ha modo
di appurare di persona quanto sia seria la minaccia rappresentata,
per il papato, dal diffondersi dell’eresia catara. Nella Provenza
del XIII° secolo, i catari (detti anche albigesi, dal nome della
città di Albi) convertivano le popolazioni alla propria causa grazie
a predicatori itineranti che si guadagnavano il generale rispetto in
ragione della loro cultura, la preparazione teologica e la rigorosa
osservanza di quell’austerità che la tradizione attribuisce ai
primi discepoli di Cristo. Domenico comprese che la Chiesa dell’epoca
non era in grado competere con simili modelli di probità: i vescovi
vivevano in un lusso satrapesco e i semplici preti erano a stento
capaci di dir messa; neppure sui colti monaci si poteva far conto,
visto che per tradizione essi rimanevano confinati nei loro
monasteri.
Era
necessario un nuovo approccio al problema, concluse l’acuto
spagnolo: bisognava ritorcere contro gli aborriti eretici le medesime
armi da questi utilizzate nella loro opera di proselitismo.
L’intuizione divenne atto: Domenico di Guzmàn organizzò una rete
ogni giorno più vasta di monaci itineranti che, viaggiando a piedi,
scalzi, si spostavano di villaggio in villaggio, di città in città.
Questi uomini, come i loro avversari, vivevano frugalmente, ed erano
inoltre istruiti, capacissimi di impegnare i predicatori catari, o
chiunque altro, in “tenzoni teologiche”. “Benchè il loro
abbigliamento fosse poverissimo e i piedi nudi, avevano sempre dei
libri con sé. Se nella storia della Chiesa, l’importanza
attribuita al sapere non era certo una novità, si era sempre
trattato di un interesse o fine a se stesso, o teso alla
conservazione e al monopolio culturale; Domenico fu il primo a
difendere l’erudizione come sussidio e come strumento di
predicazione76”.
Grazie
anche all’ausilio del braccio secolare, che egli peraltro mostrò
di apprezzare77
, gli sforzi di Domenico e dei suoi “domenicani” (cani del
signore, Domini
canes
nell’iconografia medievale) furono coronati dal successo, e il
fondatore del nuovo Ordine si meritò, nell’opinione dei credenti,
un seggio in Paradiso.
Al
di là del giudizio storico e morale, non si può non riconoscere
nell’operato del monaco spagnolo alcuni tratti caratterizzanti le
moderne psyops:
la predicazione dei domenicani, efficace alternarsi di suadenti
parole e concrete minacce, contribuisce a bloccare l’espandersi
dell’eresia, talvolta riconquista alla “vera fede” le pecorelle
appena smarrite. A chi obbiettasse che, nel caso appena esaminato, è
difficile individuare un gruppo obiettivo “straniero”,
destinatario del messaggio, si può agevolmente rispondere che il
peculiare campo di battaglia della chiesa è non già uno o più
territori, bensì il mondo interiore dell’uomo; e che, per lo meno
nella percezione medievale, non c’era nemico più insidioso e
“straniero” dell’eretico, di colui cioè che si allontanava
consapevolmente dalla Parola di Dio. Ma “stranieri” erano, o
almeno rischiavano di diventarlo, anche quanti fossero esposti
all’influenza dell’avversario: ed in effetti sono proprio gli
“indecisi” l’obiettivo primario dell’operazione psicologica
ideata da Domenico di Guzman.78
In
margine a quanto scritto ci siano consentite due notazioni: la prima,
che nessun’altra organizzazione ha mostrato, nel corso dei secoli,
capacità pari a quella della Chiesa cattolica nell’utilizzare
eventi, reali o inventati, e strumenti di propaganda per il
raggiungimento dei propri fini, nobile o meno che fosse la loro
natura79;
la seconda, che provoca un certo sgomento il confronto tra la
tolleranza in materia religiosa del “mostro” Gengis Khan e la
“pia” sete di sangue (eretico) che anima le parole di Domenico di
Guzmàn, uno dei santi più venerati della cristianità. Eppure erano
contemponei.
8.
Un regno al di là del mare
Vi
abbiamo già fatto cenno nel capitolo precedente: appena con l’alba
del nuovo millennio cominciano a germogliare, in Europa, i semi che
produrranno i fenomeni dell’umanesimo e, più tardi, del
rinascimento. Si inizia a guardare al passato con curiosità, molte
antiche opere vengono lette e studiate. Tra queste, anche i trattati
di arte bellica, vere e proprie fucine di informazioni per i militari
di epoca tardo-medievale e moderna.
Strano
a dirsi, colui che mise maggiormente a frutto la lezione appresa fu
un uomo che mai ebbe l’occasione di guidare un esercito sui campi
d’Europa; eppure - come egli stesso soleva affermare - donò
all’imperatore Carlo V d’Asburgo più territori di quelli
lasciatigli in eredità dagli avi. Stiamo parlando di Hernan Cortès,
il più abile, geniale e determinato dei conquistadores
spagnoli del nuovo mondo.
Quando
sbarcò sulle spiagge del Messico, in cerca di fortuna e di pagani da
convertire, l’ex studente di diritto a Salamanca aveva con sè
soltanto cinquecento soldati ed un centinaio di marinai, e nessuna
idea di che cosa lo aspettasse. In verità, la sua sorpresa ed anche
i suoi timori dovettero essere grandi quando gli fu comunicato che
l’intero paese era soggetto allo scettro di un potentissimo
imperatore, che risiedeva con la sua corte in una grandiosa capitale
tra i monti, a centinaia di miglia di distanza. Quell’imperatore, o
uey
tlatoani,
era Moctezuma II, solo omonimo, per sua sfortuna, del più capace
monarca azteco. Visto che nulla sfuggiva all’attenzione del
sovrano, un’ambasceria mexica si presentò assai presto al cospetto
dei nuovi arrivati, per porgere loro un diffidente benvenuto e -
soprattutto - per studiarli. Ecco la descrizione del momento
culminante dell’incontro, fatta da un grande storico80:
“Mentre si svolgevano queste trattative, Cortès vide uno del
seguito di Teihtlile81
intento a tracciare con un pennello un qualche schizzo, su tela, di
uno spagnolo, col suo costume, l’armatura, e altri particolari
interessanti, tutti riprodotti fedelmente. (...) a Cortès l’idea
piacque e, conscio che l’effetto sarebbe stato ingigantito
dall’inserimento nella composizione di un elemento dinamico, ordinò
alla cavalleria di eseguire una dimostrazione sulla spiaggia che
offriva buona presa agli zoccoli dei cavalli. I movimenti rapidi e
fieri del drappello che si esibiva in esercitazioni militari,
l’apparente facilità con la quale i cavalieri guidavano i loro
cavalli, il bagliore delle armi e il suono acuto delle trombe, tutto
contribuì a riempire di stupore gli spettatori; ma quando udirono il
tuono del cannone e videro fuoco e fumo uscire da quei terribili
ordigni, e il fischio delle palle che sfrecciavano nella foresta
frantumando i rami degli alberi, gli Aztechi furono sopraffatti dalla
costernazione che invase persino il loro capo.”
Quale
che sia il giudizio per l’impresa che si accingeva a compiere, non
si può non provare ammirazione per la presenza di spirito e l’acume
dimostrati da Cortès nell’occasione: nonostante il nervosismo suo
e dei soldati per l’arrivo inatteso dell’ambasceria, egli riesce
a volgere la situazione a proprio vantaggio, e l’effetto prodotto
sugli inviati di Moctezuma (e, attraverso i loro rapporti, su
Moctezuma stesso) ne è la prova.
L’
“elemento dinamico” di cui scrive Prescott è il ponte sul Reno
di Cortès: d’altronde egli conosceva benissimo, per averli letti,
i Commentarii di Cesare82,
e nelle sue esortazioni ai soldati non mancava mai di riferirsi al
valore ed alla disciplina degli antichi romani.
Non
fu, quella appena riportata, l’unica occasione in cui il
castigliano usò l’arma psicologica contro gli aztechi, nel corso
della campagna messicana: ad esempio, volendo accreditare l’opinione
che gli invincibili spagnoli ed i loro destrieri fossero anche
“immortali” diede disposizione ai suoi di seppellire rapidamente
e senza cerimonie i caduti a battaglia appena conclusa; inoltre,
avendo notato che gli indigeni erano particolarmente impressionati
dall’alta statura e dai capelli biondo-rossi del luogotenente
Alvarado, lasciava a lui volentieri la scena, salvo dover intervenire
quando, in più circostanze, la brutalità e l’arroganza del
sottoposto misero a repentaglio il successo della spedizione83.
La profonda, ancorchè fanatica, religiosità di Cortès non gli
impedì peraltro di trar profitto dalla diffusa credenza, tra i
popoli dell’Anahuac, che gli spagnoli fossero venuti ad annunziare
il ritorno del dio Quetzalcoatl, o fossero divinità essi stessi.
Tuttavia,
i più brillanti risultati nel campo delle psyops
furono colti da Cortès nei confronti non degli avversari aztechi,
bensì dei tanti popoli indigeni tributari o nemici dell’impero di
Moctezuma: contrariamente a quanto in genere si crede, la capitale
Tenochtitlan non fu conquistata da poche centinaia di conquistadores,
bensì da un esercito composito formato in prevalenza da guerrieri
indi! Resosi conto che l’impero azteco si reggeva sull’oppressione
e il terrore, lo spagnolo comprese la necessità di assicurarsi
l’alleanza di altre, più deboli nazioni: si spiega così la
sorprendente clemenza di cui fa mostra nei confronti di genti che
inizialmente gli si oppongono, come i Tabascani84.
Se si voleva battere gli aztechi, in ogni caso, bisognava avere al
proprio fianco i più valorosi nemici di Moctezuma, vale a dire i
tlaxcalani. Tlaxcala era una piccola repubblica (oligarchica) che, da
lungo tempo, costituiva una vera spina nel fianco per l’imperatore
messicano: nel tentativo di sottometterla, gli eserciti aztechi erano
incappati in rovinose sconfitte. Cortès, intelligentemente, “decise
di propiziarsi i tlaxcalani facendosi precedere da un ambasciatore.
Scelse quattro dei Cempoalani più eminenti e inviò per mezzo loro
un dono marziale - un berretto di stoffa scarlatta, una spada e un
arco, armi che chiaramente suscitavano l’ammirazione generale degli
indigeni. Accompagnò i doni con una lettera in cui (...) esprimeva
la sua ammirazione per il valore dimostrato nella lunga resistenza
contro gli Aztechi, di cui intendeva soggiogare l’orgoglioso
impero. Non ci si poteva aspettare che questa lettera, redatta in
puro castigliano, riuscisse chiara ai Tlaxcalani. Ma Cortès ne
comunicò il contenuto agli ambasciatori. I misteriosi segni grafici
avrebbero forse impressionato gli indigeni come manifestazione di
un’intelligenza superiore (...)85”.
Non
fu facile per Cortès far passare i fieri Tlaxcalani dalla sua parte:
gli indigeni si rendevano conto che i nuovi arrivati erano ancor più
pericolosi di Moctezuma, e la libertà della repubblica più che mai
in pericolo. Guidati dall’abile Xicotencatl, si opposero con
coraggio agli spagnoli: ma in successive battaglie in campo aperto
furono decimati e sconfitti. Alla fine, il senato tlaxcalano si
rassegnò ad accettare il patto di alleanza proposto da Cortès: uno
dei capi si soffermò a lungo sulla liberalità mostrata dai
conquistatori verso i prigionieri come ulteriore motivo per stringere
un legame d’amicizia con uomini che sapevano essere amici oltre che
nemici. La (calcolata) clemenza di Cortès aveva dato i risultati
attesi: il combattivo esercito repubblicano passò agli ordini del
condottiero, e si mise in marcia alla volta dell’odiata capitale
azteca86.
Le
facili vittorie spagnole, ottenute contro un popolo che sempre gli si
era gagliardamente opposto, non mancarono di produrre una profonda
impressione su Moctezuma: paralizzato dal terrore e dall’indecisione,
egli non tentò neppure di ostacolare il cammino degli invasori.
Tenochtitlan era già caduta prima che Cortès vi mettesse piede.
Più
tardi solo il fanatismo dei conquistadores,
unito alla loro spaventosa ingordigia, mise a repentaglio il successo
dell’impresa; al di là di ciò, la capacità di Cortes di
comprendere la psicologia di popoli così diversi, e di metterli, per
le proprie finalità, gli uni contro gli altri; l’uso,
sapientemente alternato, di blandizie e minacce, nonchè la sovrana
abilità di manipolare le menti, servendosi in modo geniale degli
strumenti a disposizione, fanno del piccolo hidalgo
dell’Extremadura uno dei più brillanti fruitori di psyops
che la storia moderna ricordi.
9.
Il sole di Austerlitz
Nel
secolo che precede lo scoppio della Rivoluzione Francese, il
progressivo rafforzarsi degli ordinamenti statali e del controllo
governativo sul territorio porta, quasi ovunque in Europa, al
formarsi di potenti eserciti nazionali. Sorgono le accademie
militari, per preparare alla guerra moderna i comandanti e gli
ufficiali del futuro; fioriscono nuove specializzazioni e le
conquiste scientifiche trovano pronta applicazione al campo bellico.
L’arma psicologica riacquista l’importanza che già le era
riconosciuta dagli antichi: condottieri leggendari, come Federico II
di Prussia e George Washington, baseranno le loro fortune (anche)
sulla capacità di confondere sistematicamente il nemico e di
cattivarsi l’ammirazione, od il timore, dei contemporanei.
Uscì
dall'Accademia militare anche un giovane ufficiale corso, che
inframmezzava il suo cattivo francese con colorite imprecazioni in
italiano, ed era destinato a divenire, di lì a poco, il più celebre
ed osannato condottiero dell'età contemporanea. Si chiamava
Napoleone Bonaparte e dovette la sua fortuna, prima ancora che alle
doti eccezionali di statista e di militare, all'aver trascorso la
giovinezza in un periodo di rivolgimenti imprevedibili, che passa
sotto il nome di Rivoluzione Francese. Fosse nato vent'anni prima o
più tardi, probabilmente la sua carriera non sarebbe mai iniziata o
si sarebbe trascinata nell’ombra87;
invece le straordinarie possibilità offerte dai tempi, abilmente
colte, fecero di lui un Imperatore, un simbolo, un eroe leggendario;
e, in ultima analisi, una figura romantica, che ha segnato
l'immaginario collettivo dei popoli europei.88
La
scintilla del genio balena all'improvviso a Tolone (1794), quando il
giovanissimo ufficiale di artiglieria raggruppa i dispersi cannoni e,
nello stupore generale, riesce, grazie ad un susseguirsi di tiri di
prova ed immediate correzioni, a minacciare i vascelli inglesi che
prendono il largo in tutta fretta; di qui al comando dell'armata
d'Italia ed alla poltrona di primo console il passo è
sorprendentemente breve. I ritratti giovanili di Napoleone ci
rimandano immediatamente ad uno dei suoi modelli (l'altro è Giulio
Cesare): Alessandro Magno, figura affascinante di cui il corso
conosceva a menadito strategie ed imprese. Come lui Bonaparte è di
bassa statura, magro e nervoso; ha gli occhi straordinariamente vivi
e capelli lunghi fino alle spalle, che rimandano agli eroi omerici.
L’accostamento non gli sarebbe affatto spiaciuto: Napoleone,
attento studioso dell'antichità classica, nelle sculture e nei
dipinti di età imperiale si farà sovente rappresentare come un
Cesare romano.
Cesare
e Alessandro, dunque: ma come fa, il piccolo corso, a trasformare un
esercito di pezzenti, a corto persino di uniformi, nell'invincibile
armata d'Italia; come riesce a soggiogare l'Europa sconfiggendo, una
dietro l'altra, forze soverchianti e ben equipaggiate? Abbiamo già
visto che l'artiglieria, nelle sue mani, assurge ad arma risolutiva;
nè va sottovalutato l'impiego “a tutto campo” della cavalleria89:
"di
quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno",
dice di lui A. Manzoni nella celebre ode “Il 5 maggio”. La
rapidità di spostamento degli eserciti napoleonici sbalordiva i
contemporanei. C'è poi un ulteriore elemento: Napoleone sa
indubbiamente impressionare le menti, quelle dei suoi soldati al pari
di quelle dei popoli stranieri e di chi gli ostruisce il passo.
Conquista i francesi con il suo eroismo, che rifulge sul ponte di
Arcole, lo sprezzo del pericolo90
e la prontezza nel riconoscere l'altrui valore: nell’esercito
napoleonico ogni soldato portava nello zaino il bastone di
maresciallo, si usava dire, proprio per indicare che qualsiasi uomo
di umili origini, se intelligente e valoroso, poteva accedere ai
massimi gradi dell’armata (Gioachino Murat e soprattutto Ney sono
due chiari esempi in tal senso). Agli stranieri, nemici o meno che
siano, si rivolge invece la propaganda napoleonica: prima di
intraprendere qualsiasi campagna, Bonaparte studia, e non soltanto le
carte topografiche, ma soprattutto la mentalità, la psicologia di
popoli, circoli di potere e sovrani. Maneggia le tecniche di guerra
psicologica come pochi prima e dopo di lui; ma soprattutto riesce a
suscitare aspettative e speranze: riesce insomma a farsi amare. Non
solo nei ceti più umili: il celebre filosofo Fichte vede nel corso
un’impersonificazione delle forze della Storia, Beethoven gli
dedica, in un primo tempo, la sinfonia ”Eroica”, Ugo Foscolo si
arruola addirittura nell’armata! E che dire dei cavalleggeri
polacchi che, dalla sponda occidentale del Niemen, si gettano nelle
acque insidiose – il guado è poco più a monte, ma che importa
loro, sono così ebbri di gioia sconsiderata! – e annegano a decine
nel fiume, solo per avere l’onore di essere visti da lui? I
condottieri venuti prima di lui avevano di mira i propri interessi
dinastici, al limite quelli della Nazione: Napoleone invece ha in
mente di creare una nuova Europa, non fa distinzione tra francesi,
tedeschi, italiani e polacchi, purchè condividano il suo sogno!
Nelle pagine dettate a Sant’Elena egli ne delinea malinconicamente
i contorni, quando oramai è svanito nel vento: un continente unito e
governato da un’unica legge, un mondo di sudditi, forse, ma anche
di eguali, quando schiavitù, nazionalismi e divisioni saran stati
spazzati via.
Libertè,
egalitè, fraternitè.
I
detrattori di Napoleone in genere lo accusano di essersi cinicamente
servito degli ideali rivoluzionari come di un bandiera91,
di aver ingannato, in sostanza, i popoli che egli affermava di voler
liberare. Non possiamo ovviamente conoscere gli intendimenti più
segreti del corso, ma il volerlo raffigurare a tutti i costi come un
uomo meschino ed affamato di potere92,
oltre a suscitare qualche dubbio sull’obiettività di certi
storici, lascia insolute un’infinità di domande: come potè, un
personaggio attento solo al proprio particulare,
vincere decine di battaglie, cattivarsi il favore di intere
popolazioni e, fra una campagna e l’altra, riformare la
legislazione francese e creare una nuova classe di contadini93
e di funzionari? Com’è possibile che polacchi ed italiani, dopo
oltre un decennio di presunti “inganni”, accorrano nel 1812 ad
arruolarsi a migliaia nella Grande Armata destinata alla Russia?
Un’efficacia opera di propaganda, se smentita dai fatti concreti,
non basta di certo come spiegazione94;
risposte più attendibili possono venir desunte da azioni e
atteggiamenti tenuti da Napoleone nei confronti dei popoli con cui
viene in contatto. Le campagne d’Italia, in particolare, offrono
allo studioso numerosi spunti di riflessione.
Nel
giugno 1796, dopo aver lasciato parte dell’esercito repubblicano ad
assediare la fortezza (austriaca) di Mantova, l’allora generale
Bonaparte raggiunge di gran carriera Milano. Gli sono giunte voci di
saccheggi ed atti di violenza commessi dalle sue truppe: è
necessario immediatamente ristabilire ordine e disciplina ferrea. Non
intende passare per un capo di briganti od un oppressore di popoli:
se ha giustificato per qualche giorno i saccheggi dei suoi soldati –
l’armata è alla fame! – ora non è più disposto a tollerarli. I
suoi proclami sono chiari: fucilazione immediata per chi ruba,
disonore per i reparti che han preso parte a razzie, destituzione
degli ufficiali coinvolti95.
Soprattutto sono credibili: le condanne vengono eseguite, gli
abitanti del nord Italia tirano un sospiro di sollievo; il piccolo
corso inizia ovunque ad ispirare fiducia. D’ora in avanti la
condotta delle truppe francesi sarà ammirevole; così come
ammirevole, per non dire stupefacente, era parso ai milanesi il
contegno del generale, al primo incontro. Il 15 maggio, data del suo
trionfale ingresso in città, Napoleone è uno sconosciuto o quasi:
si sa soltanto che, alla guida di un’armata di straccioni, ha
sconfitto i piemontesi e, ciò che più conta, i temibili austriaci.
Serpeggiano curiosità e timore; ma a Bonaparte basta pochissimo
tempo per suscitare nei cittadini un entusiasmo sincero. Il generale
francese si rivolge agli italiani nella loro lingua, dimostra di
conoscere le vicende storiche della penisola dai tempi di Roma in
poi. Cita Platone, Aristotele, l’amato Giulio Cesare; fa rivivere
nelle sue parole l’esperienza straordinaria dei liberi Comuni
medievali; esorta gli italiani a riappropriarsi della loro Storia, a
risorgere come Nazione!
Propaganda
spregiudicata, frasi di circostanza? In un’altra occasione il corso
si rivolge così ai deputati del Congresso Cispadano: “La
disgraziata Italia è da molto tempo cancellata dal novero delle
potenze europee. Se gli italiani d’oggi sono degni di recuperare i
loro diritti e di dare a se stessi un governo libero, si vedrà un
giorno la loro patria figurare fra le grandi potenze della terra!”
Napoleone esorta gli italiani all’esercizio delle armi, alla
concordia interna, all’unione; dopo secoli di passiva
rassegnazione, getta – possiamo dire - i semi del Risorgimento96.
Ci
chiediamo di nuovo: fu mero calcolo politico a dettare al futuro
imperatore simili parole? Secondo noi è più logico pensare che egli
credesse realmente in quel che diceva, così come gli italiani
credettero in lui, e gli assicurarono, negli anni a venire, un
costante appoggio. Tirando le somme, il messaggio era quello giusto,
gli strumenti appaiono adeguati, il gruppo obiettivo venne raggiunto
e “conquistato”: fu una grande operazione di psyops
e,
molto probabilmente, qualcosa di più97.
La
“conquista delle menti e dei cuori”, riuscita a Napoleone in
mezza Europa, fallisce invece in Russia: un po’, forse, perché, da
buon francese, egli considera i russi semibarbari, un po’ perché
le condizioni sono obbiettivamente diverse. Nella tarda estate del
1812 l’armata imperiale, provata ma vittoriosa, entra in una Mosca
abbandonata dai difensori. Con gran sorpresa di Bonaparte, nessun
plenipotenziario gli si presenta a trattare la pace: i rappresentanti
dell’autorità sono fuggiti tutti, i pochi cittadini rimasti si
nascondono nelle case. Quel che è peggio, le attese riserve di
viveri non ci sono affatto; e i soldati imperiali98
si abbandonano al saccheggio. Napoleone è giustamente preoccupato:
teme l’odio e la resistenza dei russi, si rende conto
dell’importanza di conquistarne il favore. Dà perciò ordine di
riaprire le chiese al culto, istituisce la municipalità di Mosca e
redige dei proclami che vorrebbero essere rassicuranti99:
“Abitanti di Mosca! – esordisce in uno – Le vostre sventure
sono crudeli, ma Sua Maestà l’Imperatore e Re vuol far cessare il
corso delle medesime. Terribili esempi vi hanno insegnato in qual
modo egli punisce la disobbedienza e il crimine. Severi provvedimenti
sono stati presi per porre fine al disordine e riportare l’ordine
pubblico. Una paterna amministrazione, da voi istessi eletta,
costituirà la vostra municipalità, ovvero la procura cittadina.
Essa avrà cura di voi, dei vostri bisogni, del vostro interesse. (…)
La polizia urbana viene istituita in conformità al suo precedente
ordinamento, e grazie a essa l’ordine va di già molto meglio. (…)
Alcune chiese di varie confessioni sono aperte, e il divino uffizio
si celebra in esse senza alcun impedimento. I vostri concittadini
ritornano ogni giorno alle loro abitazioni, e sono stati impartiti
ordini perché trovino colà il soccorso e la protezione che per le
loro sventure si sono meritati. Sono questi i provvedimenti che il
governo mette in atto perché l’ordine ritorni, e per alleviare la
vostra situazione (…)”. In un altro proclama, rivolto ai
rappresentanti dei ceti produttivi, sta scritto: “Voi, (…)
artigiani e operai, che le sventure hanno costretti ad abbandonare la
città, e voi, sparsi agricoltori, che un’infondata paura ancora
trattiene nei campi, udite! (…) I vostri conterranei escono
arditamente dai loro rifugi, perché vedono che li si rispetta.
Qualunque violenza fatta a loro e alle loro proprietà, viene
immediatamente punita. Sua Maestà (…) li rispetta e non annovera
nessuno di voi tra i suoi nemici, all’infuori di quanti
disubbidiranno ai suoi comandi. (…) Artigiani e laboriosi operai!
Fate ritorno ai vostri mestieri: le case, le botteghe, le pattuglie
della sorveglianza vi aspettano, e per il vostro lavoro riceverete la
paga che vi è dovuta!”
Non
senza una dose di tagliente ironia, Tolstòj loda l’operato
dell’imperatore che ”faceva del pari tutto ciò che era in suo
potere100“:
alla fine, tuttavia, ogni suo sforzo di cattivarsi la simpatia dei
russi si rivelerà vano. Quali le cause dell’insuccesso? Possono
aver giocato un ruolo il profondo patriottismo dei russi, la loro
fiducia nello czar; il fatto che “nei proclami di Napoleone a Mosca
si avvertono tratti arcaici, goffi e pomposi, tipici del linguaggio
burocratico”101
(laddove per raggiungere il gruppo obiettivo occorre adoperare il suo
linguaggio!); in ultima analisi, però, la spiegazione più
soddisfacente ci viene offerta da Tolstòj stesso: “Eppure, cosa
strana, tutte queste disposizioni, premure e progetti che non erano
affatto peggiori degli altri adottati in occasioni consimili, non
sfiorarono neppure la sostanza della questione, ma, come le lancette
d’un quadrante d’orologio staccato dal suo meccanismo, giravano
arbitrariamente e senza scopo, senza ingranare nelle rotelle.102”
L’operazione psicologica fallisce, in primo luogo, perché il
messaggio veicolato non risulta credibile, appare avulso dalla
(tragica) realtà di quei giorni. Risultato: la Russia si mantiene
ostile a Napoleone.
Abbiamo
finora visto esempi di psyops
“di
consolidamento”, dall’esito più o meno felice, condotte sul
modello alessandrino nei confronti delle popolazioni sottomesse; ma
Napoleone eccelle soprattutto nelle operazioni “strategiche”,
dirette contro concentramenti di forze nemiche (e qui è più
evidente l’influsso di Giulio Cesare). Esamineremo due consecutivi
episodi103:
nel primo (Ulm) Bonaparte riesce ad ottenere la resa di un’intera
armata austriaca senza dover combattere; nel secondo (Austerlitz)
l’imperatore si serve genialmente di psyops
per
invogliare gli austro-russi ad accettare una battaglia decisiva nelle
condizioni a lui più favorevoli!
Nell’autunno
del 1805 Napoleone si trova ad affrontare una grave minaccia da est:
il 10 settembre gli austriaci sono entrati in Baviera, imponenti
rinforzi russi marciano alla volta dell’Europa centrale.
L’imperatore deve giocare d’anticipo, affrontare i nemici prima
che si ricongiungano per assalire la Francia da più punti. Il tempo
non è dalla sua parte, e Napoleone lo sa. Così concepisce una
manovra ardita: decide di mettere fuori gioco l’armata austriaca
attestata sul Danubio, 40.000 uomini al comando dell’arciduca
Ferdinando e di Karl Mack, prima di ingaggiare lo scontro risolutivo
con le restanti forze austriache ed i russi di Kutuzov. Se
l’operazione è ben condotta, la sorpresa è sicura: gli austriaci
sono certi che l’attacco francese si svilupperà attraverso la
Foresta Nera, interessando al massimo 70.000 soldati, e che buona
parte dell’esercito napoleonico sarà inviato in Italia per
fronteggiare l’arciduca Carlo; credendosi al riparo, attendono con
fiducia l’arrivo delle avanguardie russe. L’imperatore progetta
invece di aggirare le truppe di Mack con i 210.000 uomini della
Grande
Armee in
arrivo dalla Francia; ma come riuscire ad effettuare un tale
spostamento nel più assoluto segreto? Napoleone ordina che nessuna
informazione trapeli dalla stampa e dalle frontiere francesi; per
velocizzare la marcia – condotta ad un ritmo impensabile per
l’epoca - riduce al minimo i rifornimenti, confidando nelle risorse
locali; si avvale infine dello straordinario apporto della Riserva di
cavalleria agli ordini di Murat. Quest’ultima operò
incessantemente con finti attacchi nella Foresta Nera, calamitando
l’attenzione di Mack e Ferdinando e creando con la sua mobilità
un’impenetrabile “cortina fumogena” davanti agli occhi degli
austriaci, i quali per quindici giorni rimasero all’oscuro di
quanto stava accadendo, cioè del fatto che la Grande
Armee marciava
direttamente su di loro: quando infine si avvidero di essere
circondati da un esercito tanto superiore, con i russi ad oltre 150
chilometri di distanza, furono travolti dallo scoramento e non ebbero
altra scelta che arrendersi104,
senza quasi aver sparato un colpo105.
E’ proprio il fattore rapidità, oltre all’abile dissimulazione
dei propri intenti da parte di Napoleone, a rendere possibile la
“beffa” di Ulm.
La
vittoria incruenta in Baviera costituisce, per Napoleone, nient’altro
che il preludio della progettata battaglia di annientamento ai danni
dell’esercito alleato, che si svolgerà il 2 dicembre in Moravia,
ad Austerlitz. Nel corso di una perlustrazione, il 24 novembre, il
corso individua il terreno a lui più favorevole, una piana dominata
da basse colline (le alture di Pratzen): si tratta ora di attirare il
nemico in trappola, stimolandolo alla lotta. Come riuscire
nell’intento? Napoleone sa quanto sia forte la brama di rivincita,
soprattutto nei circoli militari austriaci, e sceglie l’esca
giusta: finge di volersi ritirare per timore di essere accerchiato
sulla destra e tagliato fuori da Vienna. Ostenta nervosismo ed
insicurezza: chiede continui incontri con il nemico, per enfatizzare
l’apparente debolezza; sotto gli occhi del conte russo Dolgorùkov
ordina ai suoi soldati di abbandonare le alture di Pratzen, di
muoversi in disordine, di dare insomma agli austro-russi
l’impressione di uno esercito allo sbando. Nei giorni
immediatamente precedenti la battaglia, l’ordine di Napoleone ai
suoi soldati è il seguente: recitare il panico! La scena si svolge
in un “teatro” all’aperto, davanti ad una collina in mano agli
alleati; pur comprensibilmente disorientati, i soldati francesi si
inchinano alla volontà del loro comandante, in cui nutrono piena
fiducia.106
E fanno bene!
All’alba
del 2 novembre le truppe alleate cominciano lentamente a discendere
le colline di Pratzen: lo scopo è quello di aggirare l’ala destra
francese, secondo il piano del generale Weirother, inutilmente
avversato da Kutuzov. Le truppe avanzano difficoltosamente nella
fitta oscurità, iniziano a sfilacciarsi. Napoleone non aspetta
altro: alle prime ore del mattino irrompe con la massa delle sue
forze sul centro ormai sguarnito degli alleati. Quando la nebbia si
alza e compare, alto nel cielo, il “sole di Austerlitz”107,
il vecchio maresciallo Kutuzov sarà l’unico ad accogliersi del
terribile pericolo che incombe sulle sue truppe: Tolstòj, in pagine
tra le più belle di “Guerra e Pace”, descrive i suoi inutili,
disperati sforzi di impedire la disfatta, l’isolamento del fianco
sinistro e la distruzione di quello destro. Anche grazie allo
straordinario eroismo dei russi, poeticamente riassunto nel solitario
assalto del principe Andrèj, la battaglia si trascinerà fino al
tardo pomeriggio: da ultimo, il furioso cannoneggiamento, voluto da
Napoleone, del lago ghiacciato di Satschan, attraverso il quale l’ala
sinistra russa cerca invano di battere in ritirata, mette fine allo
scontro prima del calar del sole.
Austerlitz
è forse il più grande trionfo militare del corso, una battaglia
pianificata e combattuta alla perfezione. Essa ci fornisce qualche
indicazione concreta sul “perché” dell’inarrestabile ascesa di
Napoleone, consente cioè di abbozzare una risposta alla domanda
iniziale.
Prima
di combattere, Bonaparte conosce perfettamente il modus
operandi
e la consistenza di chi ha di fronte; sa individuare, al primo
sguardo, i punti deboli dell’avversario. Non stupisce perciò che
le sue psyops
siano
generalmente efficaci: egli vince grazie all’intelligenza, alla
fantasia, disdegnando il ricorso alla forza bruta. Ulm ed Austerlitz
ci insegnano anche altro, però: nella prima circostanza assume
rilievo l’operato della cavalleria, impiegata in maniera innovativa
e “poco ortodossa”108;
in Moravia, il colpo decisivo viene sferrato dall’artiglieria che,
come a Tolone, viene raggruppata in modo da recare il maggior danno
possibile al nemico. Merita osservare che, come i più illustri tra i
suoi predecessori109,
anche Napoleone non introduce armi od equipaggiamenti nuovi (eccezion
fatta per le cotte dei corazzieri): si serve invece in modo
assolutamente rivoluzionario di quelli già esistenti, combinandone
l’efficacia distruttiva ed adattandoli alle circostanze, in modo
che l’obiettivo prefisso sia comunque raggiunto. Psyops
è
dunque solo un componente della panoplia che Bonaparte porta ovunque
con sé, nelle campagne.
Rileggiamo
i paragrafi che precedono: ciò che in fondo accomuna i condottieri
di maggior talento, da Alessandro ad Annibale, da Gengis Khan a
Napoleone, è la capacità di tradurre immediatamente il progetto in
azione, unita all’elemento di imprevedibilità che deriva dal
rifiuto di seguire schemi che altri hanno tracciato. Il corso vince
facilmente le prime battaglie perché i suoi avversari mancano di
elasticità, seguono acriticamente le nozioni apprese nelle scuole di
guerra: sono generali “da tavolino”, che innamorati dell’idea,
il “piano” così come concepito in astratto, non si curano della
realtà, cioè delle condizioni del terreno né di altre possibili
variabili. Un esempio illuminante viene dal contegno del generale
Weirother, figura secondaria che prende vita nei periodi dedicatigli
da Tolstòj: “Weirother rispondeva a tutte le obiezioni110
con un fermo e sprezzante sorriso, che evidentemente si era preparato
in precedenza per qualsiasi obiezione, indipendentemente da ciò che
gli avrebbero detto. “Se avesse potuto attaccarci, l’avrebbe
fatto oggi” disse. “Dunque voi pensate che non abbia più forze?”
disse Langeron. “E’ molto se ha quarantamila soldati.” Rispose
Weirother, con il sorriso del dottore a cui un ciarlatano vuol
suggerire una terapia. (…) Weirother sogghignò ancora, con quel
suo sorriso che diceva quanto fosse buffo e strano per
lui dover
affrontare le obiezioni dei generali russi, e dover dimostrare ciò
di cui non soltanto lui era perfettamente convinto, ma di cui lui
aveva già convinto anche i sovrani imperatori.”111
E’
chiaro che simili avversari, prevedibili perché vincolati, anche da
un punto di vista psicologico, a concezioni strategiche sorpassate –
che pure, al loro apparire, si erano imposte come rivoluzionarie! –
non hanno alcuna possibilità di mettere in crisi Napoleone.
Tuttavia, se la creatività appartiene al genio, l’uomo
intelligente impara. Per spiegare il successivo declino del grande
corso, culminato nella disfatta di Waterloo, si possono addurre
numerosi fattori, che vanno dal logorio fisico all’eccessiva
ambizione, dal dominio inglese sui mari al progressivo assottigliarsi
delle truppe migliori, provate da troppe campagne; ma non va
dimenticato che, negli ultimi anni, i francesi si troveranno di
fronte dei generali, come Wellington, Radetzky, lo stesso Kutuzov,
che hanno appreso a far la guerra in modo non convenzionale, cioè
“alla Napoleone”! Né quello di Bonaparte è un caso isolato:
Scipione, il vincitore di Zama, può essere considerato un “alunno”
di Annibale, così come Giulio Cesare, opposto all’ex
legato
Labieno passato ai pompeiani, affermerà, dopo il sofferto successo
di Munda, di aver combattuto non per la vittoria, ma per la vita!112
In
campo militare le innovazioni tattiche o strategiche, solitamente
introdotte da condottieri geniali, si pongono in rapporto di
antitesi-tesi con la situazione (e la dottrina) esistente, che ne
viene stravolta; per arrivare ad una sintesi, sempre temporanea, è
necessario che le novità vengano assimilate e fatte proprie dai
tecnici di maggior talento. Il rischio, o per meglio dire l’esito
quasi inevitabile, è che l’idea rivoluzionaria divenga a sua volta
dogma113:
l’unico antidoto a questa tendenza alla “sclerotizzazione”
consiste, ove possibile, nel formare giovani ufficiali che siano non
meri esecutori, bensì interpreti di una determinata dottrina;
ufficiali con un solido patrimonio di conoscenze tecniche ma duttili
e creativi, capaci di scelte autonome. Un simile discorso, valido per
l’artigliere come per l’aviatore, lo è a maggior ragione per il
“guerriero psicologico”.
10.
Il volo del poeta
Un’analisi,
anche affrettata, delle tecniche usate dai più capaci generali
dell’età contemporanea richiederebbe decine se non centinaia di
pagine: perciò abbiamo deciso di soffermarci su di un episodio
recente, ma caratterizzato da tali elementi di novità, per l’epoca,
da poter essere considerato il prototipo delle operazioni
psicologiche oggidì condotte. L’anno è il 1918; i protagonisti
della vicenda sono, accanto ad una singolare figura di poeta-soldato,
l’aeroplano ed il volantino, che fanno così la loro comparsa nella
storia secolare delle psyops.
La
Grande Guerra, che aveva già fatto milioni di vittime, durava ormai
da quattro anni: viste le difficoltà - logistiche - in cui si
dibattevano i tedeschi, sembrava però, nell’estate 1918, che il
trionfo dell’Intesa (Inghilterra, Francia, Stati Uniti ed Italia,
oltre ad alleati minori) fosse imminente. L’imperialregio esercito
austroungarico, tuttavia, occupava ancora larghe porzioni del nordest
italiano e, nonostante la vittoriosa battaglia d’arresto combattuta
dagli italiani sul Piave, ricacciarlo indietro non sarebbe stata
impresa facile. Gabriele D’Annunzio, l’ardimentoso poeta che già
aveva partecipato alla (fallimentare) “beffa di Buccari” sulle
unità sottili dell’amico Costanzo Ciano ed aveva sorvolato, a fini
dimostrativi, Lubiana e Trieste, sognava un’impresa che gli
garantisse gloria imperitura ed affrettasse la conclusione del
conflitto. Sognava di volare su Vienna, la capitale nemica. Sottopose
il suo rischioso progetto al Comando Supremo che, considerati i
benefici per il Paese in caso di riuscita, diede il suo benestare,
facendo modificare uno degli apparecchi destinati al volo perché
potesse accogliere il poeta-soldato coi suoi messaggi da lanciare sui
viennesi. Non bombe, manifesti dunque: eppure avrebbero fatto più
male di una pioggia di fuoco!
All’alba
del 9 agosto gli otto monoplani della squadriglia “Serenissima”
si alzarono in volo dall’aeroporto posto nelle vicinanze di Padova,
destinazione l’Austria inferiore. Ogni apparecchio portava un
carico di venti chili di carta stampata: erano “l’arme lunga
della gesta inerme”. Senza essere intercettati risalirono la valle
dell’Isonzo, sorvolarono Tolmino e i monti boscosi della Carinzia.
Nessun aereo nemico ostacolò il loro volo, neppure quando lontana,
all’orizzonte, apparve la distesa di case e palazzi ch’era
Vienna. Raccontano i testimoni che intorno alle nove e venti minuti
la squadriglia ridotta a sette apparecchi - quello del tenente Sarti
era stato costretto da avarie ad atterrare - prese a volteggiare nel
cielo della capitale, sconcertando e meravigliando la folla immensa
che, alla notizia dell’apparizione degli aerei nemici, si era
riversata nelle piazze e nelle strade. L’aria tersa e luminosa,
l’inazione dei comandi austriaci favorivano i disegni del poeta: a
un tratto, sui viennesi allibiti e affascinati, cominciarono a
piovere a decine di migliaia i volantini. Al “goffo e intraducibile
messaggio di D’Annunzio stampato in 50.000 copie”114
il Comando aveva voluto abbinare un eloquente invito alla resa
scritto da Ugo Ojetti, tradotto in tedesco e stampato in 350.000
copie(!), che così recitava: “Viennesi! imparate a conoscere gli
italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a
tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori
della libertà. Noi non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi,
alle donne. Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico delle
libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele governo che non
sa darvi né pace né pane, e vi nutre d’odio e d’illusioni.
Viennesi! Voi avete fama d’essere intelligenti. Ma perché vi siete
messa l’uniforme prussiana? Ormai, lo vedete, tutto il mondo si è
volto contro di voi. Volete continuare la guerra? Continuatela. E’
il vostro suicidio. Che sperate? La vittoria decisiva promessavi dai
generali prussiani? La loro vittoria è come il pane dell’Ucraina:
si muore aspettandolo. Popolo di Vienna, pensa ai tuoi casi.
Svegliati! Viva la libertà! Viva l’Italia! Viva l’Intesa!”
Sganciato
il loro carico, gli aviatori italiani tornarono sani e salvi alla
loro base lontana. L’effetto prodotto da un’impresa giudicata
impossibile fu incalcolabile: i giornali francesi, inglesi, americani
e persino tedeschi la portarono alle stelle115.
Com’è
stato fatto presente nel primo capitolo, è impossibile determinare
con scientifica certezza l’influenza di un’operazione psicologica
(riuscita) sugli eventi successivi: ma non è assurdo sostenere che
l’azione dannunziana, infliggendo un colpo terribile al morale
dell’avversario, abbia avuto ripercussioni tali, sui popoli della
monarchia, da agevolare il disfacimento dell’impero e, quindi, la
sconfitta austriaca. Vienna è indifesa, l’Austria-Ungheria è
condannata, ci si rese conto improvvisamente negli angoli più
sperduti dei territori soggetti agli Asburgo, tra popolazioni
anelanti all’indipendenza. Scrisse un giornale austriaco a
larghissima diffusione, l’Arbeiter
Zeitung:
“Dove sono i nostri D’Annunzio? D’Annunzio, che noi ritenevamo
un uomo gonfio di presunzione, l’oratore pagato per la propaganda
di guerra grande stile, ha dimostrato di essere un uomo all’altezza
del compito e un bravissimo ufficiale aviatore. Il difficile e
faticoso volo da lui eseguito, nella sua non più giovane età,
dimostra a sufficienza il valore del Poeta italiano che a noi certo
non piace dipingere come un commediante. E i nostri D’Annunzio,
dove sono? Anche tra noi si contano in gran numero quelli che allo
scoppiar della guerra declamarono enfatiche poesie. Però nessuno di
loro ha il coraggio di fare l’aviatore!”
Gabriele
D’Annunzio non poteva desiderare premio maggior di questo: la lode
sincera del nemico, che suonava quasi come un’ammissione di
sconfitta. Entrambi gli scopi che egli si proponeva alla vigilia
erano stati raggiunti.
Se
il successo dell’operazione condotta dal poeta-soldato è
innegabile vediamo di metterne in evidenza i motivi, alla luce delle
regole di psyops
esposte nel capitolo introduttivo. Nella circostanza, è del tutto
chiaro che tanto il messaggio quanto il mezzo scelto per trasmetterlo
(mezzo che, a sua volta, è anche messaggio!) rispondessero
perfettamente alle esigenze degli italiani. Il testo di Ojetti, che
faceva leva, tra l’altro, sull’antica diffidenza degli austriaci
nei confronti dei vicini tedeschi (ed in particolare dei Preussen,
i bellicosi prussiani), suggeriva tre cose: che la guerra era
irrimediabilmente perduta per gli imperi centrali, ad onta delle poco
convinte rassicurazioni germaniche; che il perdurare del conflitto
avrebbe reso ancora più drammatica la penuria di generi alimentari
che già affliggeva la cittadinanza viennese ed i popoli della
monarchia (lo spettro della fame!); che i tanto disprezzati italiani,
infine, erano in grado di compiere azioni clamorose, e si
accreditavano come un nemico potente, ma cavalleresco, cui non poteva
sfuggire la vittoria finale.
L’analisi
del “carattere nazionale”, dei timori e delle passioni del gruppo
obiettivo era stata effettuata in modo eccellente. Ma ciò che rese
il messaggio così efficace fu lo strumento usato: l’aeronautica
muoveva allora i suoi primi passi, e il volo di una squadriglia di
aerei per centinaia di chilometri in territorio nemico aveva il
sapore dell’impresa. Era una dimostrazione di forza lampante, che
suffragava e rendeva credibile il testo dei volantini, ed impressionò
vivamente i viennesi. L’Italia è il futuro, l’impero
transnazionale appartiene al passato: ecco quello che, confusamente,
percepì la folla che osservava il cielo.
Giova
da ultimo sottolineare che quest’ardita operazione di psyops,
che presenta tutti i caratteri delle più riuscite azioni odierne, fu
soltanto avallata, non progettata dal Comando Supremo: essa è dovuta
al genio di D’Annunzio. Purtroppo, come spesso accade, furono altre
nazioni a mettere a frutto la lezione prontamente appresa, facendo
della guerra psicologica quasi una scienza, mentre gli italiani,
iniziatori anche in questo campo per ispirazione del singolo,
rimasero indietro.
11.
Veritas se ipsa defendet?
Perché
le guerre scoppiano?
Per
volontà degli dei, rispondevano gli antichi; per ambizione, e
desiderio di gloria di singoli uomini, secondo gli storici dell’età
romantica116.
Oggi, più convincentemente, si ritiene che alla base di ogni
conflitto e sommovimento vi sia un complesso di ragioni politiche,
sociali, ideologiche117;
ma soprattutto economiche. In sostanza, si fa la guerra per estendere
la propria sfera di influenza, per impadronirsi di nuovi mercati;
talvolta, per acquisire o consolidare il consenso popolare
all’interno.
Chi
decide di prendere le armi è sempre l’elite
(che nella società contemporanea coincide spesso con i grandi
potentati economici, di cui il vertice politico è “portavoce”),
ma ad impugnarle sul campo di battaglia, a combattere e morire a
migliaia sono chiamati i comuni cittadini. E’ sicuramente possibile
costringere un uomo ad indossare l’uniforme, abbandonando la casa e
la famiglia; ma è assai più produttivo indurlo ad imbracciare le
armi volontariamente, per una casa che egli consideri giusta.
Quello
di “guerra giusta” (o “santa”) non è affatto un concetto
nuovo, di matrice novecentesca; ad esso i governi fanno ricorso da
migliaia di anni, perlomeno dall’epoca di Sargon di Akkad.
Oggi
tuttavia, grazie ai moderni mezzi di informazione, instillare nelle
moltitudini l’idea di una causa per cui valga la pena lottare è
particolarmente semplice; ma la distorsione della realtà,
finalizzata a demonizzare il futuro nemico, ha bisogno di fatti
concreti cui appoggiarsi: vale a dire, di un “casus
belli”.
Fu
così per il celebre attentato di Sarajevo, che “giustificò”
l’attacco – già pianificato – dell’Austria-Ungheria alla
Serbia118;
fu così, almeno in apparenza, per la tragica vicenda del piroscafo
Lusitania.
I
libri di Storia narrano che il 7 maggio 1915, al largo di Kindsale
(Irlanda) il transatlantico inglese Lusitania fu silurato ed
affondato dal sommergibile tedesco U 20 del comandante Schwieger.
Sulla nave, partita da New York alla volta dell’Inghilterra, si
trovavano quasi 2000 persone, tra passeggeri ed equipaggio: i morti
furono 1198119,
124 dei quali erano cittadini statunitensi. L’episodio suscitò una
fortissima indignazione ovunque, ma specialmente in America: una
violenta nota di protesta del Presidente Wilson, unita a
considerazioni di natura politica spinsero il Kaiser
Guglielmo
II, contro il parere degli esperti, a porre restrizioni alla guerra
dei sommergibili120.
Questa
decisione – primo effetto dell’affondamento della grande nave –
non arrecò significativi benefici alla causa tedesca: una
martellante campagna stampa121
tenne vivo (e contribuì grandemente a creare) lo spirito di rivalsa
dell’opinione pubblica americana; spontanee o meno che fossero, si
susseguivano quotidianamente negli States
vibranti
manifestazioni antigermaniche. L’ex
Presidente
Theodore Roosevelt, conosciuto come filotedesco, chiedeva adesso a
gran voce l’entrata in guerra contro l’impero germanico: alle sue
dichiarazioni venne dato ampio risalto dai maggiori quotidiani.
L’incitamento
all’odio diede i frutti previsti122:
quando, nell’aprile 1917, gli Stati Uniti entrarono finalmente in
guerra a fianco dell’Intesa, centinaia di migliaia di volontari
corsero ad imbarcarsi per l’Europa, decisi a liberarla una volta
per tutte dalla minaccia di “unni e vandali” (secondo la
riportata definizione del Tribune).
Com’è noto, l’intervento americano – anche grazie al cospicuo
invio di armi e materiali, sfornati a profusione dall’industria –
decise le sorti del primo conflitto mondiale.
I
generosi combattenti d’oltreoceano sentivano di essere dalla parte
giusta; c’erano alcuni aspetti della vicenda del Lusitania, però,
che alla maggior parte di essi erano del tutto ignoti. In primo
luogo, essi non sapevano – o non ricordavano, perché dopo
l’affondamento del transatlantico i giornali USA si erano ben
guardati dal riprendere la notizia – che in data 22 aprile 1915 era
apparsa, sui 50 principali quotidiani statunitensi, una nota diramata
dall’ambasciata tedesca a Washington, che avvertiva i “viaggiatori
oceanici” dei rischi connessi alla traversata, stante il fatto che
“la zona di guerra include le acque adiacenti alle isole
britanniche; che, in conformità all’annuncio formale dato
dall’Imperiale Governo Germanico, i vascelli battenti bandiera
britannica o di uno dei Paesi suoi alleati possono essere distrutti
in quelle acque e che i passeggeri che navighino in zona di guerra su
navi della Gran Bretagna o dei suoi alleati lo fanno a proprio
rischio.123”
Il
30 aprile il capitano del Lusitania, Turner, volle rassicurare i
viaggiatori: nelle acque dell’Irlanda sudoccidentale era in attesa
l’incrociatore britannico Juno, che avrebbe scortato il piroscafo
fino alla destinazione finale, Liverpool. Non c’era da
preoccuparsi, dunque; inoltre, non era forse il Lusitania una nave
passeggeri, insuscettibile di impiego bellico? Così generalmente si
credeva: sta di fatto che quasi nessuno rinunciò alla traversata.
Ciò
che le future vittime non potevano immaginare era che, a far data dal
17 settembre 1914, il Lusitania risultava iscritto come “armed
merchant cruise”
- vale a dire “incrociatore armato di origine mercantile” - nel
registro ufficiale della flotta britannica124;
e che inoltre, come è stato ampiamente dimostrato in seguito125,
la nave trasportava materiale bellico e munizioni destinati alle
forze armate inglesi.
In
sostanza, secondo il diritto di guerra, il Lusitania poteva essere
legittimamente considerato dai tedeschi una “preda bellica”126;
e così fu.
Ma
c’è dell’altro: quel tragico 7 di maggio il capitano Turner
riceve l’ordine di dirigere su Queenstown, anziché su Liverpool.
La nuova rotta implica necessariamente un incontro ravvicinato con il
sommergibile tedesco U 20; e all’Ammiragliato britannico lo sanno
benissimo, visto che la posizione dell’unità nemica è nota!
Sono
le prime ore del pomeriggio quando il Lusitania viene avvistato
dall’equipaggio tedesco: naviga a zig-zag,
senza scorta, e costituisce un facile bersaglio.127
Il sommergibile si prepara all’attacco, e il capitano Turner non
tenta alcuna manovra evasiva: un siluro, lanciato dalla distanza di
650 metri, provoca una prima esplosione, cui fa seguito, come ebbe
successivamente a dichiarare il comandante tedesco Schwieger,
“un’esplosione inusitatamente disastrosa”, che squassa il
transatlantico e ne provoca l’affondamento nel giro di pochi
minuti.128
Era
saltato in aria il deposito munizioni.
Come
si spiega l’ordine pervenuto al capitano Turner, e la condotta
discutibile di quest’ultimo? La risposta sta in questo scambio di
battute (febbraio 1915) tra il Ministro degli Esteri britannico Grey
ed esponenti del governo americano: “cosa farà l’America, se i
tedeschi dovessero affondare una nave passeggeri con turisti
americani a bordo?” – chiese il primo. “Questo ci porterebbe
alla guerra”, fu la decisa replica.
Di
fatto, “il Lusitania viene diretto dall’Ammiragliato britannico
direttamente dinanzi ai tubi di lancio dell’U boot tedesco, in modo
da provocare una reazione tale da coinvolgere l’America nella
guerra.”129
Era il casus
belli ideale,
studiato e progettato a tavolino dai massimi vertici
anglo-americani130:
a questi ultimi, e non ai militari tedeschi, va pertanto addossata la
responsabilità della morte atroce di oltre un migliaio di civili
inermi!
D’altronde,
se è immediatamente chiaro l’interesse inglese ad un allargamento
del conflitto, anche il governo e l’alta finanza americana avevano
buoni motivi per prendervi parte: gli Stati Uniti avevano concesso
ingenti prestiti a tutte le potenze dell’Intesa (oltre a rifornirle
di armi), e in caso di sconfitta di quest’ultima i debiti non
sarebbero stati onorati; inoltre, dopo la rinuncia alla “dottrina
Monroe”, coincisa con la sottrazione agli spagnoli di Cuba e delle
Filippine, gli americani erano ben decisi a ritagliarsi un ruolo da
protagonisti sulla scena politica europea, senza contare che
un’Europa uscita provata dalla guerra poteva rappresentare un
mercato appetibilissimo per i prodotti d’oltreoceano.
Ragioni
economiche e geopolitiche, dunque, alle radici di una “guerra
giusta”; ma al di là dei risvolti etici, il tragico caso del
Lusitania interessa lo studioso di psyops
sotto un
profilo specifico. E’ noto che già nell’agosto 1914 i britannici
avevano fondato il “War
propaganda bureau”,
l’ufficio propaganda di guerra, che costituì un modello anche per
gli americani. Fin da subito, le operazioni condotte dal Bureau
ebbero un unico scopo, assolutamente innovativo: la demonizzazione
del nemico, agli occhi dell’opinione pubblica interna ed
internazionale. Chi non rammenta le raccapriccianti notizie relative
a stupri di massa e mutilazioni di bambini131
nel Belgio occupato dai tedeschi? Si trattava di assolute falsità,
ma sul momento vennero credute e, per così dire, “prepararono il
terreno” in cui avrebbe attecchito la grande menzogna del
Lusitania. Solo dei diavoli, delle creature disumane avrebbero potuto
macchiarsi di un tale delitto!
Grazie
ad una spregiudicata opera di propaganda (il concetto di psyops
non era
stato ancora definito dagli esperti) e ad alcuni eventi
“provvidenziali”, una comune guerra di matrice economica divenne
una crociata contro “unni e vandali”: e detta impostazione
giustificò agli occhi del mondo, a conflitto concluso,
l’annichilimento e l’umiliazione delle potenze sconfitte.
Agitando la bandiera della libertà e della democrazia132,
i Paesi vincitori imposero la loro tutela alle altre nazioni.
Si
può anche osservare che la situazione e gli avvenimenti appena
descritti presentano una sinistra analogia con quanto sta attualmente
accadendo; non è questa la sede, tuttavia, per esprimere dubbi e
congetture prive, al momento, di qualsiasi riscontro concreto. E’
probabile che, com’è stato per il Lusitania, occorreranno decenni
per individuare, sotto una patina di menzogne, le tessere utili a
ricostruire la storia di questi nostri tempi.
12.
Guerra psicologica e strategia del terrore
Se
di impiego della guerra psicologica si può parlare fin dai tempi più
remoti, è tuttavia opinione comune, l’abbiamo visto, che solo con
la seconda guerra mondiale psyops
entri
nell’età adulta. Gli studiosi evidenziano, rispetto al passato,
un’intensificazione delle operazioni psicologiche a fini bellici, e
un loro uso su larga scala che non ha – o non avrebbe –
precedenti: se in parte la convinzione è influenzata dal dato che la
documentazione relativa all’ultimo secolo è più abbondante e
facilmente consultabile rispetto, per esempio, alle iscrizioni
egiziane od assire, il rapido progresso del novecento pone le
premesse per un effettivo perfezionamento delle tecniche di psywar.
Più
che l’affermarsi delle scienze psico-sociologiche, a incidere sulla
diffusione di psyops
è lo
straordinario sviluppo fatto segnare dai mezzi di comunicazione, che
per la prima volta nella Storia diventano “di massa”. La radio
prima, cinema e televisione poi sono in grado di raggiungere
chiunque, anche chi vive ai margini della società e non legge i
giornali: nati per la trasmissione di notizie e l’intrattenimento,
i nuovi strumenti si rivelano, nelle mani di spregiudicati
manipolatori alla Goebbels, impareggiabili veicoli di propaganda133.
Inoltre tecnologie così radicalmente nuove e “meravigliose”
suscitano nelle moltitudini quasi una sorta di religioso rispetto –
soprattutto nei periodi appena successivi alla loro introduzione –
e contribuiscono verisimilmente all’efficacia dei messaggi
veicolati (rendendo più agevole condurre operazioni psicologiche).
Non
sorprende che, già nel periodo precedente lo scoppio della guerra,
le dittature facciano largo ricorso a psyops
per
sostenere all’esterno le proprie pretese territoriali: per
acquisire il pieno controllo dell’opinione pubblica nazionale, le
elites
nazista e
bolscevica – ed in misura minore quella dell’Italia fascista –
mettono a punto strategie di propaganda alquanto raffinate che, con
gli opportuni accorgimenti, possono essere adattate a situazioni
sempre nuove e diverse.134
Estate
1938: dopo l’annessione incruenta della Renania, due anni prima, e
l’Anschluss
imposto
all’Austria, la Germania di Hitler fa di nuovo paura. La vittima
designata dell’espansionismo tedesco è ora la Cecoslovacchia,
stato multietnico nato dalla dissoluzione dell’impero asburgico.
Neppure questa volta manca una scusa per l’aggressione: in
territorio ceco, nella regione montagnosa dei Sudeti, vive una forta
minoranza di lingua tedesca, che lamenta discriminazioni da parte del
governo di Praga. La tensione tra i due Paesi arriva presto all’acme:
i cecoslovacchi si oppongono fieramente alle pretese tedesche, non
appaiono disposti a piegarsi. L’Europa delle grandi potenze trema
al pensiero che la crisi dei Sudeti possa innescare una reazione a
catena e, forse, una guerra mondiale. Come scongiurare un rischio
simile, visto anche che le opinioni pubbliche di Francia e
Inghilterra vogliono la pace, e i due Paesi non sono preparati ad un
conflitto? La Germania è già fortissima, si ragiona, il suo
esercito smanioso di combattere; ma sul serio Hitler è un
guerrafondaio, come lo dipinge la sinistra europea? In fondo sta solo
cercando di riportare la Germania ai suoi confini naturali: venendo
incontro alle sue richieste, non del tutto infondate, sarà forse
possibile disinnescare la carica di aggressività del nazismo. Certo,
per salvare la pace occorrerà abbandonare la piccola Cecoslovacchia
al suo destino: ma è un prezzo equo, secondo Chamberlain e Daladier.
Si
arriva così alla vergognosa conferenza di Monaco in cui, con
l’autorevole regia di Mussolini “salvatore della pace”, tutte
le pretese di Hitler vengono soddisfatte in nome di una miope
Realpolitik;
e mentre il loro Paese viene smembrato, i delegati cecoslovacchi sono
relegati in anticamera.135
Anche
alla luce degli avvenimenti immediatamente successivi, viene da
chiedersi: c’erano alternative alla resa di Monaco? Davvero il
nazismo non poteva essere fermato, nel 1938 o, addirittura, nel 1936
(anno dell’occupazione della Renania)? Effettivamente il riarmo
tedesco era in atto, e lo spettacolo delle Waffen
SS in
parata suscitava impressione in tutto il continente: ma tutta questa
potenza era reale, o solo mediaticamente simulata? Una risposta
inequivoca ci viene dal generale Keitel, capo dell’Alto Comando
della Wehrmacht (OKW), nella sua deposizione al processo di
Norimberga: “Fummo quanto mai lieti che non si giungesse a
operazioni militari perché… avevamo sempre avuto la convinzione
che i nostri mezzi per attaccare le fortificazioni di frontiera della
Cecoslovacchia erano insufficienti. Dal punto di vista puramente
militare ci mancavano i mezzi necessari per un attacco che implicava
lo sfondamento delle fortificazioni di frontiera.”136
Eccesso di pessimismo? Forse, ma condiviso addirittura da Adolf
Hitler che, dopo aver ispezionato la linea delle fortificazioni
ceche, ammise con Carl Burckhardt, alto commissario per Danzica della
Società delle Nazioni: “Quando, dopo Monaco, fummo in grado di
esaminare dall’interno la forza militare della Cecoslovacchia, ciò
che constatammo ci turbo non poco; avevamo corso un serio rischio. Il
piano preparato dai generali cechi era formidabile.”137
La
conclusione è sorprendente: la sottovalutata Cecoslovacchia avrebbe
potuto battere Hitler! Quello del Fuehrer era dunque un bluff,
e neppure il primo: se vi fosse stato un minimo di opposizione,
l’invasione della Renania, condotta da poche truppe “da parata”,
e l’occupazione dell’Austria – con le forze tedesche che
rischiarono di essere bloccate prima del confine… dalla mancanza di
carburante! – si sarebbero risolte in un fallimento, indubbiamente
esiziale per la sopravvivenza stessa del nazismo.
Tuttavia
l’Europa si lasciò intimorire e sedurre dalla propaganda di
Goebbels: intravvide nelle sfilate dei biondi guerrieri nordici una
forza che ancora non c’era, e permise ad Hitler di prepararsi ad un
conflitto che avrebbe mutato il corso della storia. Può darsi che il
Fuehrer abbia sottovalutato l’esercito cecoslovacco; ma certo la
vile reazione anglo-francese era da lui ampiamente prevista: se non
altro perché, per propiziarla, aveva impiegato tutti i mezzi
propagandistici a sua disposizione, dal cinema alle olimpiadi, dalle
parate alla diplomazia pubblica138.
Il capolavoro di Hitler, vero maestro dell’azzardo e di psyops,
era però ancora di là da venire: nel triste autunno del ’39,
mentre la Wehrmacht schiacciava la Polonia con i suoi carri veloci,
bastò un velo di truppe tedesche sul confine occidentale per
mantenere nell’inattività l’esercito francese. L’orco tedesco
aveva appreso che mostrare gli artigli era più produttivo che
usarli; in seguito, però, sarebbe andato incontro al suo destino
nelle sconfinate pianure della Russia.
All’alba
degli anni ’40, l’Unione Sovietica era un universo sconosciuto.
La rivoluzione di Lenin aveva liberato i russi da un’oppressione
secolare; successivamente il gerorgiano Stalin aveva instaurato una
dittatura feroce, ma tutt’altro che sorda alle esigenze della
modernizzazione. Nel quarto decennio del ‘900 l’esercito
sovietico era di gran lunga il più potente e meglio armato del
mondo, con un parco carri che sfiorava le 30.000 unità. Sebbene poco
interessato ad esportare il comunismo139,
Stalin ambiva a conquistare nuovi territori: la Finlandia, poco
abitata e apparentemente indifesa, faceva al caso suo. Sulla carta
(1939), l’esercito finlandese non valeva quello cecoslovacco,
neutralizzato da Hitler senza colpo ferire: ma solo sulla carta!
Sembrò una riedizione del duello tra Davide e Golia: nelle cupe
foreste della Carelia, le divisioni sovietiche, composte per lo più
da ucraini poco avvezzi ai climi freddi, andarono incontro a rovinose
sconfitte ad opera di avversari decisi e motivati.140
Da parte russa non si rinunziò all’impiego della guerra
psicologica. Scrive il giornalista Montanelli, inviato del Corriere
della Sera nei giorni del conflitto: “Ma i regali piovuti dal cielo
non sono stati solo delle bombe. Sono stati anche dei manifestini che
ho visto con i miei occhi: redatti in finlandese, che esortavano la
popolazione a ribellarsi al Governo e a intendersi con l’Unione
delle Libere Repubbliche Sovietiche “che – diceva il manifesto –
non vi affameranno, come stanno facendo i vostri dirigenti borghesi,
ma vi distribuiranno le loro ricchezze”.141
Nella corrispondenza del 1° dicembre ’39, riporta quest’altra
notizia: “Il giornale Pravda
ha
pubblicato un appello al partito comunista finlandese perché
intervenga a indurre i soldati finlandesi a deporre le armi, a
organizzare un Governo popolare, a espellere i proprietari terrieri e
i capi militari, a nazionalizzare le banche e le industrie, a
distribuire le proprietà fondiarie tra i coltivatori diretti e a far
la pace con l’Unione Sovietica. Corre voce che il manifesto sia
stato diffuso da una radio clandestina in lingua finlandese nelle
immediate vicinanze del vecchio confine. (…) La stessa radio ha
annunciato poi che, in seguito a una rivolta che si sarebbe prodotta
nell’esercito finlandese, sarebbe stato proclamato un “Governo
popolare” a Terijoki in Carelia, sotto la presidenza di Otto
Kuusinen, il cui fine è di rovesciare il Governo Ryti e di far la
pace con i sovietici. (…) Nella sua dichiarazione il nuovo
“Governo” prega il Governo sovietico di venirgli in aiuto con
l’esercito russo.”142
Volantini,
radio, disinformazione: come si vede il Governo sovietico utilizzò
tutti gli strumenti a sua disposizione per indebolire il fronte
avversario. Senza successo, tuttavia. Il perché del fallimento ce lo
spiega, da esperto di strategie di comunicazione qual era, lo stesso
Montanelli: “La Finlandia non ha masse proletarie; l’operaio
guadagna quasi quanto un tecnico, il contadino è proprietario della
terra che lavora, ognuno possiede, per lo meno, una casa, un giardino
e un libretto di risparmio. Non sono terre che il bolscevismo possa
fertilizzare con le sue dottrine perverse. La storia di Kuusinen, di
questo fantoccio che nessuno più ricordava se non per trattarlo da
rinnegato, non ha nemmeno indignato il Paese. Il Paese ne avrebbe
riso se la situazione consentisse di ridere.143”
Al di là della concessione all’ideologia, caratteristica
dell’epoca, il commento evidenzia un dato: che la propaganda
sovietica, piuttosto ripetitiva e basata sulla promessa di una
liberazione delle masse proletarie, non ha né può avere presa su
una società che non conosce il fenomeno dello sfruttamento dei
lavoratori. E’ il messaggio ad essere inefficace – o, per usare
le parole del giornalista, “grottesco” – non perché sbagliato
in sé, semplicemente perché rivolto ad un gruppo obiettivo non
allettabile con determinate promesse.144
Ad
ogni modo, una conferma della notevole importanza attribuita dai
sovietici alla guerra psicologica, già nel corso del secondo
conflitto mondiale, ci viene da un’intervista a Stefan Doemberg
pubblicata su “Il Piccolo” di Trieste di domenica 1 maggio 2005.145
Ebreo tedesco di nascita, Doemberg emigrò nel 1935 in Unione
Sovietica; nei giorni dell’aggressione nazista, si arruolò
giovanissimo nell’Armata rossa e combattè contro gli invasori.
Rientrato in Germania nel dopoguerra, ha diretto successivamente
l’Istituto di Storia contemporanea e quello di Storia delle
relazioni internazionali all’Università di Berlino, città dove
attualmente vive.
Ricordando
gli anni di guerra, dice tra l’altro Doemberg: “Mi assegnarono
alla 62° Armata, che aveva difeso Stalingrado. Al mio arrivo, i
tedeschi si erano già arresi, ma potei rendermi conto della
complessità di quel fronte. Essendo d’origine e di madrelingua
tedesca, pensarono di utilizzarmi al meglio inviandomi nella 7°
sezione, branca dell’Intelligence, adibita alla guerra psicologica.
Rispetto agli altri ufficiali sovietici, così speravano i miei
superiori, conoscevo, oltre alla lingua, qualcosa della mentalità e
della cultura del nemico. Scrivevamo i testi dei volantini da
lanciare oltre le linee, inviavamo messaggi per radio, interrogavamo
i prigionieri.”
Emergono
dati interessanti: in
primis l’utilizzo
di tecniche di persuasione moderne, fondate, oltre che sui messaggi
scritti, anche su trasmissioni radiofoniche; ancora, lo sforzo da
parte dei vertici militari di utilizzare uomini capaci di intendere
la psicologia del nemico. Ma ciò che maggiormente suscita
l’attenzione dello studioso è il riferimento alla “7° sezione”
fatto da Doemberg: dimostra che, già negli anni ’40, l’esercito
sovietico disponeva di unità specializzate in psyops.
In
generale, come già si è visto nel capitolo introduttivo, tutti o
quasi i partecipanti alla Seconda Guerra Mondiale fecero ricorso a
psywar. I
metodi usati sui vari fronti dai contendenti appaiono abbastanza
simili. Nei giorni dell’agonia dell’effimero Impero italiano in
Africa orientale, “gli inglesi fecero anche ricorso alla guerra
psicologica. Per demoralizzare i nostri soldati assediati, tutte le
sere trasmettevano con gli altoparlanti romantiche canzoni italiane,
brani di opere liriche e notizie delle nostre sconfitte in Grecia, in
Libia e nel Mediterraneo. Non mancavano neppure la pioggia di
volantini propagandistici e di salvacondotti per gli ascari che
volevano disertare.146”
Risulta
che la propaganda ebbe un limitato successo, specialmente tra le
truppe coloniali: ma a determinare, nella primavera del ’41, la
perdita di Etiopia e Somalia da parte italiana furono soprattutto
concezioni militari superate e penuria di mezzi.147
Non
v’è necessità, a questo punto, di citare altri esempi di impiego
di psyops
nel corso
del conflitto mondiale, anche perché molto s’è già scritto in
merito all’inizio di questa trattazione148;
giova invece sottolineare che in quel periodo prendono forma le prime
unità specializzate nella guerra psicologica149:
si è fatto riferimento alla 7° sezione della 62° armata sovietica
(è logico pensare che ogni grande unità russa fosse dotata
all’epoca di analoghe sezioni), ed è altresì attestata
l’esistenza, nell’US Army dell’epoca, di cellule “Progetti
speciali” e Compagnie di disseminazione150.
Sostanzialmente
si assiste all’affermarsi, già in tempo di guerra, di un modello
di psyops
che, se
non richiede particolare inventiva, postula uno studio più o meno
attento della situazione e del gruppo obiettivo, condotto da equipes
di
specialisti, e sfrutta i ritrovati della tecnica: la radio, poi la
televisione, che si aggiungono ai messaggi scritti (ma disseminati da
moderni aeroplani).
Questo
schema, seguito fino ai giorni nostri, si confonde per molti
operatori con il concetto stesso di psyops:
di qui un proliferare di formule e distinzioni teoriche151
che rischiano di imprigionare le forze vive di psywar
in una
ragnatela di dogmatismi.
L’esperienza
delle crisi più recenti mostra però che alle operazioni
psicologiche codificate e, per così dire, “convenzionali”,
taluni contendenti preferiscono altri generi di condotte, più
difficilmente catalogabili.
Nel
prossimo capitolo ci soffermeremo, sia pur brevemente, sugli attacchi
terroristici suicidi, che rappresentano l’arma più temibile oggi
in mano alla galassia di organizzazioni denominata Al
Qaeda152,
e ad altri
gruppi fondamentalisti. Si tratta indubbiamente di atti criminali,
che suscitano indignazione perché diretti, in genere, contro civili
inermi; tuttavia lo studioso di psyops
non può
esimersi da alcune considerazioni di carattere “tecnico”. Le
stragi compiute in Iraq come in Spagna, a Beslan come in Israele,
rispondono ad una logica ben precisa: quella di terrorizzare la
popolazione, indebolire la compagine sociale, impedire l’affermarsi
di un’autorità o la sua sopravvivenza politica. In una parola,
puntano a creare (o mantenere) il caos.
Definire
gli attentatori suicidi “kamikaze”
è perciò fuorviante, oltre che ingiusto: i piloti giapponesi
disponibili ad immolarsi erano soldati che attaccavano le navi
nemiche, in vista del raggiungimento di un obiettivo strettamente
militare. Lo scopo dei pianificatori del terrorismo globale è
evidentemente più ambizioso, e rimanda piuttosto agli intenti
perseguiti da Gengis Khan nelle sue campagne asiatiche (v. supra).
Siamo di fronte ad un esempio contemporaneo di psyops
cruente?
Non
sarebbe il primo: nel corso della Seconda Guerra Mondiale, la RAF
(l’aviazione britannica) e successivamente l’USAF statunitense
sganciarono 1.587.943 tonnellate di bombe sulla Germania.153
Il dato è impressionante, ma non basta da solo a spiegare ciò che,
tra il 1940 e il ’45, si scatenò sul Paese. Si sarebbe tentati di
credere che il fine dei continui attacchi fosse quello di mettere in
ginocchio l’industria bellica tedesca: lo scopo, tuttavia, non era
questo.
Nel
settembre del 1940 Charles Portal, capo del Bomber
Command della
RAF, diramò un foglio d’ordine con cui prescriveva che “gli
obiettivi da colpire dovevano essere scelti fra quelli situati
all’interno di città densamente abitate, in modo che se non si
fosse riusciti a centrarli le bombe cadessero sulle zone
residenziali”154.
Il suo successore al comando, il celebre Arthur T. “Bomber”
Harris, suggerì di colpire semplicemente le città senza ricercare
obiettivi industriali o militari! Non si tratta di speculazioni: il
25 ottobre 1943 lo stesso Harris chiarì la sua strategia, affermando
che “l’obiettivo è la distruzione delle città tedesche,
l’uccisione dei lavoratori tedeschi e lo smembramento
dell’esistenza della società civile in tutta la Germania” e che
questi erano “i bersagli perseguiti e accettati della nostra
politica dei bombardamenti e non danni derivati da tentativi di
colpire obiettivi industriali”155.
Che
le finalità dell’offensiva aerea inglese (e poi anche americana, a
partire dal ‘42) fossero di natura terroristica era noto ai vertici
militari e politici alleati156:
non è un caso che siano stati gli stessi inglesi a coniare la
definizione, per gli attacchi, di ”terror
bombing”. Tenendo
conto di questi elementi, cessano di apparire inspiegabili
bombardamenti come quello su Lubecca (nel ’42), o quelli che rasero
al suolo Colonia (1944), Wuerzburg e Dresda (1945): il fatto che si
trattasse di città d’arte, di scarso rilievo industriale, le
rendeva obiettivi ancor più appetibili per gli strateghi
anglo-americani!157
Non
sta a chi scrive esprimere un giudizio etico sulla vicenda, anche se
è certo che i generali tedeschi Keitel e Jodl, impiccati a
Norimberga, avevano sulla coscienza colpe non più gravi di quelle
dell’”eroe” Arthur Harris158
; ciò che giova mettere in luce sono le sorprendenti similitudini
tra il “terror
bombing” brevemente
descritto e la strategia del terrore di Bin Laden - o chi per lui. In
entrambi i casi le bombe (aeree od umane poco importa) sono
finalizzate a seminare il panico, a dissolvere il nemico
dall’interno, a fiaccare il morale della popolazione civile159
togliendole qualsiasi speranza nel futuro, o di una vita normale160.
Operazioni
psicologiche non convenzionali? A prendere per buona la definizione
di psyops
data dal
Presidente americano D. Eisenhower161,
“la guerra psicologica è qualsiasi cosa, dal suono di un
bellissimo inno fino al genere più straordinario di sabotaggio
psichico”, non vediamo alcuna ragione valida di escluderlo a
priori.
13.
Conclusioni
I
dati esposti nel corso della presente ricerca ci consentono ora di
abbozzare qualche riga di conclusione, nella convinzione, peraltro,
che ad alcuni degli interrogativi iniziali si sia già fornito
risposta nel corso dei singoli capitoli.
In
primo luogo, non si può dubitare del fatto che le tecniche di guerra
psicologica siano antiche quanto la storia umana: la necessità di
ingannare il nemico e di impressionarlo, indebolendone la volontà di
resistenza, accomuna i re assiri del II° millennio a.C. agli
strateghi contemporanei.
La
prima differenza che balza agli occhi riguarda, evidentemente, i
mezzi, gli strumenti utilizzati per ottenere lo scopo: gli antichi
non disponevano di elicotteri, nè di radio o semplici altoparlanti!
La diversità, peraltro, ha scarsissima rilevanza, è più apparente
che reale: se è vero che l’arma psicologica consiste nel messaggio
diretto all’obiettivo, oltre che nell’effetto prodotto, la
tecnologia usata risulta del tutto indifferente allo studioso, sempre
che sia giudicata adeguata al fine da raggiungere. Da questo punto di
vista, è agevole rilevare che il ponte progettato da Cesare, o
l’esibizione della cavalleria spagnola in Messico erano strumenti
di diffusione del messaggio/psywar
molto più raffinati di quanto non fosse l’ipotizzato ologramma nel
cielo di Baghdad! D’altronde, i risultati conseguiti da Alessandro
o Giulio Cesare attraverso geniali operazioni psicologiche sono
incontestabilmente superiori a quelli raggiunti dall’ipertecnologico
esercito americano all’alba del ventunesimo secolo162.
Ciò dimostra semplicemente che, indipendentemente dal livello di
sviluppo tecnico di una civiltà, il successo delle operazioni
psicologiche dipende sempre dalla sensibilità e dal talento di chi
le pone in essere: il fattore umano rimane fondamentale163.
Ciò
non vale ad escludere, tuttavia, che le psyops
abbiano effettivamente subito un’evoluzione in tempi recenti: pur
con qualche residuo di dubbio - si pensi alla propaganda militare
assira - è possibile condividere l’asserzione secondo cui
“nonostante la lunga storia del suo fortunato impiego, il
potenziale per l’uso del potere della persuasione mediante le
operazioni psicologiche come moltiplicatrici di forza per il
raggiungimento degli obiettivi nazionali con una distruzione minima,
è stato riconosciuto solo dai capi militari e dagli uomini di stato
più percettivi. Inoltre dalla Seconda Guerra Mondiale le PSYOP sono
state considerate come un’arma efficace e un sistema a sè.164”
La
maggior novità rispetto al passato è dunque rappresentata, oggi,
dall’esistenza, nell’ambito degli eserciti più organizzati, di
unità specialistiche dedite all’effettuazione di operazioni
psicologiche, che annoverano nei loro ranghi psicologi, tecnici ed
esperti di strategia della comunicazione. E’ una forzatura guardare
agli scribi di Ninive e ai segretari di Alessandro il Macedone - cui
abbiamo fatto riferimento nelle pagine precedenti - come ai
progenitori dei moderni guerrieri psicologici? Secondo noi no:
d’altro canto è indiscutibile che, rispetto agli antichi, i
contemporanei abbiano del fenomeno “guerra” una percezione
diversa. Essa non è più “ars”,
arte, bensì scienza: variabili e possibili conseguenze di ogni
evento vengono attentamente analizzate a tavolino, la convinzione -
illusoria - di poter tutto prevedere e prevenire lascia poco spazio,
almeno in teoria, alla decisione improvvisa del singolo.
In
sintesi, le psyops
attuali appaiono maggiormente “standardizzate” rispetto a quelle
dei tempi passati e, sebbene nelle linee guida sostanzialmente
analoghe alle precedenti, risentono del principio della “divisione
del lavoro” che sta alla base della società industriale e, quindi,
dell’organizzazione degli eserciti moderni. Rispetto ad altri
periodi storici, il perfezionamento delle tecniche è abbastanza
evidente: l’unico rischio è che il cieco affidamento nella
tecnologia e nella “specializzazione” possa far sottovalutare
l’apporto individuale, l’elemento intuizione/creatività che
consente di far fronte all’imprevisto.
E’
triste osservare che, nonostante l’importanza riconosciuta oggidì
alle operazioni psicologiche, l’automatica adozione di schemi
prefissati e l’irrigidimento della catena di comando portano alle
volte, come si vede in Iraq, proprio a quei risultati dolorosi che le
psyops
sono istituzionalmente deputate ad evitare.
In
un articolo recentemente pubblicato su una rivista specialistica165,
gli estensori, facendo riferimento alla loro esperienza irachena,
osservano che “Antica Babilonia ha inoltre dimostrato come i
termini entro i quali si identifica un prodotto PsyOps, se
interpretati in modo rigido, possano finire con escludere attività
che sono al tempo stesso necessarie, efficaci e richieste dai
Comandanti.” Gli autori stessi ci danno un esempio eloquente di
come la smania di definire e catalogare abbia generato nel tempo
distinzioni artificiose: “operazioni psicologiche (…) e
comunicazioni operative non sono equivalenti e non esprimono, in modo
diverso, lo stesso concetto. Sebbene concettualmente simili l’una
all’altra, se ci si riferisce alla tipologia dei prodotti
“classici” (…), quei prodotti atipici/anomali già menzionati
(talk show, video messaggi del Comandante, previsioni meteo)
risultano essere al di fuori dei confini dell’ortodossia PsyOps è
conseguentemente è indeterminata la competenza della loro
realizzazione.(…) Si è propensi a pensare che la dizione
comunicazioni
operative meglio
si presta a descrivere il lavoro svolto dal personale del 28°
Reggimento (…) in quanto più ampia di operazioni
psicologiche che,
a ben vedere, sono comprese nelle altre.”
Sebbene
le dispute nominalistiche non ci appassionino più di tanto – a
parer nostro rimane valida la definizione coniata oltre cinquant’anni
fa da D. Eisenhower - il brano appena riportato dimostra che i più
acuti tra gli addetti ai lavori hanno oggi ben chiaro il rischio di
una “burocratizzazione” di psyops.
In
alternativa ai “Corsari della comunicazione capaci di adattarsi ad
ogni situazione”, auspicati nell’articolo166,
a dirigere le operazioni psicologiche potrebbe venir presto chiamato
Weirother!
Il
problema è sentito anche dagli operatori, dunque, né le
pessimistiche considerazioni d’avvio sono dettate da sterili
rimpianti per il “buon tempo andato”: i nuovi sviluppi in Medio
Oriente mettono in luce dei fatti nudi e crudi, di cui non si può
non tener conto. E’ stato riconosciuto da più parti167
che, pur non disponendo di propri mezzi di informazione nè di unità
specializzate in psyops,
i terroristi di Al
Qaeda
stanno vincendo la guerra mediatica. Banalissime cassette in VHS,
fatte pervenire alla TV araba Al
Jazeera e,
attraverso questa, al pubblico del pianeta, scuotono la coscienza
occidentale con immagini di uomini come noi, rapiti, torturati,
uccisi. Il messaggio è chiaro, terrorizzante: noi non ci fermeremo
davanti a nulla, a differenza di voi non abbiamo niente da perdere,
possiamo colpirvi tutti, ovunque, senza distinzioni di razza, sesso e
convinzioni politiche.
Come
ha provato l’esperienza spagnola, gli atti di terrorismo, diretti
contro singoli o comunità intere, possono influire sull’operato
dei governi, sulle scelte delle amministrazioni: insomma, possono
mutare il corso di un conflitto. Per portare avanti la loro
sanguinaria ed efficace “guerra psicologica”, gli uomini di Osama
non hanno bisogno di pianificazioni ad alto livello, nè di
tecnologie raffinate: bastano piccoli gruppi armati e decisi, muniti
di strumenti anche rozzi. A differenza dei patetici propagandisti di
Saddam, che scambiavano Burt Simpson per un attore in carne ed ossa,
essi conoscono molto bene il loro nemico, che poi saremmo noi,
l’Occidente: sanno che la nostra società è ossessionata dalla
paura della morte, dall’ansia per la propria sicurezza, e ne
traggono profitto.
Batterli
non sarà facile, e forse richiederà, al mondo libero, scelte
radicali, oltre ad un ripensamento delle attuali strategie, assai
carenti sotto il profilo delle azioni di consolidamento. Alessandro
Magno ci ha indicato la via da seguire: per avere successo,
un’occupazione deve essere discreta, quasi invisibile; e le
occasioni di attrito con le popolazioni locali ridotte al minimo.
Vincere la pace è possibile soltanto se chi viene da fuori è
percepito non come straniero, ma come amico e liberatore: per
raggiungere questo risultato è indispensabile un’adeguata
preparazione e piani flessibili, oltre ad una grande capacità di
adattamento delle unità sul campo.
Più
in generale, una psyops
“non
letale” può tornare ad essere arma decisiva: purchè non si abbia
paura di gettare nuovi ponti sul Reno!
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INDICE
Quel
rimasuglio di “patriottismo occidentale2 (2012) pag.
1
1.
Che cosa sono le operazioni psicologiche pag.
4
2.
Distruttori di città e maestri di propaganda pag.
10
3.
Oriente contro
occidente pag.
16
4.
Il re del
mondo pag. 19
5.
Hannibal ad
portas! pag.
24
6.
Un ponte sul
Reno pag. 28
7.
Carnefici e
santi pag. 32
8.
Un regno al di là del
mare pag. 37
9.
Il sole di
Austerlitz pag.
41
10.
Il volo del
poeta pag. 51
11.
Veritas se ipsa
defendet? pag.
54
12.
Guerra psicologica e
strategia del terrore pag.
59
13.
Conclusioni pag.
68
Bibliografia
e fonti pag. 73
1
Nell’ambito del master di I livello “Analisi e gestione della
comunicazione”, organizzato dall’Università degli Studi di
Trieste, sotto la responsabilità del prof. Enzo Kermol.
2
Si veda l’articolo “CNN and psyops” di ALEXANDER
COCKBURN, pubblicato in data 26/03/2000 su “CounterPunch”
(“America’s Best Political Newsletter”, quotidiano online
edito da Alexander Cockburn e Jeffrey St. Clair), ove si legge tra
l’altro: “...il giornalista olandese, Abe de Vries, ha riportato
che una manciata di militari provenienti dal 3° battaglione
operazioni psicologiche, facente parte del 4° gruppo
aviotrasportato operazioni psicologiche basato a Fort Bragg, in
North Carolina, aveva lavorato nel quartier generale della CNN
ad Atlanta (…)
lavoravano in qualità di dipendenti, regolarmente
assunti, della CNN”.
3
La definizione è contenuta nel rapporto del Defence Science Board
Task Force, commissionato dal Dipartimento della Difesa Usa
nel 2000, dal titolo “The Creation and Dissemination of All
Forms of Information in Support of Psychological Operations (PSYOP)
In Time ofMilitary Conflict”; più articolata la definizione
NATO che fa riferimento ad un “uditorio nemico, amico o neutrale”
e suddivide dette attività psicologiche in “strategiche, di
consolidamento e proprie del campo di battaglia”; suddivisione cui
ci rifaremo nel corso del presente lavoro.
4
Il condizionale è d’obbligo: come osserva il ten. col. STEVEN
COLLINS, sulla “Rivista della NATO -
Estate 2003”, “L’impiego delle PSYOPS in Iraq sembra
che abbia avuto maggior successo (rispetto alla guerra nei Balcani).
Il problema, come in tutte le azioni PSYOPS, consiste nella
difficoltà di determinare il rapporto tra causa ed effetto di
un’azione nel corso di un conflitto.”
5
Riportiamo il contenuto di alcuni di essi, piuttosto chiaro ed
incisivo: “Saddam non controlla più l’Iraq -
aiutaci ad ottenere la tua libertà con il minimo di perdite
umane” e “Noi sappiamo chi sei -
se lancerai dei missili sarai ucciso o catturato e giudicato
come un criminale di guerra (sic!)”.
6
Ten. col. LUCA FONTANA, Le operazioni psicologiche militari
(PSYOP) la “conquista” delle menti, pubblicato su
“Informazioni della Difesa -
rivista n. 6 anno 2003”.
7
ibidem, pag. 42.
8
”Questi messaggi furono così ben pianificati ed altrettanto
abilmente disseminati che testimonianze raccolte di recente fanno
intendere come alcuni reduci tedeschi fossero ancora convinti, a
distanza di decenni, della loro veridicità” –
FONTANA, Le operazioni psicologiche…, pag.
42. Sempre a proposito delle forze armate tedesche, vale la pena
sottolineare come, specie nella prima fase della guerra, esse
dimostrarono di padroneggiare assai bene le tecniche di psyops.
Un esempio: il 1° settembre 1939 i cavalleggeri del 18°
reggimento lancieri polacco riuscirono a cogliere di sorpresa una
colonna di fanteria tedesca. Ma non appena sul fianco apparve un
gruppo di autoblindo nemiche, i cavalieri furono costretti a
ritirarsi, dopo aver subito gravi perdite. Ebbene, a battaglia
finita, i tedeschi realizzarono un documentario propagandistico che
ritraeva i cavalleggeri polacchi (in realtà soldati tedeschi
travestiti!) in procinto di lanciarsi incoscientemente all’attacco
contro una colonna di carri armati. Prendendo spunto
dall’indiscutibile eroismo dei polacchi, i comandi tedeschi
sfruttarono le moderne tecnologie di ripresa per fornire al mondo -
e quindi ai futuri avversari -
una rappresentazione impressionante quanto falsa
della superiorità tedesca sui nemici e
dell’impossibilità di contrastare le nuove armate del Reich!
Grande propaganda, è lecito dire, se è vero che ancor oggi
l’opinione pubblica è convinta che i cavalieri polacchi fossero
così meravigliosamente incoscienti da assalire all’arma bianca le
divisioni corazzate di Guderian! Dove invece le tecniche di psyops
vennero sorprendentemente “dimenticate” dei tedeschi
fu in Russia: provati dalla quasi ventennale tirannide di Stalin, i
russi e gli ucrami sembravano pronti a ribellarsi all’oppressore
comunista, ed all’inizio vedevano nei tedeschi quasi dei
liberatori. Con l’appoggio delle popolazioni locali, la marcia
verso i pozzi di petrolio del Caucaso sarebbe stata più rapida ed
agevole: invece i soldati di Hitler stupirono dolorosamente i
cittadini dell’URSS, massacrandoli senza pietà e trattandoli come
schiavi. La risposta di un popolo disperato e fiero sarebbe stata la
“Grande Guerra Patriottica”. Evidentemente, tanto nel caso delle
popolazioni slave sottomesse quanto in quello dei lavoratori ebrei,
che per effetto delle sevizie gratuite e della denutrizione mai
furono messi in grado di contribuire realmente allo sforzo bellico
della Germania, il condizionamento dell’ideologia nazista ebbe il
sopravvento sulle esigenze dell’esercito e della produzione
industriale (cfr D. J. GOLDHAGEN, I volonterosi carnefici
di Hitler,
ed. Mondadori).
9
FONTANA, op. cit : “E’ dalla Seconda Guerra Mondiale che
le psyops sono
considerate come un’arma efficace e un sistema a sè. (...)
le operazioni psicologiche non sono tuttavia in alcun
modo una nuova tattica militare. Vi sono numerosi esempi dell’uso
della guerra psicologica in tutta la storia.”
10
Ecco che allora non appaiono riconducibili all’ambito di psyops
le iniziative condotte da Stalin nei confronti del suo
stesso popolo, nel corso della seconda guerra mondiale. Com’è
noto, la sopravvivenza dell’Unione Sovietica all’invasione
tedesca fu in gran parte dovuta all’abilità del dittatore di
appellarsi al patriottismo emotivo del popolo russo. Stalin riuscì
a far sì che i cittadini russi, già provati dalle terribili
“purghe” ed ora in balia delle armate germaniche,
identificassero il regime al potere con la “Santa Madre Russia”,
da sempre venerata; e trovassero la forza, morendo a milioni, di
scacciare dal patrio suolo l’aggressore nazista. La propaganda
esaltò il ruolo storico della chiesa ortodossa e dell’esercito;
sulla “Pravda”, organo ufficiale del PCUS, il motto “lavoratori
della terra, unitevi” fu sostituito, per tutta la durata del
conflitto, da “morte all’invasore tedesco”. Ancor oggi, pur
nello sfacelo morale della loro patria seguito al crollo dell’Unione
Sovietica, i russi ricordano con commossa ammirazione gli eroi della
“grande guerra patriottica”.
12
Un buon esempio di psyops
nera è rappresentato dall’emittente “Radio Tikrit”,
attiva dal febbraio 2003. Creata probabilmente dalla CIA, essa si è
data inizialmente una veste di credibilità affermando di essere
gestita da fedeli sostenitori di Saddam Hussein e tenendo una linea
editoriale servile nei confronti del regime al potere. In poche
settimane, tuttavia, il tono è mutato e la stazione è divenuta
sempre più critica nei confronti del dittatore iracheno, man mano
che il suo potere scricchiolava sotto la spinta decisa degli
anglo-americani.
13
Più semplicemente, si può anche leggere le pagine che seguono come
una breve storia della guerra psicologica.
14
Ten. col. FONTANA, op. cit.
15
Poema di Qadesh (il), della LETTERATURA EGIZIA, Giulio
Einaudi editore s.p.a, 1969.
16
Iscrizione di TIGLATH PILESER I, conservata al British
Museum.
17
Vanterie simili si leggono negli annali di Salmanazar III e di
Assurbanipal (quest’ultimo vissuto molti secoli dopo il regno di
Tiglath Pileser), oltre che di molti altri re d’Assiria.
18
SIEGMUND GINZBERG, Gli Assiri e le guerre dell’impero, da
“Il Foglio” del 15/03/2003.
19
BUSTENAY ODED, War, peace and empire, giustificazioni per la
guerra nelle Iscrizioni reale assire, Ed. Dr. Ludwig Reichert
Verlag, 1992.
20
GINZBERG, art. cit.
21
Iscrizione di Tiglath Pileser I.
22
ISAIA 5 :29-30
23
GIUDITTA, 1:7-11
24
GIUDITTA, 2:3
25
GIUDITTA, 2:5-9
26
Propagandistica appare anche la quantificazione delle truppe
impegnate nella “spedizione punitiva”: 120.000 fanti e 12.000
cavalieri (oltre ad un forte contingente di carri, che costituivano
il nerbo dell’esercito assiro)!
27
Cosa abbastanza inusuale per i tempi, al re detronizzato fu
risparmiata la vita.
28
Erodoto accenna a 2 milioni di uomini in armi, cifra peraltro
inverosimile. Anche a non voler considerare che il mondo, all’epoca,
era molto meno densamente popolato di quanto non sia oggi (nel I°
secolo a.C., in età dunque molto posteriore, la Germania contava
appena 3 milioni di abitanti, l’odierna Francia 4,5!), sarebbe
stato impossibile, sotto il profilo logistico, approvvigionare un
esercito di dimensioni simili che avanzasse lentamente, a piedi,
attraverso territori in gran parte poveri, spopolati ed ostili. E
non si può certo immaginare che i villaggi e le piccole città
incontrate lungo il cammino fossero in grado, volenti o nolenti, di
offrire sostentamento ad una tale moltitudine di uomini. E’
evidente che, “decuplicando” a parole gli effettivi del suo
esercito, comunque immenso, re Serse intendeva spaventare a morte i
greci; e questi ultimi, una volta conseguita l’insperata vittoria,
avevano tutto l’interesse ad accreditare e diffondere la fama che
voleva gli elleni eroici ed “invincibili” al punto da sopraffare
la più grande schiera mai radunata.
29
Questo passo, e quelli successivamente virgolettati, sono tratti da
ERODOTO, Storie, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. -
Libro VII.
30
Che non si sia trattato di una semplice manifestazione di follia
“alla Caligola” – come il lettore moderno potrebbe
frettolosamente pensare – lo dimostra il fatto che anche il
predecessore Dario aveva punito con la sferza le onde ribelli,
colpevoli di aver causato il naufragio di alcune sue navi.
31
così conclude Demarato (ERODOTO, op. cit.): “Sono liberi,
sì, (gli spartani), ma non completamente: hanno un padrone, la
legge, che temano assai più di quanto i tuoi uomini temano te; e
obbediscono ai suoi ordini, e gli ordini sono sempre gli stessi: non
fuggire dal campo di battaglia, neppure di fronte ad un numero
soverchiante di nemici (…)”.
32
Rispetto al padre Filippo, al cui talento di organizzatore andrebbe
in realtà ascritto, secondo alcuni, il merito dei fulminei successi
di Alessandro, egli aveva inoltre un vantaggio da non sottovalutare,
se si tiene conto dell’epoca in cui visse: ad onta della bassa
statura, Alessandro di Macedonia era un bellissimo giovane, grazie
ai suoi capelli biondi come quelli di Achille, ed a tratti armoniosi
degni di essere immortalati da scultori e pittori. Inoltre la sua
indole romantica, il suo desiderio di infinito non smettono di
affascinare, ancor oggi, poeti e uomini comuni.
33
cfr ROBIN LANE FOX, Alessandro Magno, ed. Allen Lane,
Londra, 1973, pag. 110.
35
R. L. FOX, Alessandro...
36
Non va dimenticato che gli abitanti della penisola consideravano i
macedoni “barbaroi” (stranieri non greci), alla stregua
dei persiani.
37
ARRIANO, Anabasi di Alessandro, Dante Alighieri, 1910 - 11,
3.8.
38
Fu più volte ferito, nel corso delle sue campagne, ed al Granico fu
salvato dall’intervento di Clito che abbattè un satrapo persiano
ormai sul punto di ucciderlo.
39
Molto meno delle battaglie in campo aperto Alessandro amava gli
assedi, per abbreviare i quali spesso ricorse a fantasiose trovate:
presso Hissar, nelle montagne del Koh-i-Noor, un gruppo di ribelli
sogdiani aveva trovato rifugio presso l’aristocrazia locale, in
una fortezza naturale apparentemente inespugnabile. Schernito dai
parlamentari nemici, che gli avevano proposto di andarsi a cercare
delle truppe volanti, Alessandro seguì il consiglio: promettendo
loro un premio straordinario, convinse trecento dei suoi soldati,
esperti montanari, ad arrampicarsi fin sulla vetta sovrastante il
rifugio. Ce la fecero in 270: il mattino seguente, Alessandro mandò
araldi ad invitare le sentinelle nemiche ad ammirare i suoi soldati
volanti. I sogdiani si volsero e scorgendo gli scalatori in piedi al
di sopra di loro deposero le armi, pensando si trattasse di un
intero esercito!
In generale, sempre a proposito di assedi, si usa rimproverare ad
Alessandro la crudeltà mostrata nei confronti di chi non si
arrendesse prontamente, e si cita ad esempio la triste sorte toccata
agli abitanti di Tito, ed al coraggioso satrapo della città, cui fu
riservato lo stesso supplizio dell’omerico Ettore; d’altra
parte, il favorevole trattamento riservato a quanti aprivano
volontariamente le porte dimostra che la condotta del macedone
rispondeva ad un disegno ben preciso, quello di risparmiare al suo
esercito sacrifici non ritenuti indispensabili.
40
E’ utile rammentare che per valutare la “verisimiglianza” del
messaggio bisogna rapportarsi alla situazione concreta: gli egizi
erano un popolo la cui esistenza era dominata dalla religione, e da
una casta potentissima di sacerdoti di cui, per qualunque invasore
straniero, era indispensabile conquistarsi l’appoggio.
41
“Alessandro e le azioni di Alessandro – si tramanda abbia
affermato Callistene – dipendono da me e dalla mia storia. Non
sono venuto io per guadagnarmi stima dal servizio di Alessandro, ma
per renderlo glorioso agli occhi degli uomini (ARRIANO, Anabasi…,
IV 10.1-2)”.
42
afferma il già citato COLLINS, nell’articolo cit.: “stranamente,
sembra che i pianificatori militari di Iraqi Freedom abbiano
dedicato poche energie per sviluppare in anticipo delle capacità
psyops idonee al dopo conflitto.”
43
emblematica è la punizione inflitta al satrapo persiano Besso che,
assassinato l’incerto Dario, si proclamò Gran Re col nome di
Artaserse IV: dopo la cattura fu crudelmente torturato per ordine
del macedone e poi squartato come colpevole di regicidio! E’
evidente che agli occhi dei Persiani Alessandro voleva accreditarsi
(anche) come il successore dell’ultimo sovrano, legittimato dalla
vittoria in battaglia.
45
i macedoni vedevano l’introduzione dei costumi orientali e della
proskynesis come
una potenziale minaccia alla loro libertà: ma il re non pensò mai
di instaurare una forma di teocrazia né di pretendere forme di
adorazione dai suoi connazionali.
46
nei manuali di psyops
è normalmente citato un esempio di guerra psicologica
attribuito al grande condottiero, che, a seconda di come viene
presentata, può essere considerata un’azione “tattica”
(dettata da condizioni estreme) ovvero “di consolidamento” (se
si tratta invece di una tecnica impiegata più volte!). Avendo
Alessandro disperso il suo esercito nel vastissimo territorio
dell’impero appena conquistato, egli, alla guida di pochi uomini,
temette in un’occasione di essere raggiunto e travolto da nemici
preponderanti prima che qualcuno potesse venirgli in aiuto. Allora
istruì i suoi armieri a costruire corazze ed elmi giganteschi, che
furono abbandonati appositamente negli avamposti in modo che,
trovandoli, i nemici temessero di dover affrontare in battaglia
degli autentici giganti! Pare che lo stratagemma abbia avuto
successo, e gli inseguitori siano fuggiti terrorizzati.
47
scrive GISBERT HAEFS, Annibale, pag. 646, ed. Marco Tropea
Editore, Milano 1999: “Diversamente da Alessandro, Gengis Khan,
Napoleone ecc., i quali, non appena vien meno la malia esercitata
dalla obiettiva grandezza delle loro azioni, a causa dell’assurdità
sanguinaria delle loro conquiste militari ai miei occhi ricadono
tutti in un archetipo la cui immagine più spaventosa è quella di
Hitler, il cartaginese continua a emanare un eccezionale fascino.”
48
Sta per “stratagemmi”.
49
Delle città assoggettate da Annibale in Italia alcune si
consegnarono spontaneamente, altre furono prese a tradimento:
l’eventuale capitolazione di Roma avrebbe di certo richiesto un
lunghissimo e rischioso assedio… semprechè, come suggeriva
Maarbale, i cavalieri numidi non avessero preceduto dinanzi alle
mura la notizia della disfatta di Canne! In quel caso, forse,
l’effetto sorpresa e lo sconforto avrebbero avuto il sopravvento
sullo spirito di resistenza dei cittadini.
50
ancora HAEFS, op. cit., pag. 647, che aggiunge
significativamente: “(Tito) Livio fu costretto a demonizzare
Annibale per poter giustificare il comportamento di Roma; tuttavia,
nelle ben oltre mille pagine dei libri Ab urbe condita dedicati
alla guerra contro Annibale, non si trovano esempi della slealtà e
della crudeltà che gli si attribuisce.”
51
secondo lo storico greco Polibio aveva con sè 2-3000 soldati
appena, tra fanti e cavalieri.
52
La città greca, seconda solo a Roma per numero di abitanti, si era
alleata con i cartaginesi, che vi avevano disposto un forte
presidio, e subiva ora l’assalto dei romani. Costretta infeine
alla capitolazione, sperimentò la spietatezza e la ferocia degli
avversari di Annibale, che ne fecero un deserto.
53
per ingannare gli assedianti ordinò di mantenere accese le torce
nell’accampamento.
54
FLORO LUCIO ANNEO, Flori epitome de Tito Livio bellorum omnium
DCC annorum libri duo -
Liber primus, Romagnoli, 1881.
55
1’episodio è narrato da POLIBIO, in Storie, Sansoni, 1937.
56
A meno che non si sia trattato di un enfatico rinnovo del giuramento
di odio eterno a Roma fatto in gioventù. Così venne interpretato,
comunque, dai suoi nemici, e anche dopo la decisiva vittoria di Zama
i romani non furono soddisfatti finchè il grande avversario non
finì, cadavere, nelle loro mani.
57
Si trattava di veri e propri giornali murali che riportavano, a
beneficio del popolo, i resoconti delle sedute del Senato ed altre
notizie “di attualità”.
58
tra i quali l’ambiguo Cicerone che, pur osteggiando il Cesare
politico, non gli lesinava lodi come scrittore.
59
quanto affermato nel primo paragrafo, che cioè la propaganda
rivolta ai connazionali esula dal campo delle operazioni
psicologiche propriamente dette, non vale evidentemente nell’ipotesi
di guerre civili: il compatriota è, in questo caso, un nemico da
vincere o conquistare. Sarebbe ad esempio interessante investigare
se e quali motivazioni di ordine bellico fossero alla base del
celebre atto di emancipazione con cui, per scopi propagandistici
prima che umanitari, il Presidente americano Lincoln decise la
liberazione degli schiavi negli stati del sud, durante la guerra
civile americana.
60
cfr CAIO GIULIO CESARE, Commentarii de bello civili,
Garzanti, 1946.
61
chiunque abbia letto i “Commentarii de bello gallico” non
può non stupirsi della straordinaria accuratezza con cui Cesare
descriveva, oltre alla geografia dei paesi, costumi e abitudini dei
popoli con cui era venuto in contatto. Il grande conquistatore era
conscio che, per avere ragionevoli probabilità di sconfiggere un
nemico, è necessario conoscerlo prima approfonditamente.
62
GIUSEPPE FLAVIO, autore del libro “Guerra giudaica”.
63
entrambi sono autori di opere intitolate “Stratagemata”:
FRONTINO visse nel I°
secolo d.C., POLIENO circa cent’anni dopo. Il primo,
per mostrare come sia possibile guadagnarsi il rispetto e l’amicizia
di un popolo straniero, rilegge in chiave “psyops” il
seguente episodio, narrato da T. LIVIO: conquistata Carthago Nova,
Cornelio Scipione mostrò la sua nobiltà d’animo quando gli
presentarono una fanciulla di straordinaria bellezza, fidanzata di
Allucio, uno dei comandanti celtiberi. Egli la restituì sana e
salva all’ispanico, al quale disse: “non ti chiedo in cambio che
di diventare amico del popolo romano”.
64
E poco mancò che i suoi successori conquistassero anche
l’Occidente: intorno al 1240 il mongolo Batu Khan guidò una
spedizione fin nel cuore dell’Europa e, dopo aver sconfitto russi,
ungheresi, tedeschi e polacchi, si affacciò all’Adriatico nei
pressi di Zara: la morte del Gran Khan Ogodai in Asia, più che la
minaccia rapprentata dall’esercito raccolto da Federico II di
Svevia, convinsero infine il condottiero a tornare sui suoi passi.
65
E’ dimostrato che, al contrario, Temujin-Gengis Khan sapeva
scrivere.
66
Ad esempio, uomini di sua fiducia venivano inviati in anticipo per
portare avanti le psyops
di persona, raccontando la brutalità e il numero
infinito dell’armata mongola. L’esempio fu imitato dai
successori. Si narra, ad esempio, di un inglese al servizio del
terribile Batu Khan mandato presso la corte del re ungherese Bela IV
per ottenerne, con suggestive minacce, la resa: il prode magiaro
respinse sdegnosamente la proposta e scelse di resistere, ma il suo
esercito fu disfatto dai tartari ed egli si salvò a stento con la
fuga (1241 d.C.).
67
Soprattutto le finte ritirate, che si succedevano nel corso delle
battaglie ed erano seguite da dietro-front talmente
improvvisi da gettare nel panico le schiere medio-orientali ed
europee, non avvezze a quel genere di tattiche.
68
L’esercito di Gengis Khan, nelle cui file militavano, oltre ai
mongoli, anche molti turchi e tartari, era basato su formazioni
miste di cavalleria pesante (corazzata, ma assai più mobile di
quella europea del tempo) e leggera (armata d’arco, scudo e
spada).
69
Il cui territorio corrisponde più o meno a quello degli attuali
Iran ed Uzbekistan.
70
La rapidissima conquista del Khwarezm rappresenta uno dei capolavori
dell’arte militare di Gengis Khan; ma la completa distruzione di
Samarcanda, unita agli odiosi eccidi commessi, gettano un’ombra
indelebile sull’impresa. Inutile aggiungere che il khan Mohammed
non fu risparmiato!
71
A proposito degli effetti della “propaganda” mongola, JEAN-PAUL
ROUX, Storia dei Turchi, Garzanti ed. S.p.A. 1988, pag. 159,
scrive: “Le popolazioni (dell’Iran) sono in preda a un folle
panico e chi può fugge. Ma ciò che è più sconvolgente è la
passività di coloro che restano, la loro rassegnazione. Un
guerriero solitario fa incatenare un gruppo di uomini, poi li fa
sgozzare gli uni dagli altri; un plotone di cavalieri accerchia una
folla e la conduce al supplizio senza che nessuno provi a opporre
resistenza o a fuggire.”
73
All’epoca un regno vassallo dei mongoli.
74
Lo stesso Carlo Magno, per esempio, che era analfabeta, affidò
l’educazione dei suoi sudditi ai vescovi e monaci cristiani
(specialmente irlandesi).
75
L’ammirato turbamento che doveva impadronirsi degli uomini del
medioevo ogniqualvolta si trovassero dinanzi a persone “colte” è
ben reso dallo scrittore JAMES A. MICHENER, nel suo libro “Polonia”,
Gruppo Editoriale Fabbri 1985, pag. 94: “(…) Pawel venne tirato
fuori, e gli fu permesso di lavarsi, gli furono dati vestiti puliti
e poi venne condotto in una stanza dove lo attendevano due uomini
rimarchevoli. Il primo, e più alto, era un cavaliere di
quarant’anni, Siegfried von Eschl, che era stato a Gerusalemme e a
Roma, discendente di un’antica famiglia tedesca proprietaria di
vari castelli sul Reno, uomo devoto al bene dell’Ordine e uno dei
suoi migliori comandanti. Il secondo, più piccolo e meno signorile
di portamento, era in certo senso più imponente, perché sapeva
leggere e scrivere (…)”
76
MICHAEL BAIGENT – RICHARD LEIGH, L’Inquisizione, Marco
Tropea editore s.r.l., Milano 2000, pag. 34.
77
“Sono già molti anni che predicando, implorando, piangendo mi
rivolgo a voi con parole miti. Ma, come dice la gente del mio paese,
dove le benedizioni non servono, ci vuole il bastone. Ora chiameremo
a raccolta contro di voi condottieri e vescovi che, ahimè, si
raduneranno contro questo paese (…) e causeranno la morte violenta
di molte persone (…) e vi ridurranno tutti in schiavitù.”
Queste parole, più degne di uno spietato conquistatore che di un
santo, furono pronunciate da Domenico di Guzmàn in un discorso a
Prouille (cit. da BAIGENT – LEIGH, op. cit.).
78
Vogliamo divertirci ad applicare le categorie psyops esaminate
nel primo capitolo all’operato dei domenicani nella Francia del
sud? Diciamo allora che si trattava di propaganda “bianca”, con
finalità “strategiche” e “di consolidamento” (nelle zone
meno infettate dall’eresia).
79
Pensiamo all’episodio di Attila fermato da Papa Leone I, ed a
quanto la diffusione del racconto tra popoli semibarbari dovette
accrescere il prestigio del papato, e la fiducia (mista a timore!)
nella Chiesa; ma anche un riconosciuto “falso storico”, come
quello relativo alla donazione di Costantino, contribuì al
rinsaldarsi dell’autorità dell’istituzione romana.
80
WILLIAM H. PRESCOTT, La conquista del Messico,
ed. Newton Compton editori s.r.l. 1987,-
pag. 127.
81
il governatore azteco della provincia, che era a capo
dell’ambasceria.
82
non a caso Hernan Cortès, uomo di spada e di lettere, lasciò un
brillante resoconto della Conquista, intitolato “Cartas de
relacion” e palesemente ispirato ai Commentarii del conquistatore
della Gallia.
83
come nei giorni che precedettero la “noche triste”, in
cui gli spagnoli furono cacciati da Tenochtitlan. Va detto, a onor
del vero, che neppure gli aztechi erano dei totali sprovveduti, sul
piano della guerra psicologica: a quel che risulta, Moctezuma ordinò
ai vassalli che gli spagnoli avrebbero incontrato lungo il cammino
di esagerare la potenza del regno e il numero dei guerrieri di cui
disponeva, allo scopo documentato di far desistere gli invasori dal
proposito di arrivare a Tenochtitlan.
84
nel corso di una battaglia contro i guerrieri tabascani, Cortès,
risultato facilmente vincitore, prese numerosi prigionieri, tra cui
due capi: Cortès li rilascio con l’incarico di riferire ai loro
compatrioti che “avrebbe dimenticato il passato se si fossero
subito sottomessi. Altrimenti, battendo l’intera regione a
cavallo, l’avrebbe messa a ferro e fuoco, passando a fil di spada
tutte le creature che la abitavano, uomini, donne o bambini.” La
minaccia, mista a blandizie, ebbe pieno successo: i Tabascani
passarono dalla sua parte.
85
PRESCOTT, op. cit, pag. 165.
86
1’unico a consigliare, inascoltato, la continuazione della lotta
fu il giovane Xicotencatl; in seguito il prode comandante verrà
fatto eliminare da Cortès, la cui clemenza -
evidentemente - non
veniva dal cuore!
87
Qualcuno, scherzosamente ma neppure troppo, ha ipotizzato che, fosse
vissuto ai tempi della monarchia borbonica, Napoleone si sarebbe
dovuto accontentare, una volta in congedo, di rivincere genialmente
“a tavolino” battaglie che altri avevano combattuto e perso!
88
Odiato
dai russi, che ancor oggi non esitano a paragonarlo ad Hitler,
Bonaparte è considerato dai polacchi, ad esempio, quasi un padre
della patria: il sostegno accordato alla loro causa nazionale gli ha
assicurato una citazione nella Mazurka di Dabrowski, inno nazionale,
e sono in grado di testimoniare personalmente che il suo busto in
bronzo, conservato nella reggia di Wilanow, presso Varsavia, è
oggetto di un'ammirazione che va al di là dell’indubbio talento
dello scultore che l’ha realizzato.
89
Che molti esperti militari dell’epoca consideravano un’arma
“d’appoggio”, quando non addirittura truppa da parata; per
Napoleone, invece, la cavalleria, in particolare i reggimenti di
dragoni e corazzieri, riuniti nella riserva, costituivano una
formidabile forza d’urto e di manovra. I corazzieri erano la
cavalleria prediletta di Napoleone, che emise personalmente l’ordine
di aggiungere alle loro dotazioni una corazza pettorale e dorsale,
capace di proteggerli dai fendenti di sciabola e dai colpi di
pistola (i cavalleggeri dell’epoca erano in genere privi di
corazzatura).
90
Tanto che nell’imminenza di una battaglia, a quel che si dice, i
suoi soldati rumoreggiarono e rifiutarono di combattere, finchè non
ottennero la promessa, da parte di Napoleone, che egli avrebbe
salvaguardato la sua vita e non si sarebbe esposto ai pericoli della
prima linea: a tal punto i francesi amavano il loro comandante, e
ritenevano indispensabile la sua guida!
91
Cioè come strumento di propaganda e, dunque, di psyops.
92
Così ce lo presenta, ad esempio, Tolstòj in “Guerra e Pace”.
Lo sforzo, a tratti patetico e comunque inane, di sminuire la figura
del condottiero non toglie peraltro nulla ad una delle più
straordinarie opere letterarie mai scritte; e, a parziale scusante
di Lev Tolstòj – che non esita, all’occorrenza, a piegare la
Storia alla propria visione, come nella descrizione della battaglia
di Borodino! – va osservato che “Guerra e Pace” è l’elegia
appassionata di un mondo oramai svanito, quando l’autore scrive:
il mondo dorato e felice dell’aristocrazia russa di fine ‘700.
93
Nel 1840, quando le ceneri di Napoleone tornarono a Parigi, ciò che
più impressionò i cronisti del tempo fu il pianto di centinaia di
migliaia di contadini che, al passaggio del feretro, gli facevano
ala commossi: molti dovevano a lui se non erano più servi, se i
campi faticosamente lavorati nel corso dell’anno erano di
proprietà delle loro famiglie.
94
In fondo storia e cronaca insegnano che, se basata sulla menzogna,
la propaganda assicura a chi se ne serve un successo effimero!
95
Così si rivolge Napoleone ai suoi soldati: “Dovete essere dei
liberatori per coprirvi di onore, non dei saccheggiatori e dei
flagelli, coprendovi di vergogna! L’Italia dovete stupirla con un
contegno esemplare dopo averla stupita con il vostro coraggio!”
96
Scriverà nelle sue memorie Napoleone: “Dopo il mio passaggio,
l’Italia non era più la stessa nazione: la sottana, che era
l’abito di moda per i giovani, fu sostituita dall’uniforme;
invece di passare la loro vita ai piedi delle donne, frequentavano i
maneggi, le sale d’armi, i campi militari (…) Vi sembra poca
cosa tutto questo? No! La coscienza nazionale si era formata. E
l’Italia ebbe per la prima volta i suoi canti guerreschi e gli
inni patriottici.”
97
Significativo un commento di cui non è stato possibile identificare
l’autore (ma che è giustificato riportare): “La leggenda ha
inizio. Tenteranno poi di farla dimenticare, ma la leggenda resta e
resterà. Queste prime vittorie, di fatto, non sono che scontri di
poca importanza, ma che Napoleone trasforma però in “Epiche
battaglie”, e queste battaglie le trasfigura in “eventi
storici”, e raggiunge il doppio effetto aggiungendovi la dotta
oratoria. Preparato lo è per davvero! Di ogni Staterello ricorda la
sua storia (…)”.
98
Sarebbe improprio definirli francesi, visto che questi ultimi
costituiscono, in seno all’armata, un’esigua minoranza!
99
I testi sono riportati da L. TOLSTOJ, Guerra e Pace, 1999
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., pagg. 1560 e ss. A cura di I.
SIBALDI.
100
TOLSTOJ, op. cit., pag. 1563.
101
Nota di I. SIMBALDI a pag. 1560 di “Guerra e Pace”.
102
TOLSTOJ, op. cit., pagg. 1563-1564.
103
Nell’estate del 1805 si costituisce, su impulso inglese, la III^
coalizione, che raggruppa, oltre all’Inghilterra, Austria, Svezia,
Regno di Napoli e Russia: lo scopo è ancora una volta quello di
schiacciare Napoleone. Le battaglie di Ulm ed Austerlitz risalgono
al tardo autunno di quello stesso anno 1805.
104
Risulta in realtà che il generale Mack avrebbe preferito combattere
e salvare l’onore, ma ne fu impedito dai suoi subalterni. Tolstòj,
in “Guerra e Pace”, fa pronunciare al generale, condannato a
morte per una resa che non aveva voluto e poi graziato da Francesco
I, la seguente frase, rimasta celebre: “sono lo sfortunato
generale Mack”.
105
Scrive DAVID G. CHALANDER, Le campagne di Napoleone, Rizzoli,
pag. 226: “(...) l’imperatore progettava anche con molta
attenzione i suoi piani per distruggere l’esprit de corps dei
suoi avversari. Oltre a una guerra con cannoni e baionette, egli
combatteva una guerra psicologica la cui forza poteva essere
disastrosa per la sorte dell’avversario. Forse il miglior esempio
dell’annientamento da parte sua della fiducia e del morale nel
nemico si verificò nel 1805 quando la Grande Armata distrusse la
retroguardia dello sfortunato generale Mack e con la sua eccezionale
velocità di movimento trattenne vicino ad Ulm l’esercito
austriaco, magnetizzato e quasi inattivo, fmchè non ebbe altra
possibilità se non la resa. E’ chiaro che questo aspetto della
strategia napoleonica implicava un accurato studio del carattere del
suo avversario e molto spesso i suoi piani erano concepiti per
ricavare il massimo dalla sventatezza o dall’esitazione del
nemico.”
106
Il 30 novembre Napoleone scrive l’ordine da distribuire e leggere
a ogni reparto: “Le posizioni che occupiamo sono formidabili (…)
Soldati, dirigerò personalmente tutti i vostri battaglioni; e se,
con la vostra abituale audacia, riuscirete a portare disordine e
confusione tra le file del nemico, rimarrò a distanza; ma se la
vittoria sarà in dubbio anche solo per un momento, il vostro
imperatore si esporrà in prima linea.”
107
Così lo chiamerà Napoleone nelle sue memorie.
108
Secondo la scienza militare del tempo.
109
Alludiamo per esempio ad Alessandro Magno, che portò al successo la
falange “creata” dal padre Filippo.
110
Relative al piano da lui stesso elaborato, e che andava esponendo
ora ai generali alleati.
112
Lo stesso Alessandro, nell’ultima fase della conquista dell’Asia,
avrà enormi difficoltà a battere il satrapo Spitamene, che gli
oppone l’arma non convenzionale della guerriglia.
113
Si pensi al principio della Blitzkrieg – che prevede
l’impiego congiunto di masse di carri ed aerei – sperimentato
dai tedeschi in Polonia e Francia, e successivamente alla base, nel
dopoguerra, delle dottrine militari dei due blocchi.
114
PIERO CHIARA, Vita di Gabriele D’Annunzio, Arnoldo
Mondadori Editore S.p.A., 1978, pag. 318.
115
CHIARA, op. cit., pag. 319.
116
Tolstoi, nelle ultime pagine di “Guerra e pace”, si appella
invece ad inarrestabili movimenti di popoli, che trascinano con sé
presunti leaders e geni militari.
117
Tra queste ultime possiamo senza dubbio annoverare i sogni e la
bramosia di gloria di uomini effettivamente eccezionali, come
Alessandro Magno o Tamerlano; ma anche la fede senza fanatismo di un
Saladino, o l’esaltazione mistica di una Giovanna d’Arco.
118
Come sottovalutare l’ondata emotiva che scosse i popoli della
duplice monarchia se, allo scoppio del conflitto, lo stesso Siegmund
Freud (il padre della psicanalisi, non un uomo qualunque!) espresse
“a caldo” il proprio consenso alla guerra e fece dichiarazioni
patriottiche?
119
Secondo altre stime, 1201; i conteggi divergono anche per quel che
riguarda i morti americani: c’è chi parla di 123, chi – più
genericamente – di oltre 100 vittime.
120
La U-Boot-Krieg rappresentò la reazione, da parte germanica,
al blocco navale imposto dagli inglesi.
121
Scriveva ad esempio il “New York Tribune”, pochi giorni
dopo la tragedia: “Dal 7 maggio milioni di persone in questo Paese
si rammaricano che nelle Fiandre nessun americano si batta contro
gli unni e i vandali.”
122
Tra essi possiamo citare anche l’assassinio, ad opera dei marinai
inglesi, degli 11 superstiti del sommergibile tedesco U 27,
affondato il 19 agosto 1915.
123
L’annuncio fu pubblicato in inglese e in tedesco, e venne
successivamente ripetuto. Racconta MARGARET HAIG THOMAS, nel suo
libro This was my world, 1933: “Il sabato, primo maggio (il
giorno della partenza del Lusitania), perchè non vi potessero
essere errori circa le intenzioni tedesche, l’Ambasciata Germanica
a Washington indirizzò un avvertimento ai passeggeri (…), che fu
pubblicato nei giornali del mattino di New York direttamente sotto
la notizia della partenza del Lusitania. I passeggeri di prima
classe (…) ebbero ancora tempo dopo aver letto l’avvertimento
(…) di rinunciare alla traversata (…). Per i passeggeri di terza
classe (l’annuncio) arrivò troppo tardi.”
124
Ciò è avvalorato dal manuale internazionale Brassey’s Naval
Annual, precursore dell’attuale Jane’s Naval Ships
(pubblicazione ufficiale che corrisponde al nostro “Almanacco
Navale”, annualmente aggiornato).
125
COLIN SIMPSON, Il Lusitania. Un grande giallo vero. La
documentata ricostruzione di una delle più drammatiche tragedie del
mare, Rizzoli, Milano 1974.
126
Merita sottolineare che, dopo l’affondamento del Lusitania, il
Ministro degli Esteri USA William Jennings Bryan disapprovò la dura
nota di protesta del Presidente Wilson, che parlava di “crimine”,
e diede le dimissioni dal governo: secondo l’opinione di Bryan, la
Germania aveva tutto il diritto di impedire che ai suoi nemici fosse
consegnato materiale bellico; e l’imbarco di passeggeri su una
nave che trasportava armi, nella speranza che perciò non venisse
attaccata, non poteva essere considerato una forma protezione da
eventuali attacchi. Passeggeri come “scudi umani”? La realtà,
come di seguito illustrata, è forse ancora più sconvolgente.
127
cfr amm. VITO ROMANO SPECIALE, Gli affondamenti mai
chiariti della marina militare (1^ parte), in “Bellica.it –
Uomini e guerre”. L’ammiraglio della M.M. in congedo V. R.
Speciale è autore di apprezzati volumi, tra cui Avvenimenti
vissuti dal marinaio Speciale, Aurora Ladispoli.
128
La circostanza è confermata da molti dei sopravvissuti: “avvenne
una seconda esplosione, molto più forte (della prima)”, ricorda
Mc Millan Adams, un passeggero americano. Documenti emersi nel corso
degli anni ’80 confermano la presenza, a bordo del Lusitania, di
munizioni ed altro materiale esplosivo.
130
Un casus belli molto opportuno fu anche l’affondamento, a
seguito di esplosione, della corazzata statunitense Maine, nel porto
de l’Avana (1898): come prontamente accertato dalla commissione di
inchiesta, si trattò di un incidente (la nave era costruita male),
ma la responsabilità fu addossata ad una fantomatica “mina
spagnola”. Di qui la guerra che si concluse con l’espulsione
degli iberici da Cuba e dalle Filippine. Neanche la vicenda di Pearl
Harbour (7 dicembre 1941) risulta del tutto chiara: consta che il
governo USA fosse al corrente del prossimo attacco nipponico, ma non
si fece nulla per evitarlo!
131
Pare incredibile, ma vi è ancora oggi chi crede che i soldati del
Reich si divertissero a tagliare le mani ai bambini belgi! Davvero
“le bugie hanno le gambe corte”?
132
Già l’espressione “Imperi centrali”, riferita alla Germania e
all’Austria-Ungheria, ha in sé qualcosa di negativo: rimanda ad
epoche oscure, a concezioni politico-sociali superate.
133
Perché la voce del Fuehrer, e dunque del nazionalsocialismo,
giungessero ovunque, il Ministro della Propaganda del Reich, Joseph
Goebbels, dotò ogni famiglia tedesca di un apparecchio radio:
l’indottrinamento quotidiano diede ottimi frutti, se è vero che,
salvo rare eccezioni, il popolo seguì compattamente Hitler nella
sua folle avventura. Merita rilevare che l’eccellente idea è
stata ripresa dagli americani in Afghanistan, all’alba del 21°
secolo: individuato nella radio il mezzo più adatto per far
giungere la sua “verità” al popolo afghano, l’amministrazione
ha provveduto alla distribuzione gratuita di apparecchi su larga
scala.
134
In fondo si è gia chiarito, nel primo paragrafo, che le regole che
stanno alla base di qualsiasi campagna propagandistica (sia essa
diretta verso l’interno o l’esterno) sono sempre le stesse: è
in ossequio ad una scelta politico-descrittiva, non certo per
ragioni obiettive, che si escludono dall’ambito psyops le
operazioni condotte nei confronti della comunità nazionale.
135
Più ancora del cinismo dei vertici anglo-francesi, colpisce la loro
incapacità di analisi politica. Scrive WILLIAM SHIRER, Storia
del III Reich, 1962 Giulio Einaudi editore s.p.a., pag. 460:
“Ciò che deve aver maggiormente sorpreso Hitler fu che nessuno
degli uomini al governo dell’Inghilterra e della Francia
(<<piccoli vermi>>, come il Fuehrer li chiamò
sprezzantemente in privato dopo Monaco) si rese conto delle
conseguenze derivanti dalla loro incapacità a reagire con una certa
energia contro il succedersi delle mosse aggressive del capo dei
nazisti. In Inghilterra l’unico a capire sembrò essere Winston
Churchill. Nessuno sintetizzò le conseguenze di Monaco meglio di
quel che egli fece nel suo discorso alla Camera dei Comuni del 5
ottobre: Abbiamo subito una disfatta totale e senza scusanti…
(…) Tutti i paesi dell’Europa centrale e del bacino danubiano
verranno assorbiti, l’uno dopo l’altro, nel vasto sistema della
politica nazista (…) e non pensate che questa sia la fine. E’
soltanto l’inizio…”
136
riportato da SHIRER, op. cit. pag. 461.
137
riportato da SHIRER, op. cit. pag. 461.
138
Più ancora di Monaco, il clamoroso patto Ribbentrop-Molotov
rappresentò il maggior successo della diplomazia pubblica nazista.
139
Era stata una delle ragioni della drammatica rottura con Lev
Trotzki, che sognava invece la rivoluzione mondiale.
140
Indro Montanelli, che seguì la guerra russo-finlandese in qualità
di giornalista, esalta l’eroismo dei finni: “Resta il problema
del buio (…). Ma nell’assoluto buio i finlandesi, allenati,
marciano ugualmente come pipistrelli bianchi. La luce è necessaria
solo quando si debba far fuoco. Allora in ogni plotone ci sono due o
tre uomini-faro, con un potente riflettore pendulo sul petto. Sono i
predestinati alla morte. Quando si è preso contatto col nemico,
l’uomo-faro viene isolato; tutto il resto della truppa si scosta
riparando alle ali dietro tronchi di abete. L’uomo-faro accende,
fruga la tenebra antistante. Per lui sono i primi colpi avversari.
Ma i compagni, scivolando rapidamente di albero in albero nella zona
di ombra che bordeggia il canale di luce del riflettore, si portano
a poca distanza dal nemico abbagliato e con le
pistole-mitragliatrici, dal tiro non lungo ma rapido, falciano. (…)
E’ da notare che il faro in queste truppe è una specie di
onorificenza, di medaglia che si dà come prova e segno di
distinzione ai soldati i quali si mostrano più valorosi aul campo.”
Tratto da I. MONTANELLI, Dentro la Storia, Edizione CDE
s.p.a. Milano, 1992, pagg. 94-95.
141
MONTANELLI, op. cit., pag. 53.
142
MONTANELLI, op. cit., pag. 63.
143
MONTANELLI, op. cit., pag. 73.
144
La Storia non si fa con i “se” ed i “ma”, d’accordo;
tuttavia, numerosi storici ritengono che la propaganda bolscevica
avrebbe sortito effetti ben più rilevanti sulla popolazione tedesca
uscita stremata dal primo conflitto mondiale, vuoi per la grande
diffusione del socialismo in Germania all’epoca, vuoi per le
disperate condizioni del Paese. E’ opinione abbastanza diffusa
che, se l’Armata rossa non fosse stata fermata dal maresciallo
Pilsudski davanti a Varsavia e fosse dilagata in Europa, il
comunismo si sarebbe facilmente – “naturalmente” - affermato
in Germania.
145
“La caduta di Berlino l’ho vista con i miei occhi” –
testimonianza di Stefan Doemberg raccolta da MARINA ROSSI, ne “Il
Piccolo”, domenica 1 maggio 2005.
146
ARRIGO PETACCO, Faccetta nera – Storia della conquista
dell’Impero, 2003 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Milano,
pag. 219.
147
Certo ci fu sopravvalutazione, da parte italiana, delle forze a
disposizione degli inglesi; ma è dubbio se ciò sia da imputarsi ad
attività di disinformazione o non, piuttosto, alla scarsa
preparazione dei comandanti ed alla mancanza di ricognitori e
reparti esplorativi. In generale le testimonianze suggeriscono
l’impressione che la propaganda britannica mirasse principalmente
a deprimere gli italiani e provocarne la resa: con risultati non del
tutto soddisfacenti, se è vero che le nostre truppe si batterono in
genere con coraggio.
148
Accenni ad episodi di psyops affiorano nelle pagine di
artisti e romanzieri che vissero l’esperienza della guerra. Scrive
ad esempio YUKIO MISHIMA, Confessioni di una maschera,
Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1947, p. 189: “E poi,
ecco che un giorno una piccola squadriglia di apparecchi in
formazione impeccabile filò tranquillamente attraverso lo stupido
tiro della contraerea e sparse giù dal cielo estivo una pioggia di
opuscoletti propagandistici. Quegli opuscoli contenevano il testo
delle proposte di resa.”
149
Per quanto riguarda il nostro Paese, è solo nell’aprile 2003 che
ha luogo la riconfigurazione del 28° Reggimento “Pavia”: lo
scopo è quello di sviluppare nelle Forze Armate la funzione
operativa psyops. E’ peraltro a partire dal febbraio 2004
che il Reggimento ha ricevuto il personale necessario, e si è dato
avvio ai percorsi formativi. Sempre nel 2004 parte dell’unità è
stata distaccata in Iraq, nell’ambito della missione Antica
Babilonia, per svolgervi attività psyops.
150
Nella successiva guerra di Corea (1950-52), la 1^ Compagnia di
disseminazione (audio e volantini) operò ininterrottamente alle
dipendenze dell’8^ Armata come unità tattica di guerra
psicologica, utilizzando degli altoparlanti montati su veicoli
terrestri e su mezzi aerei, al fine di diffondere i messaggi vocali
nel modo più efficace possibile. Rimasero tuttavia i volantini il
mezzo di dissuasione maggiormente utilizzato; i temi toccati
riguardavano la convenienza ad arrendersi, il buon trattamento
riservato dagli USA ai prigionieri, la nostalgia della casa lontana
e della famiglia.
151
Per esempio quella tra psyops e propaganda (esterna), che
risponde forse ad esigenze di political correctness ma è
semplicemente assurda: ritenere che le operazioni psicologiche
veicolino esclusivamente notizie “vere” significa 1) negare la
storia stessa di psyops; 2) renderla un inutile doppione
della pubblica informazione!
152
Sempre ammesso che Al Qaeda – perlomeno così come
abitualmente descritta dai mezzi di informazione – esista davvero,
e sia effettivamente guidata da un “fantasma” (Osama bin Laden)
che fa la sua puntuale comparsa, via etere, subito dopo i più
brutali attacchi terroristici. Certo, la “bassa manovalanza” del
terrore è composta di fanatici integralisti, questo è provato, ma
quanto si sa della “cupola”? Ben poco, in verità… Se, e
diciamo se, a tirare i fili non fosse uno sceicco cieco, bensì
qualcun altro… qualcun altro in grado di pianificare ed eseguire
attacchi d’inaudita violenza nei quattro angoli del globo…
allora costituiremmo noi tutti il “gruppo obiettivo” della più
sconvolgente operazione di psyops “nera” della Storia, e
– cosa di per sé assai meno grave – quasi tutte le
considerazioni esposte negli ultimi capitoli perderebbero valore.
153
Dato fornito da G. F. GHERGO, Il terror bombing, articolo
pubblicato sui numeri 135 e 136 della rivista “Storia Militare”.
A titolo di raffronto, si consideri che nel corso di tutta la guerra
i tedeschi sganciarono sulla Gran Bretagna in tutto 74.172 t. di
bombe, pari a meno di un ventunesimo (pag. 15)!
155
Citato in B. GREENHOUS et al., The
Crucible of War 1939-1945. The Official History of the Royal
Canadian Air Force, vol. III, Toronto,
University of Toronto Press, 1994.
156
Dopo il bombardamento di Dresda, in una nota ai capi di stato
maggiore datata 28 marzo 1945, Churchill scrisse: “Mi sembra sia
giunto il momento di ridiscutere il problema del bombardamento delle
città tedesche condotto al solo scopo di accrescere il terrore,
sebbene i pretesti addotti siano stati altri…” (citato da
GHERGO, op. cit., pag. 21).
157
Il celebre bombardamento tedesco su Coventry, che provocò 380
vittime (contro i 25-36.000 morti, causati dalla “tempesta di
fuoco” scatenata a Dresda) si giustificava, da un punto di vista
militare, con quella che G. F. Ghergo definisce – a pag. 11 del
suo articolo – “una concentrazione altissima – forse la più
elevata di tutta la Gran Bretagna – di industrie di interesse
bellico”.
158
D’altronde, da che mondo è mondo, i vincitori hanno ragione e i
vinti torto; nella sostanza, il “processo” di Norimberga non si
sottrae a questa logica, basata più sulla forza che sul diritto.
159
Che i bombardamenti mirassero solo marginalmente ad arrestare lo
sforzo bellico tedesco lo prova il fatto che, nel 1944, la
produzione di carri ed aeroplani superò enormemente quella degli
anni prebellici.
160
A proposito dei risultati del Terror bombing, G. F. Ghergo
così conclude (pag. 23): “E’ stato scritto che nelle ultime
settimane del conflitto il morale dei tedeschi cominciò a
vacillare, anche se si aggiunge che ciò fu dovuto più alla
certezza di avere irrimediabilmente perso la guerra che ai
bombardamenti. Ci sembra però che, se ci fu, questo scoramento non
dette segni evidenti di sé. (…) Le truppe tedesche contrastarono
l’avanzata dei sovietici e degli Alleati fino agli scontri finali
(…), mentre la popolazione non mostrò mai alcun segno di
cedimento. (…) Dunque l’obiettivo primario del Bomber
Command, quello che aveva portato alla strage dei civili, non fu
raggiunto.”
161
In una nota scritta al Segretario di Stato J. Foster Dulles il 24
ottobre 1953.
162
osserva il FONTANA, op. cit.: “Purtroppo è comunque triste
constatare che, nonostante gli sforzi profusi a fattor comune da
tutti gli “addetti ai lavori”, le PSYOPS messe in atto al
termine del conflitto iracheno non si sono dimostrate efficaci
quanto quelle operate a premessa.” Non altrettanto efficaci?
Diciamo pure del tutto inefficaci! Più in generale, il susseguirsi
quotidiano di sanguinosi attentati terroristici in Irak – ai danni
soprattutto della popolazione civile! – è indice dell’incapacità
americana di controllare il territorio assoggettato: incapacità
sorprendente (e, per alcuni, sospetta), ove si consideri che il ben
più modesto apparato bellico di Saddam si è sempre dimostrato in
grado di impedire infiltrazioni esterne e di stroncare qualsiasi
forma di opposizione armata al regime.
163
Chi ricorda i nomi dei generali statunitensi che hanno condotto le
operazioni militari nella II^ guerra del Golfo, pur così vicina nel
tempo (2003)? O quello del comandante in capo delle truppe
attualmente schierate in Irak? Quasi nessuno, immagino. Il nome del
generale Schwarzkopf, stratega della I^ guerra del Golfo, è invece
ancor oggi popolare, e molti non avrebbero difficoltà a
riconoscerne la fisionomia. Il fatto che gli americani lo accostino
ai più grandi condottieri della Storia può apparirci esagerato:
ciò non toglie che si trattasse di un militare di notevoli doti e
personalità. E’ davvero un caso che le operazioni psicologiche
poste in essere nella prima guerra abbiano prodotto risultati
lusinghieri, e quelle odierne si rivelino invece fallimentari?
164
FONTANA, op. cit.
165
L’autore è Andrea ROMOLI.
166
ROMOLI, ibidem.
167
afferma il gen. FABIO MINI, ex comandante della Forza
Nato in Kosovo: Purtroppo la Coalizione dei volenterosi ha perduto
“la battaglia essenziale”, quella “per la conquista delle
menti e dei cuori del popolo iracheno”. Gli fa eco, dalla prima
pagina de “Il Piccolo” del 7 ottobre 2004, FERDINANDO CAMON: “La
guerra è persa, il mondo sta peggio (...) Ad ogni ostaggio
catturato, i terroristi suscitano il panico per un mese, tra
torturati, uccisi esibizioni video, minacce, suppliche del
condannato ed esecuzione finale. Poiché questa è una guerra
mediatica, il terrorismo è più potente dell’Occidente. Perciò
sta vincendo.”
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