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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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domenica 4 novembre 2012

QUEI RIMASUGLI DI “PATRIOTTISMO OCCIDENTALE” (2012), di Norberto Fragiacomo





Questo breve saggio nasce da una tesina di master, datata 2004, che successivamente ampliai, perché trovasse posto in un volume dedicato all’argomento psyops - volume che, a quanto mi consta, non vide mai la luce.
Dopo tanti anni, pensavo che lo scritto fosse ormai irrimediabilmente perduto; ritrovare il file, disperso in una cartella del mio computer, ha costituito per me un’emozionante sorpresa.
Ho riletto rapidamente il testo, piuttosto scorrevole, e ho deciso di pubblicarlo – di pubblicarlo così com’era, con soltanto qualche piccola correzione ortografica (per lo più errori di battitura, non rilevati dal correttore all’epoca).
Certo, avrei potuto modificare qualche passaggio, o al limite aggiungere un capitolo riguardante il periodo – densissimo di eventi, anche tragici – che va dal 2004 a questa fine d’anno 2012, ma, riflettendo un poco, ho subito realizzato che apportare dei cambiamenti sostanziali sarebbe equivalso a falsificare un documento.
Parlo di “documento”, perché quelle lezioni su psyops, cui assistetti nella primavera del 20041, mutarono in qualche modo la mia percezione della realtà (sociale) esterna, costringendomi a sottoporre a critica delle convinzioni oramai sedimentate, delle “certezze”. Di più: lo studio dei meccanismi di guerra psicologica mi svelò in che modo, e per quali fini, versioni di parte e vere e proprie menzogne mi erano state convincentemente proposte (di fatto, imposte) come verità di fede.
Quei pomeriggi, e la loro eco nella mia mente furono dunque un giro di boa, anche se, ovviamente, non determinarono una fulminea conversione sulla via di Damasco: da italiano avevo già una dolorosa esperienza della propaganda mediatica e, a trent’anni e passa, avevo ben chiaro che, tra il Rambo reaganiano e i sovietici, i più “cattivi” non erano di sicuro questi ultimi. Intuire confusamente è però cosa ben diversa dal comprendere: quanto appreso in via Tigor mi fornì gli strumenti per osservare il mondo con un minimo di obiettività, senza partigianeria indotta.
Come dirò in seguito, ci furono delle ricadute – perché l’essere umano si sente più rassicurato da una narrazione cucita su misura per lui che non dalla cruda realtà dei fatti -, ma non ho più abbandonato la strada del dubbio, dell’analisi e del confronto. In un certo senso, il più ambizioso saggio “Invito al Socialismo”, del 2009, è il logico svolgimento di questo scritto, che sottopongo al vostro giudizio di lettori.
Ribadisco: non è arduo trovare, nelle pagine che seguono, prove dell’ingenuità del neofita. Durante una delle lezioni chiesi al relatore, un alto ufficiale dell’esercito, se la guerra psicologica fosse usata, oltre che contro target nemici, anche “a casa propria”, per influenzare le percezioni della popolazione civile. Mi assicurò di no, e nel mio saggio – seppure con qualche titubanza, come si vedrà – accolgo il suo punto di vista che, da bravo soldato, egli presentava come un dato obiettivo. Oggi, sono profondamente persuaso che il principale bersaglio della guerra psicologica occidentale siamo proprio noi, cittadini di Europa e Stati Uniti; e che in questa opera di “rieducazione”, attuata alternando il bastone alla carota, le elite capitaliste hanno investito moltissimo, con risultati (per loro) soddisfacenti. Anche psywar può essere una guerra civile, condotta con mezzi non convenzionali.
Del resto, l’unica parte del saggio che oggi mi sentirei di “rinnegare” sono le conclusioni, che tuttavia vanno considerate un’eloquente testimonianza dell’efficacia di psyops. Mi spiego: dopo aver offerto, in primis a me stesso, prove incontrovertibili della cattiva fede e della doppiezza dell’uomo occidentale, a pagina 68 metto, da babbeo, il piede nella tagliola ed esalto, senza ironia, il ruolo del mondo libero – insomma, mi lascio catturare dall’emozione (capture their minds) e finisco per arruolarmi tra i patrioti occidentali in guerra contro il mondo mussulmano. Colpa imperdonabile per un osservatore, perdonabilissima per un essere umano: sono proprio le nostre debolezze, le nostre paure che i guerrieri psicologici sfruttano per vincere le loro battaglie, in pace e in guerra.
Devo ammettere che questo “patriottismo occidentale”, quotidianamente rinfocolato dai media, affiora anche in un mio articolo del 2007, mai pubblicato, dal titolo “Un’ipotesi per Nazanin”, in cui – da ingenuo – mi abbevero alle fonti della propaganda anti iraniana; neppure oggidì, credo, sono completamente libero da questo condizionamento storico-culturale. D’altra parte non sono una mente astratta: sono un mitteleuropeo di lingua italiana e di formazione cattolica, nato negli anni ’70 del secolo scorso.
Nessun essere umano sarà mai totalmente obiettivo: l’importante è rendersene conto.
Oggi le operazioni psicologiche andrebbero studiate con particolare attenzione, perché il principale campo di battaglia è l’Europa. Frasi come “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e “non c’è alternativa al rigore” sono messaggi psyops, efficacissimi perché semplici e terrorizzanti: i media li diffondono quotidianamente, instradando l’opinione pubblica sulla via della rinuncia e della servitù. Mi sento di dire, senza tema di smentita, che la crisi economico-finanziaria in corso è una vera e propria aggressione militare, portata avanti secondo modalità non convenzionali da una classe sociale che intende distruggerne, o meglio schiavizzarne un’altra.
Le strategie adoperate in Grecia, Portogallo, Italia ecc. andrebbero scientificamente studiate, e forse, un domani, produrremo un saggio sull’argomento.
Le nude analisi, però, non bastano: come qualcuno ci ha insegnato, limitarsi ad interpretare il mondo è improduttivo, se non si è disposti, poi, a lottare per cambiarlo.
Buona lettura, amici e compagni.


Trieste, novembre 2012

1. Che cosa sono le operazioni psicologiche

Persuade change influence”: è il motto che compare sull’insegna reggimentale del 4° Gruppo aviotrasportato operazioni psicologiche (“Fourth Psychological Operations Group”) dell’Esercito degli Stati Uniti d’America, con base a Forth Bragg, nella Carolina del Nord. Assurto, senza volerlo, agli onori della cronaca per effetto della presenza - scoperta e documentata dalla stampa2 - di personale militare specializzato in “psyops” tra i giornalisti della CNN, il reggimento ha per l’appunto il compito di condurre operazioni psicologiche, tanto in tempo di guerra che di pace, nei confronti di Paesi nemici od anche solo potenzialmente ostili agli Stati Uniti.
Ma cosa si intende esattamente quando si fa riferimento ad operazioni psicologiche? Lo scopo è efficacemente riassunto in una frase d’impatto: “Cattura le loro menti, i loro cuori e le loro anime seguiranno”. Più in concreto, “le operazioni psicologiche militari (PSYOP) sono l’insieme di prodotti e/o azioni che condizionano o rafforzano attitudini, opinioni ed emozioni di specifici target quali governi di Paesi stranieri, organizzazioni, gruppi o singoli individui al fine di indurli a comportarsi in modo tale da supportare gli obiettivi di politica nazionale3”. Le unità di psyops, inquadrate oggidì nelle forze armate dei principali Paesi, impiegano mezzi di comunicazione di massa come radio, televisione, volantini, e messaggi mirati - e-mails e sms indirizzati ai principali uomini politici e personalità di spicco - oltre che banali altoparlanti nel corso delle operazioni sul terreno, al fine di influenzare e persuadere opinioni pubbliche ed unità militari straniere. L’esperienza dei più recenti conflitti ha dimostrato che l’uso opportuno di attività psyops può ridurre considerevolmente il morale e l’efficienza delle forze nemiche, nonchè produrre dissidenza e disaffezione tanto tra le truppe quanto in seno alla società civile d’un Paese. Alla luce di questi dati fattuali ben si giustifica la crescente attenzione riservata dagli stati maggiori, occidentali e non, alle operazioni di psywar, viste come sistema di armi non letali ed importante moltiplicatore per quanto riguarda la protezione di forze ed il combattimento. Nel corso delle due recenti guerre del Golfo, in effetti, le operazioni sul campo sono state precedute e probabilmente facilitate4 dall’intensa attività propagandistica indirizzata ai civili e militari iracheni nell’imminenza dell’attacco: risulta, tra l’altro, che oltre 40 milioni di volantini, contenenti appelli alla diserzione ed alla sottomissione spontanea, siano stati disseminati sul territorio del Paese arabo5. Per le medesime finalità è stato utilizzato l’aeromobile Command Solo dell’USAF che, dotato di sofisticate apparecchiature, può trasmettere segnali radio in AM e FM, nonchè segnali TV in VHF ed UHF da un’altezza di circa 6.000 metri.
Detto quali siano gli strumenti di cui dispongono le moderne unità psyops (emittenti radio e radiotelevisive, volantini ecc.), bisogna ora sgomberare il campo da un possibile equivoco: l’arma psicologica non sta nel mezzo scelto per colpire, bensì nel messaggio trasmesso e nell’impressione che tale messaggio provoca nel target cui è destinato. Per chiarire meglio il concetto citeremo un esempio tratto da una recente pubblicazione specialistica.6
Nel corso della prima guerra del Golfo i pianificatori dell’USAF ebbero un’idea quantomeno bizzarra: si trattava di “creare” una gigantesca immagine olografica sopra la città di Baghdad raffigurante la figura di Allah e, come sottofondo, una voce grave che descrivesse Saddam come un traditore ed un nemico dell’Islam. Pur essendo il progetto tecnicamente attuabile - si trattava di utilizzare speciali proiettori e di provocare, mediante irraggiamento con microonde, il riscaldamento di strati dell’atmosfera in modo da produrre la densità tra aria fredda e calda necessaria a... fare del cielo un gigantesco schermo! - alla fine la proposta è stata ritirata: non si era tenuto conto, infatti, che nell’Islam le immagini di Allah sono proibite (come si può proiettare l’immagine di un Dio che nessuno ha mai raffigurato?) e che inoltre ben difficilmente i cittadini iracheni si sarebbero fatti impressionare da una messa in scena buona semmai a seminare il panico tra gruppi di primitivi superstiziosi! In sostanza si comprese che l’uso di tecnologie pur avveniristiche (il mezzo) non avrebbe potuto sopperire alla debolezza intrinseca di un messaggio ingenuo e - in ultima analisi - sbagliato! Senza contare che le modalità di diffusione appaiono, al senso comune, “un po’ troppo” innovative. Al contrario, la propaganda veicolata attraverso strumenti relativamente “semplici” e convenzionali, quali i volantini sparsi dagli elicotteri, ha verosimilmente contribuito, nella stessa guerra, alla rapida resa di piccole e grandi unità irachene.
Da quanto appena visto si ricava un’ulteriore verità relativa a psyops: le operazioni psicologiche, per avere prospettive di successo, devono essere precedute da un’attività diretta ad apprendere il maggior numero di informazioni possibile sul nemico - in cosa crede, i gusti, i punti di forza e di debolezza, la vulnerabilità, il complesso di valori e credenze su cui la società si fonda. Solitamente gli esperti ricollegano la diffusione delle operazioni psicologiche come effettivo “sistema d’arma” ai grandi progressi fatti, nel corso del ‘900, dalle scienze comportamentali, “che ora ci consentono di conoscere e comprendere cosa c’è alla base di certi modi di fare”7 ed ai rapidissimi sviluppi nella sfera della comunicazione di massa. I primi impieghi coscienti e pianificati di armi psicologiche per influenzare un conflitto risalirebbero agli anni della seconda guerra mondiale. Nella letteratura specializzata non mancano mai riferimenti a “Tokyo Rose”, l’emittente giapponese che trasmetteva musica, propaganda e messaggi di sconforto nei confronti dei soldati americani e dei loro alleati; né alle trasmissioni radio della leggendaria BBC che, tra maggio e settembre 1940, quando l’invasione tedesca dell’isola pareva imminente, inondò l’etere di particolarissime “lezioni di inglese” dedicate ai militari del Reich. I temuti nemici venivano invitati a far pratica ripetendo frasi come “la nave sta affondando” e coniugando al presente il verbo brennen (“bruciare”). Per comprendere gli scopi dell’iniziativa, solo all’apparenza innocua, va considerato che le frasi relative al “bruciare nella Manica” confermavano, tra gli impauriti ascoltatori, le voci diffuse a bella posta da agenti britannici sul continente secondo cui la Royal Navy sarebbe stata in grado di incendiare le acque del canale per impedire l’attraversamento tedesco. La notizia, che oggi può far sorridere, era evidentemente falsa: pure, nell’atmosfera di paura e agitazione di quei giorni, venne presa sul serio dall’Alto Comando della Wehrmacht e contribuì a dissuadere i vertici militari dal dare corso all’operazione Seeloewe.8
In sintesi, la seconda guerra mondiale rappresenta, secondo gli esperti, il primo conflitto della Storia in cui le “armi psicologiche” sono state usate sistematicamente e su larga scala dai contendenti: sarebbe tuttavia erroneo affermare - come molti, fra i non addetti ai lavori, sono tentati di fare - che l’utilizzo delle tecniche di guerra psicologica risalga agli anni 1939-459.
Un altro punto su cui soffermare la nostra attenzione riguarda la veridicità o meno delle informazioni contenute nel messaggio psyops. Non di rado si sostiene, nel presentare al pubblico la realtà delle operazioni psicologiche, che le notizie veicolate sarebbero sempre “vere”, od avrebbero comunque una base di verità. L’assicurazione suona un po’ troppo politically correct, ed appare insostenibile alla luce degli esempi fin qui proposti, cui molti altri potrebbero aggiungersi, tratti dalla storia ed anche dalla cronaca più recente. In realtà, perché un messaggio possa essere astrattamente efficace nei confronti di chicchessia (forze combattenti, governanti od opinione pubblica) non occorre che contenga una “verità”: è sufficiente che risulti credibile per l’ascoltatore, che sia cioè “verisimile”. La verosimiglianza va valutata in rapporto alle circostanze del momento, non in assoluto: la minaccia di incendiare il canale della Manica non sarebbe probabilmente presa granché sul serio, oggi, da un ipotetico nemico della Gran Bretagna; ma, come detto, scosse ed impressionò sia i comandi che i soldati tedeschi nel lontano 1940.
A questo punto il lettore, sulla scorta dei numerosi esempi finalizzati a dar maggior concretezza alle definizioni proposte inizialmente, si sarà probabilmente fatto un’idea di cosa siano le psyops e di quali ne siano gli elementi caratterizzanti. Riassumendo, si tratta di operazioni militari attraverso le quali, tanto in tempo di pace quanto di guerra, si cerca di trasmettere determinati messaggi ad un target straniero, al fine di orientarne percezioni e comportamento in senso favorevole all’emittente. I mezzi usati, strumentali rispetto al messaggio, vanno scelti in rapporto alla situazione concreta ed al bersaglio che si intende raggiungere. Un tanto implica una previa approfondita conoscenza del sistema di valori del gruppo/popolazione contro cui è diretta l’azione. Le informazioni veicolate non debbono necessariamente essere vere: è sufficiente che siano credibili per il destinatario e provochino - a seconda dei casi - timore, fiducia o simpatia nei confronti di chi si serve di psyops.
Prima di procedere ulteriormente nell’analisi, è d’uopo distinguere le operazioni psicologiche da altri tipi di azioni che, per diversi ordini di motivi, si prestano ad essere confuse con le prime. La “Diplomazia pubblica” è il tentativo, attuato però a livello politico-diplomatico e non militare, di persuadere le opinioni pubbliche straniere del contenuto e della saggezza delle proprie politiche, intenzioni ed azioni: rientra in questo ambito il discorso tenuto, alla vigilia del secondo intervento in Iraq, dal Segretario di Stato USA Colin Powell davanti al Consiglio di sicurezza dell’ONU, allo scopo di convincerne i membri dell’indispensabilità di intraprendere una guerra preventiva contro Saddam Hussein. L’iniziativa fu, come si ricorda, un clamoroso insuccesso della diplomazia americana.
Inoltre, il fatto che le psyops siano per definizione dirette contro un obiettivo straniero basta ad escludere dalla categoria (sebbene strategie e mezzi usati siano sovente gli stessi) le ricorrenti campagne di disinformazione, indottrinamento e/o propaganda cui, ancor più oggi che in passato, i governi e chi controlla i mezzi di informazione sottopongono l’opinione pubblica dei rispettivi Paesi, a prescindere dal livello di sviluppo e dalle aree geografiche.10
All’interno delle psyops propriamente dette è ulteriormente possibile enucleare distinti sottoinsiemi, in ragione vuoi della natura delle fonti utilizzate vuoi delle finalità operative e dei diversi soggetti contro cui si agisce.
Sotto il primo profilo, si parla di psyops “bianche” a proposito di quelle che apertamente e con precisione annunciano la paternità del prodotto11. Le psyops “grigie”, invece, trasmettono messaggi diffusi con l’obiettivo di evitare l’identificazione della fonte di emissione; a loro volta, le informazioni di psyops cd “nera” sono attribuite ad una fonte diversa da quella reale12.
Altra suddivisione che abitualmente viene proposta è quella tra psyops “tattiche”, psyops “strategiche” e psyops “di consolidamento”.
Mentre le prime coincidono con attività intraprese in un’area circoscritta e prevedono un impatto molto localizzato (per esempio, la resa di una piccola unità nemica, da ottenere mediante lancio di volantini ed uso di veicoli muniti di altoparlanti), le psyops strategiche vengono messe in atto mediante una campagna accuratamente pianificata contro un obiettivo più grande di quello delle operazioni tattiche (si può trattare di una importanti unità militari così come di governi e gruppi di pressione); infine, le attività di consolidamento hanno l’obiettivo di assistere le autorità civili e militari nell’indispensabile opera di stabilizzazione dei risultati raggiunti, una volta conclusa la guerra: non è sufficiente vincere tutte le battaglie, se poi non si è in grado di mantenere l’ordine pubblico e di assicurare un certo appoggio popolare al nuovo governo.
Terminata la fase delle premesse con le distinzioni suaccennate, è ora possibile introdurre il tema specifico di questo nostro lavoro. Partendo dalla già riportata affermazione secondo cui “vi sono numerosi esempi dell’uso della guerra psicologica in tutta la storia”, abbiamo condotto una ricerca su varie fonti, antiche e recenti, per accertare se ed in quale misura, prima della seconda guerra mondiale, attività di condizionamento psicologico venissero effettivamente utilizzate per il raggiungimento di obiettivi militari; si tratterà poi di analizzare il carattere di operazioni la cui eco è giunta fino a noi per verificarne la somiglianza o meno con quello delle moderne psyops; con la curiosità e l’assenza di preconcetti che debbono accompagnare qualsiasi buona ricerca valuteremo infine, alla luce degli elementi raccolti, l’attendibilità dell’asserzione secondo cui la nascita delle operazioni psicologiche come effettivo “sistema d’arma” deve essere fatta risalire all’ultimo conflitto mondiale. Un’ultima avvertenza: per motivi di spazio a nostra disposizione, solo un’esigua porzione del materiale raccolto potrà formare oggetto di sommaria analisi nelle pagine che seguiranno13. Tralasciando quindi episodi e fatti di minore interesse ci soffermeremo su quelli che maggiormente hanno attratto la nostra attenzione, in quanto almeno in apparenza più attinenti all’argomento da noi trattato.

2. Distruttori di città e maestri di propaganda

Giudicato dagli esperti un “validissimo precursore di quella che oggigiorno è una dottrina diffusa in ogni scenario operativo moderno14”, cioè di psyops, il cinese Sun Tzu è stato, nel VI secolo avanti Cristo, il primo a teorizzare l’importanza del fattore psicologico sul campo di battaglia. Nella sua - ancor oggi apprezzata - opera, “L’arte della Guerra”, egli scrive infatti “... il massimo dell’abilità consiste nel piegare la resistenza del nemico senza combattere!
Reso il doveroso omaggio a quest’uomo di brillante intelligenza, dobbiamo tuttavia chiederci se davvero nessuno, prima di lui, abbia provato a far uso di tecniche di condizionamento o propaganda nei confronti degli avversari, o ne abbia intuito l’importanza: dopotutto l’epoca in cui visse Sun Tzu è relativamente recente, se rapportata a quelle che videro la nascita dei primi grandi imperi, e dunque dell’espansionismo umano.
Lo stratagemma del cavallo di legno, descritto da Virgilio nell’Eneide, ma attingendo a tradizioni ben anteriori, pose fine alla guerra di Troia, conflitto che ebbe luogo al tramonto del II millennio a. C. Sebbene la vicenda sia sospesa tra realtà e mito, c’è un particolare che attira l’attenzione del cultore di psyops: a convincere i troiani che gli achei hanno desistito dal decennale assedio e si sono rassegnati a fare mestamente ritorno in patria è un finto disertore greco, l’astuto Sinone, che, prestando le sue parole ed un’adeguata “recitazione” al piano elaborato da altri, ottiene che siano gli stessi teucri a trasportare entro le mura lo strumento della loro distruzione, offrendo ai nemici la città ed una poco dispendiosa vittoria.
Contemporaneo degli eroi di Omero, il Faraone Ramses II è probabilmente il primo sovrano ad averci lasciato un dettagliato resoconto d’una battaglia da lui combattuta: quella di Qadesh, contro gli Ittiti, nel 1288 a. C. Il combattimento, che impegnò due eserciti assai forti e numerosi, fu esaltato dagli Egiziani con bassorilievi, iscrizioni su templi e in altri modi. Su tutto e tutti domina la figura del giovane Faraone, che a un certo punto pare abbandonato dai suoi: “Con me non c’è principe né auriga / non c’è soldato né ufficiale / il mio esercito mi ha abbandonato / la mia cavalleria si è ritirata / non si sono fermati a combattere contro il nemico / così dice Sua Maestà”.15 E poi, a scontro concluso: “State sicuri, rafforzate il vostro animo, / o miei soldati / Guardate: io ho vinto / pur essendo solo, / perché ho Ammone come mio protettore. / Perché è così vile il vostro cuore, / Miei cavalieri?
Dalla lettura dei testi appare evidente che, oltre sette secoli prima della nascita di Sun Tzu in Cina, Ramses il Grande avesse già ben chiara l’utilità di magnificare le proprie gesta, e sia stato un abile propagandista di se stesso: a ciò è dovuta in parte la sua fama, ineguagliata da alcun Faraone delle due terre (con l’eccezione, forse, di Tutankhamon, la cui celebrità è tuttavia legata esclusivamente al ritrovamento di una tomba quasi intatta). Ha senso tuttavia domandarsi a chi fosse diretta la propaganda del faraone che andava in battaglia, il suo tentativo - riuscito - di conquistare le menti e l’immaginazione. Certamente ai posteri: investiti di onori divini, i sovrani egizi si preoccupavano non poco del ricordo che avrebbero lasciato, e costruivano per l’eternità. Anche il giudizio dei contemporanei, però, poteva essere convenientemente influenzato: udendo narrare le eroiche imprese del principe, vedendole ovunque raffigurate su monumenti maestosi, gli egiziani non avrebbero avuto ragione di dubitare della natura sovrumana di Ramses, e gli avrebbero obbedito ciecamente. Ma, al di là di questo, si può ipotizzare che l’autoglorificazione del sovrano avesse anche una finalità bellica, quella cioè di intimorire potenziali nemici (oltre agli Ittiti)?
Sebbene nella vicenda poetica il re di Kheta (Muwatalli), una volta viste le sue schiere annientate dal Faraone, implori il magnanimo vincitore di concedergli salva la vita, sappiamo che in realtà la battaglia si concluse con un nulla di fatto: l’esercizio egizio rinunciò a proseguire la campagna, e la cittadella di Qadesh rimase in mani ittite. Lo stesso Ramses non mosse più guerra agli anatolici: anzi, chiese ed ottenne la mano di una loro principessa per suggellare la pace tra i due imperi. D’altro canto, se il fine delle iscrizioni fosse stato quello di atterrire futuri nemici (visto che gli ittiti conoscevano bene l’esito della battaglia, e a loro volta si attribuirono la vittoria!), il messaggio veicolato dalla narrazione non sembrerebbe granché efficace: in molti versi il Faraone chiama “vili” i suoi guerrieri e li rimprovera di averlo sostanzialmente abbandonato nell’ora del pericolo! E’ piuttosto da ritenere, allora, che l’attività propagandistica avesse scopi squisitamente interni, di consolidamento del potere regio a discapito, magari, di quello della casta militare.
Sia come sia, quella condotta da Ramses II non può essere considerata un’operazione psicologica nel senso proprio del termine.
Più o meno nello stesso periodo storico, ma nell’area oggi denominata Medio Oriente, altri potenti sovrani dettavano iscrizioni di tono molto differente rispetto a quelle di Qadesh. Ecco come si presentava un re assiro16: “l’eroe conquistatore, il terrore del cui nome ha sopraffatto tutte le nazioni; la luminosa costellazione che, secondo il suo potere, ha mosso guerra a tutti i Paesi stranieri sotto gli auspici di Bel (...) con una moltitudine di re ho combattuto, e su tutti loro ho imposto il vincolo di servitù; non c’è alcuno pari a me nella battaglia. (...) Al servizio di Ashur mio Signore radunai i miei carri e i miei guerrieri... attraversai la regione di Kasiyaia, una terra difficile (da percorrere). Ingaggiai battaglia con i loro 20.000 guerrieri ed i 5 re nel Paese di Comukha. Li sconfissi. I ranghi dei loro guerrieri furono travolti in battaglia come da una tempesta. I loro cadaveri coprirono le valli e le cime delle montagne. Tagliai le loro teste.” A proposito di un’altra campagna: “Attraversai il Tigri e presi la città di Sherisha loro roccaforte. I loro guerrieri colpii come fiere nel cuore della foresta. Le loro carcasse riempivano il Tigri, e le cime dei monti. (...) La città e il suo palazzo bruciai col fuoco, distrussi e rasi al suolo.” Ancora: “Tiglath Pileser, il re potente, l’amante della battaglia, che ha spazzato la faccia della terra.”
Le parole appena lette, fiere e cariche di spaventosa violenza, suscitano in noi un senso di raccapriccio più che di ammirazione: e non sono certo le più crude tra quelle lasciateci dai monarchi assiri17. Ancor oggi, a distanza di migliaia di anni dalla caduta del loro impero, i guerrieri di Ninive sono immaginati come sorte di demoni in forma umana, che scuoiavano, uccidevano e stupravano per il solo piacere di farlo: appunto, “amanti delle battaglie”. Ma stavano realmente così le cose? Lo scopo dei sovrani mesopotamici era davvero quello di essere ricordati dalle generazioni future come mostri sanguinari, o c’era dell’altro, un valido motivo che giustificasse simili iscrizioni? Per azzardare una risposta è necessario esaminare successivi passi della fonte or ora citata (chi parla è sempre il terribile Tiglath Pileser): “Gli uomini dei loro eserciti si sottomisero al mio giogo (senza combattere). Ebbi compassione di loro. Imposi loro tributi e offerte (...) Io giunsi alla città di Milidia, appartenente al Paese di Khanni-rabbi, che era indipendente e non sottomesso a me. Essi si astennero dal venire a battaglia con me; si sottomisero al mio giogo, ed io ebbi compassione di loro. Non occupai la città, ma imposi loro in segno di fedeltà un tributo fisso...(...) Assediai la metropoli di Arin, essi si sottomisero al mio giogo ed io risparmiai la città...” Nei suoi annali, d’altra parte, re Assurbanipal si proclama “pastore, protezione del mondo intero”; inoltre, sotto il suo scettro “il mondo intero è diventato liscio come l’olio”.
A questo punto si fa strada l’ipotesi che, con il loro alternarsi di toni ed esempi di condotta nei confronti delle nazioni sottomesse, gli annali dei re assiri, più che un libro scritto col sangue dei vinti, fossero il sofisticato strumento di un ben preciso disegno politico, il cui obiettivo era di terrorizzare i potenziali nemici sì da indurli a preferire la resa ad un annientamento che, altrimenti, veniva eloquentemente promesso. Questa tesi viene sostenuta in un articolo apparso di recente su un quotidiano nazionale18, basato a sua volta su di un opera di carattere specialistico19. Secondo l’autore i sovrani assiri sarebbero stati i primi a teorizzare il principio della “guerra giusta”, oggi ripreso dagli Americani; e l’affermazione della superiorità schiacciante delle forze armate del re - l’esercito assiro, non solo la sua guida, è sempre al centro delle vicende narrate, ed è lodato per la sua invincibilità - sarebbe funzionale non tanto ad intimorire l’avversario, quanto ad “evitare la guerra con la solo minaccia della guerra, la dimostrazione di forza”. Il re non darà l’ordine di attacco perché gli piaccia la guerra, che anzi aborre - prosegue l’articolo - ma per il bene del mondo. In quest’ottica è evidente che gli alleati che defezionano saranno trattati alla stregua di nemici.
Cominciano ad emergere elementi interessanti per lo studioso di psyops: l’impiego di una categoria di professionisti alle dipendenze del governo (gli scribi di palazzo) per la redazione di testi scritti; l’ostentazione di forza finalizzata al conseguimento dei risultati di una guerra vittoriosa senza che sia necessario combatterla; la credibilità della minaccia così come delle promesse. Siamo agli albori delle operazioni psicologiche? Dopo averlo - non solo implicitamente - sostenuto, l’autore frena: “questi documenti di propaganda differiscono per molti aspetti dalle giustificazioni delle guerre moderne (...) si tratta di testi scritti per le audience del futuro più che per i contemporanei”20, chiosa alla fine.
Sottoponiamo a critica quest’ultima affermazione, in apparenza poco coerente con l’analisi che precede. C’è ad esempio un passo, nelle iscrizioni già menzionate21, che ci dà un’idea dell’importanza attribuita dal re alla diffusione dei testi: “possano Anu e Vul, i grandi dei, consegnare alla perdizione il nome di chiunque danneggerà le mie tavolette e i miei cilindri, o le inumidirà con l’acqua o le bruciacchierà col fuoco, ovvero - è questo il passaggio più interessante - assegnerà loro, nella sacra casa del dio, una posizione ove non possano esser viste o comprese (...) “ e via maledicendo. L’elemento non è in sè decisivo: la minaccia potrebbe essere rivolta ai sudditi, o addirittura alle generazioni future (“possa il suo nome e la sua razza perire”). Esiste tuttavia un’altra fonte, ben più accessibile delle iscrizioni assire, cui è possibile far riferimento: si tratta della Sacra Bibbia. Nell’Antico Testamento gli assiri sono una presenza costante e temuta: “portano oscurità, non luce, morte, non vita22, ma sono anche il terribile strumento dell’Altissimo per punire il Suo popolo quando si allontana dal rispetto della legge mosaica. Il libro di Giuditta si apre con il racconto della campagna intrapresa dal re degli Assiri contro il Paese dei Medi. Il signore di Ninive, in vista della guerra, spedisce messaggeri ai popoli dell’oriente e dell’occidente, ordinando loro di accorrere con le loro schiere e di porsi sotto il suo comando: quelli però “disprezzarono l’invito di Nabucodonosor re degli assiri e non lo seguirono nella guerra, perché non avevano alcun timore di lui, che ai loro occhi era come un uomo qualunque23. Offeso dalla risposta sprezzante, il re giura vendetta: dopo aver sottomesso i Medi e ucciso Arpacsàd, loro re, egli allestisce un esercito di centoventimila fanti e un forte contingente di cavalleria e carri da guerra per “punire con la distruzione chiunque non si era allineato con l’ordine da lui emanato24.” Ecco il compito affidato al generale Oloferne: “muoverai contro tutti i paesi di occidente, perché quelle regioni hanno disobbedito al mio comando. A costoro ordinerai di preparare la terra e l’acqua, perché con collera piomberò su di loro e coprirò la terra con i piedi del mio esercito e li metterò in suo potere per il saccheggio. Quelli di loro che cadranno riempiranno le valli e ogni torrente e fiume sarà pieno dei loro cadaveri fino a straripare; i loro prigionieri li spingerò fino agli estremi di tutta la terra.25” Inutile proseguire nella narrazione: dopo immani devastazioni e stragi sarà la mano di Dio a fermare gli assiri.
Ciò che importa realmente osservare è che il re menzionato nella Bibbia usa lo stesso linguaggio delle Iscrizioni reali assire! L’assonanza potrebbe essere casuale, o frutto della comune origine semitica dei due popoli: ma è certo più logico ipotizzare che l’eco della propaganda assira26 fosse giunta fino alla terra di Israele.
Se così fosse, e non abbiamo ragione di dubitarne, dovremmo concludere che i mesopotamici siano stati i primi a servirsi delle operazioni psicologiche in ambito militare, con buon successo e continuativamente. Per ricollegarci ai concetti enunciati nel primo capitolo, si trattava di una propaganda “bianca”, con finalità per lo più strategiche e di consolidamento, basata su rudi minacce di annientamento cui faceva da contraltare, per chi si sottomettesse spontaneamente, il balenio di opportunità di una vita migliore, sotto il giogo benevolo dei sovrani di Ninive. “Parcere subiectis, debellare superbos”: il celebre verso virgiliano riassume efficacemente anche l’orizzonte politico dei seguaci di Ashur. E’ appena il caso di notare che, per crudele ironia della Storia, proprio la terra d’origine degli antesignani di psyops sia stata interessata, nell’ultimo quindicennio, da devastanti conflitti nel corso dei quali, come mai in passato, si è fatto largo uso delle operazioni psicologiche.

3. Oriente contro occidente

Nonostante la forza d’un esercito mobilissimo e l’oscuro fascino che ancora esercitano sui moderni, anche gli assiri, con il loro impero, svanirono ad un certo punto nelle nebbie della storia. Dalle turbolenze che agitarono per qualche decennio il vicino oriente emerse alla fine un potere nuovo: quello dei persiani, guidati dal genio di Ciro il Grande (559-530 a.C.). Eccellente stratega e amante della cultura e delle arti, conquistò in breve tempo la Media, l’Assiria, la Lidia e tutta l’Asia Minore, gettando le basi di quello che viene considerato il primo impero universale. Assai interessante, ai nostri fini, è la strategia da lui scelta per sottomettere Babilonia. L’ultimo sovrano della città, il re-sacerdote Nabonedo, aveva sostituito al culto di Marduk quello assiro, provocando malumore e risentimento tra i sudditi: forse per paura di rivolte, risiedeva con la sua corte in un’oasi lussureggiante, a gran distanza dalla capitale. Ciro sapeva tutto ciò e, proclamatosi figlio di Marduk, conquistò le menti e i cuori dei babilonesi, che gli aprirono le porte come ad un liberatore. L’uso accorto della propaganda, reso possibile dalla perfetta conoscenza dei costumi locali, gli garantì dunque una vittoria piena ed incruenta27!
I successori di Ciro, pur senza possederne l’acume politico-militare, vollero imitarlo, lanciandosi alla conquista del mondo conosciuto. Era inevitabile che, prima o dopo, la fertile Europa attirasse l’attenzione dei sovrani achemenidi. La prima tappa della conquista del continente non poteva che essere l’assoggettamento della Grecia, ragionò re Dario. Pur se talvolta conflittuali, i rapporti tra oriente persiano ed occidente ellenico erano continui e stimolanti: l’inventore della storiografia greca, Erodoto, era di casa in Asia Minore e nelle sue cronache narra diffusamente e con ammirazione le vicende dei re persiani. Basta un fatto a darci la misura della considerazione in cui i discendenti di Ciro erano tenuti presso gli elleni: in lingua greca il termine “o basileus”, con l’articolo, stava a designare il re, di Sparta, Micene o d’Egitto che fosse; solo il sovrano di Persepoli veniva indicato semplicemente come “basileus”, senza bisogno d’articolo determinativo: Re per antonomasia, insomma, o Re dei re!
Questo potentissimo sovrano marciava ora, alla testa di un esercito sterminato, alla volta della Grecia. Il Paese era diviso in una miriade di città-stato, le più forti delle quali erano Atene e Sparta: non sarebbe stato un problema sottometterle, pensava l’Achemenide. Invece la piana di Maratona fu testimone dell’eroismo ateniese e dell’ingloriosa sconfitta di Dario (anno 490 a.C.).
Morto quest’ultimo, il giovane ed audace re Serse decise di vendicare l’umiliazione patita dal suo predecessore. Non è questa la sede per trattare di quella lunga campagna, conclusasi com’è noto con la distruzione dell’esercito e della flotta persiani: più proficuo, ai fini della nostra ricerca, è analizzare gli sforzi indubbiamente fatti dal Gran Re per convincere i greci dell’inopportunità di resistergli, ed il perché del loro completo fallimento. La fonte, preziosissima, è lo storico greco Erodoto che, all’epoca degli eventi narrati, era un fanciullo.
Radunata un’immensa schiera28, formata con contingenti provenienti da ogni regione dell’impero, Serse ordinò di scavare un canale attraverso la penisola dell’Athos per permettere alle sue navi il passaggio. “A pensarci bene trovo che Serse ordinò lo scavo del canale per mania di grandezza, volendo ostentare potenza e lasciare memoria di sè. In effetti, benchè avessero la possibilità, senza alcuna fatica, di trascinare le triremi attraverso l’istmo, impose l’apertura di un varco sino al mare largo tanto da permettere il passaggio di due triremi affiancate spinte a forza di remi. Agli stessi ai quali era stato comandato di tagliare l’istmo, fu ordinato anche di unire con un ponte, come sotto un giogo, le due rive del fiume Strimone29.” Non fu questa l’unica occasione in cui il persiano fece sfoggio della sua potenza al fine evidentemente di sgomentare i nemici. “E quando il braccio di mare era ormai aggiogato, sopraggiunse una violenta tempesta, si abbattè su tutte quelle opere e le disfece. Serse, adirato con l’Ellesponto, diede ordine di infliggergli trecento colpi di frusta e di tuffare in acqua un paio di ceppi30. E ho pure sentito dire che assieme a costoro inviò dei marchiatori a bollare l’Ellesponto. Ordinò poi di pronunciare, mentre lo fustigavano, le seguenti barbare e insolenti parole: “Acqua proterva, il tuo signore ti infligge questa pena, perché lo hai offeso senza aver da lui ricevuto alcuna offesa (..)”: così riferisce Erodoto, che coglie il significato propagandistico del gesto, ma non se ne lascia impressionare più di tanto. Quelle di Serse sono solo “barbare e insolenti” parole - si noti - così come barbari sono i suoi atti: la teatralità asiatica non fa presa sull’anima greca, occidentale! Un altro episodio, riportato dallo storico, è illuminante in tal senso: “Si racconta che quando ormai Serse aveva varcato l’Ellesponto, un uomo del posto esclamò: “O Zeus, perché assumi l’aspetto di un Persiano e ti fai chiamare Serse invece che Zeus e vuoi devastare la Grecia conducendole contro il mondo intero? Potevi farlo anche senza tutto questo.” E’ facile cogliere, nelle parole pur ammirate e timorose del testimone, un sottofondo di ironia.
Più che l’ostentazione di forza, c’è un altro particolare che non sfugge agli osservatori greci: “Posato il piede in Europa, Serse osservò le sue truppe che attraversavano lo stretto a suon di frustate.” Frustate: i sudditi del Gran Re altro non sono altro che schiavi; i greci lo sanno, e sono disposti ad unirsi, dimenticando temporaneamente divisioni e inimicizie, pur di scongiurare un simile destino. Paradossalmente, quindi, la propaganda persiana sortisce l’effetto opposto a quello sperato: rafforza la volontà di resistenza, crea un fronte comune contro l’invasore. Possibile che egli ed i suoi sottoposti non se ne rendano conto? C’è un momento in cui un’ombra di consapevolezza fa capolino nella mente del re persiano: discorrendo con il transfuga greco Demarato, egli osserva “in effetti, a mio parere, neppure se tutti i greci e tutti i rimanenti abitanti dell’occidente si coalizzassero, sarebbero in grado di resistere al mio attacco, a meno che non agissero con autentica coesione.” Tuttavia, quando lo spartano tenta di dissuaderlo dalla spedizione, affermando, a proposito dei suoi connazionali: “primo: è impossibile che accettino mai i tuoi discorsi, che comportano schiavitù della Grecia; secondo: ti affronteranno in battaglia anche se tutti gli altri greci passeranno dalla tua parte. Il loro numero? Non chiedere quanti siano per osare agire così; che siano mille sul campo di battaglia, o di più o di meno, altrettanti combatteranno contro di te!” Serse scoppia a ridere fragorosamente. Non gli ha forse assicurato Mardonio, il più ascoltato tra i suoi consiglieri: “sappiamo come combattono, conosciamo la loro forza, ed è ben poca cosa (...). Mio re, chi ti si opporrà sfidandoti militarmente, quando guiderai insieme la massa degli Asiatici e la flotta intera?” La risata del Gran Re si spegnerà a Salamina; la sicumera di Mardonio non sopravvivrà alla decisiva battaglia di Platea.
Si può concludere che l’insuccesso dei persiani nel tentativo di piegare l’altrui volontà di resistenza deriva dall’incapacità degli invasori di intendere la mentalità greca, i valori che stanno alla base della civiltà occidentale: il rispetto della legge, il senso dell’onore, l’amore per la libertà, da anteporre alla vita stessa31. Eppure gli strumenti per comprendere non facevano difetto: lo stesso Serse, così come i suoi consiglieri, aveva occasione di confrontarsi quasi quotidianamente con fuggiaschi greci, presso la sua corte. Fu forse l’orgoglio, la “hybris” di cui parla Eschilo ad accecare il Gran Re; o forse la coscienza di disporre d’un esercito che in Asia non aveva rivali. In fondo, l’esibizione di forza da lui voluta avrebbe probabilmente dato i frutti sperati se, dalla parte del nemico, ci fosse stato un popolo culturalmente affine ai persiani. Per gli elleni, al contrario, la prospettiva di essere assoggettati ad un solo uomo, di saggiarne a suo piacimento la frusta, appariva peggiore della morte, era insopportabile; invece di terrorizzarli, la spavalderia e la tracotanza del re rafforzarono in loro la volontà di opporsi, a qualsiasi costo. Di fronte alla minaccia esterna compresero, ad onta di rivalità e inimicizie, di essere un popolo. Serse, che avrebbe avuto tutto l’interesse a giocare sulle divisioni altrui, ottenne il risultato di farli marciare uniti contro gli invasori, e perse. Il suo messaggio voleva essere: non c’è alternativa alla sottomissione. Le città lo lessero così: l’unica alternativa alla servitù è la vittoria!
Conosci il tuo nemico: è una regola da seguire oggi come 2500 anni fa; per leggerezza o condizionamento culturale, gli eredi di Ciro non vi si attennero.
Per la prima volta nella storia si scontrano non solo due eserciti o due imperi, ma due civiltà: l’oriente e l’occidente. Da questo conflitto, che si ripeterà poi molte volte nei secoli successivi, e dall’inattesa vittoria dei greci nascerà il primo barlume di coscienza europea.



4. Il re del mondo

Tra i grandi condottieri della Storia, Alessandro Magno è forse quello che più di ogni altro sembra appartenere, più che al mondo reale, alla sfera dell’epica e della poesia: asceso giovanissimo al trono di Macedonia, un paese di secondaria importanza, in poco più di dieci anni creò un impero quale mai si era visto prima, conquistando la Persia e spingendosi fino alle estreme regioni della terra; per poi morire a soli trentatrè anni (età fatidica!), vittima della sua sete di avventura e di vizi pari alle virtù. Davvero, il paragone con l’omerico Achille - che egli incoraggiò in vita, venerando nel mirmidone il suo modello - non è il frutto della piaggeria di letterati di corte: come l’antico eroe, il colto Alessandro visse un’esistenza breve ma densissima, costellata di trionfi, amori e disgrazie32.
Le imprese del re di Macedonia, così come i nomi dei suoi nemici (Dario III, l’indiano Poro), sono ben note al grande pubblico: in questo capitolo cercheremo di analizzare, dal punto di vista di psyops, alcuni comportamenti da lui tenuti nel corso delle sue lunghe campagne.
Passato per la prima volta in Asia dopo aver sottomesso la Grecia, il giovane re si recò immediatamente a Troia, risorta, col tempo, dopo la distruzione di mille anni prima. Snobbando la lira di Paride Alessandro, che i cittadini gli offrivano, egli onorò il leggendario Achille nel seguente modo: untosi d’olio, corse nudo insieme ai suoi compagni fino alla tomba dell’eroe, e qui depose una ghirlanda. Era un tributo assai notevole, reso in maniera spettacolare33; ed il gesto, come quasi tutti quelli compiuti da Alessandro in vita, aveva un preciso significato simbolico e propiziatorio.
Come testimonia Erodoto34, prima di penetrare in Grecia, 150 anni prima, re Serse era salito alla rocca di Priamo, e colà aveva sacrificato mille buoi agli dei per ottenerne il favore. Toccava ora all’occidentale richiamarsi a quell’antica epopea: Alessandro “continuò ad accentuare il suo legame con la prima invasione greca, quella del passato omerico. Tributò sacrifici alle tombe di Aiace e di Achille e li onorò come suoi degni predecessori, perché al momento di invadere l’Asia era il favore degli eroi greci della guerra troiana che egli riteneva particolarmente importante per la sua campagna35.”
In tale occasione, la propaganda del macedone parlava a due popoli: ai persiani, rammentando loro che mai l’oriente era riuscito a prevalere sull’occidente e che lui, l’emulo di Achille, non si sarebbe arrestato fino alla definitiva vittoria; ai riottosi greci, rivendicando per il condottiero, la sua casata ed i compagni la piena appartenenza alla koinè culturale ellenica36.
C’è un ulteriore episodio, relativo agli esordi dell’impresa asiatica, che attira la nostra attenzione sulla capacità del re di sfruttare le percezioni a suo vantaggio: a Gordio, davanti al pubblico più vasto possibile, egli raccolse una sfida, consistente nello sciogliere un nodo di corteccia che, nell’acropoli, legava il carro di re Mida al suo giogo. In quattro secoli nessuno c’era mai riuscito, ed anche Alessandro, per quanto tirasse, non ottenne dapprima alcun risultato. Visto che un fallimento avrebbe nociuto al suo prestigio, egli snudò la spada e tagliò finalmente il nodo a metà, affermando che esso era stato sciolto, se non disfatto! Un atto di arroganza? Piuttosto una mossa geniale, dettata più dal calcolo che dalla frustrazione: se avesse risolto la questione in modo maggiormente ortodosso, forse il giovane re non sarebbe riuscito ad attrarre altrettanto interesse su di sè. I suoi propagandisti trasformarono l’evento in un leggendario successo: “ci furono tuoni e lampi proprio in quella notte” a significare che Zeus approvava e così furono offerti sacrifici “agli dei che avevano dato il loro segno e ratificato lo scioglimento del nodo37.
Basta considerare gli esempi fin qui fatti per giungere ad una prima conclusione: con le sue gesta, gli atteggiamenti e le frasi dei cronisti Alessandro intendeva far giungere il suo messaggio a tutti, posteri e contemporanei, amici e nemici. Mirava costantemente a crearsi intorno un’aura di invincibilità, di leggenda, per fini che andavano dalla più rapida sottomissione d’un paese alla diffusione, nel tempo e nello spazio, della propria fama.
Alessandro Magno sapeva conquistare le menti ed accendere l’immaginazione: non deve tuttavia stupire il fatto che egli mai cercò di vincere una battaglia senza combatterla, impiegando quelle che oggi i manuali definiscono operazioni psicologiche “tattiche”. Non c’è in questo nessuna contraddizione: fedele imitatore del divino Achille, egli si batteva eroicamente38 alla testa dei suoi eteri (compagni, in greco), e più ancora che delle battaglie vittoriose, gioiva nell’affrontare con la spada in pugno nemici valorosi sul campo. Un successo ottenuto senza spargimento di sangue sarebbe parso al re indegno dei suoi modelli omerici: d’altra parte, la straordinaria abilità di Alessandro come tattico e stratega, oltre che come singolo combattente, gli consentì, durante le fasi della conquista, di aver facilmente ragione di ogni opposizione, quali che fossero le circostanze39.
Le operazioni in cui il sovrano eccelleva, invece, erano quelle che si definiscono “di consolidamento”. Consideriamo i fatti: al suo arrivo in Egitto, non soltanto Alessandro non fu accolto da manifestazioni ostili, ma venne considerato dagli egiziani alla stregua di un liberatore. Il re sapeva bene che il maggior motivo di risentimento degli egizi nei confronti dei dominatori persiani era rappresentato non dal modesto tributo annuo dovuto a Persepoli, bensì dallo scarso rispetto mostrato dagli iranici nei confronti dell’antichissima religione nazionale. Alessandro, che tante nozioni aveva appreso dal suo maestro Aristotele ed aveva, nei confronti dei paesi attraversati, la genuina curiosità dell’esploratore, trovò abilmente il modo di cattivarsi il rispetto dei nuovo sudditi: per prima cosa rese spontaneamente omaggio al Bue Apis e tosto accettò di essere incoronato Faraone dell’alto e del basso Egitto nell’antica Menfi. Ad uso degli egiziani fece inoltre circolare la voce che Nectanebo, l’ultimo sovrano egizio cacciato da Artaserse III pochi anni prima, era riuscito a riparare presso la corte macedone dove, assunto l’aspetto del Dio Ammon, avrebbe reso incinta la regina Olimpiade di Alessandro. La storiella, così come la diceria relativa al fatto che, nel tempio della divinità, il profeta di Ammon Ra lo aveva salutato come figlio e gli aveva concesso il dominio del mondo, ebbero l’effetto - largamente previsto - di rafforzare l’autorità del sovrano macedone nei confronti di un popolo a lui estraneo, ma del cui sostegno egli necessitava.
La condotta seguita da Alessandro Magno in Egitto suscita ammirazione. Egli mostra di conoscere e seguire tutte le regole che stanno alla base delle moderne psyops: perfetta conoscenza dell’obiettivo, credibilità del messaggio veicolato40 e sua idoneità ad influire favorevolmente (per il conquistatore) sul contegno di un popolo intero. Inoltre, la gestione delle operazioni è affidata a specialisti: i segretari e gli storici-propagandisti - tra cui il celebre Callistene41 - al seguito della spedizione. E c’è un altro particolare che va rammentato a quanti sostengono che le psyops sono un’invenzione del ventesimo secolo: invece di un satrapo sul modello persiano, in Egitto Alessandro nominò due governatori civili indigeni, Petisi e Doloaspi, mentre l’amministrazione delle finanze fu affidata a un residente greco. A due macedoni, personaggi non di primo piano, fu assegnato il comando militare (ma non il governo civile!), con l’ordine di mantenere un basso profilo. Il pensiero - ed il paragone - corre spontaneo al ben più arrogante comportamento tenuto dagli americani in Iraq, dopo la conquista di Baghdad nell’aprile 2003: presentatisi come liberatori del popolo iracheno, smentirono ben presto la loro stessa propaganda, sciogliendo il locale esercito, fonte di sostentamento per centinaia di migliaia di uomini, ed arrogando a sè ogni potere militare e civile, con le tragiche conseguenze cui assistiamo in diretta quotidianamente.42
Chi è il professionista, viene da chiedersi, chi i maldestri dilettanti?
Su un solo popolo non poteva far presa, ovviamente, la campagna psicologica di Alessandro: e si trattava dei suoi macedoni. Molti di essi ritenevano che, affermando qua e là le proprie origini divine, il conquistatore offendesse la memoria del padre Filippo: l’opposizione venne allo scoperto dopo che Dario III fu definitivamente battuto e la Persia conquistata. Considerandosi oramai Re dell’Asia, egli - intelligentemente - volle rendersi accettabile ai sudditi iranici e adottò una forma di abbigliamento che costituiva una via di mezzo tra quella macedone e quella persiana43. Com’è stato notato44, Alessandro intendeva fondare un regno nuovo, che fondesse nel culto della propria persona razze, società e costumi diversi, per cui non disdegnava di adottare aspetti da lui apprezzati del cerimoniale dei popoli conquistati, fossero persiani, indi o battriani. Accettò dai nuovi sudditi, contro la volontà dei capi macedoni45, l’onore della proskynesis, da sempre riservata al Gran Re, e reclutò giovani persiani ed asiatici per il suo esercito. I timori dei connazionali erano tuttavia immotivati: il sovrano non mutò le sue abitudini nei loro confronti, e le truppe rimasero suddivise per nazionalità, con quelle macedoni che continuavano a costituire il nerbo dell’armata.
Per i rudi montanari partiti della Macedonia era difficile comprendere, d’altronde, il genio di un uomo che aveva messo a frutto la lezione di Aristotele: autentico re del mondo, egli volle far sì che tutte le genti sottomesse al suo scettro lo riconoscessero come il “proprio” sovrano, e gli obbedissero non per forza46, ma per amore.
La sua strategia ebbe successo, se è vero che, ancora nell’ottocento, in sperdute regioni dell’Asia si fantasticava sul ritorno di un re che altri non era se non l’immagine mitizzata di Alessandro il Grande; colui che, incompreso dai suoi macedoni, conquistò l’anima dei popoli e dei poeti, per sempre.



5. Hannibal ad portas!

Tra le figure dei grandi condottieri dell’antichità quella del cartaginese Annibale rappresenta in certo senso un’anomalia; e altrettanto si può dire delle sue imprese, in tempo di guerra e di pace47. Egli infatti combattè non per sete di conquista o di gloria, ma per salvare la patria; e rivolse le armi contro un unico nemico, Roma, nel corso di una campagna che si trascinò per anni e anni ed alla fine, nonostante la sovrumana abilità militare del punico, lo vide sconfitto.
Fra tutti gli episodi che hanno per protagonista Annibale quello che maggiormente accende la fantasia dei liceali è l’attraversamento delle Alpi, in pieno inverno. Ancor oggi gli studiosi si domandano se, per giungere in Italia, l’esercito invasore sia passato attraverso il Moncenisio o il Piccolo San Bernardo: la cosa è ininfluente ai nostri fini, ciò che conta è l’impresa in sè. Indubbiamente, Annibale scelse la via dei monti per evitare l’intercettazione da parte degli eserciti consolari romani che muovevano verso la Liguria e il sud dell’odierna Francia: così gli storici in genere giustificano la sua decisione arrischiata, ma c’è probabilmente dell’altro. Chiunque ha avuto l’occasione di fissare lo sguardo su di uno svettante massiccio montuoso nella stagione fredda, lontano dalla civiltà e dal turismo di massa, ben conosce lo smarrimento dell’anima di fronte ad uno spettacolo imponente come pochi altri in natura. La vista delle Alpi, con le loro giogaie coperte di neve, dovette atterrire i soldati al seguito di Annibale, e forse persino lui stesso: ma, vinta quell’insuperabile barriera, chi mai sulla terra avrebbe avuto il coraggio di opporsi a uomini che erano riusciti nell’impresa?
Il tributo pagato dall’esercito alle montagne fu altissimo: migliaia di guerrieri scomparvero nei crepacci o morirono assiderati, ma le truppe che, dopo giorni di indicibile sofferenza, scorsero verdeggiante ai loro piedi la pianura padana avevano dimenticato cosa fosse la paura. Annibale aveva raggiunto il suo duplice scopo: quello di annunciare nella maniera più clamorosa la propria venuta a romani ed italici; quello di poter disporre di un ristretto ma temprato esercito di veterani prima ancora di incrociare la spada con le legioni. Questi uomini, motivati e adoranti, lo seguiranno fino all’epilogo della sua straordinaria avventura.
La strategia di Annibale in Italia apparve subito chiara ai contemporanei: valutando il sistema di alleanze creato da Roma piuttosto debole, egli perseguiva il disegno di isolare l’urbe spingendo alla defezione - e conquistando alla sua causa - i popoli soggetti ai romani. Alle nazioni via via conquistate egli dichiarava di essere venuto a liberarle dal giogo della spietata prepotenza romana: il messaggio era reso credibile dalle sonore sconfitte inflitte alle legioni (al Ticino, alla Trebbia, al Trasimeno), dall’ars punica48 grazie alla quale il barcide si era tratto più volte d’impaccio; dall’abilmente propagandato giuramento di odio eterno ai romani che rassicurava i nuovi seguaci circa la determinazione cartaginese a continuare la lotta fino alla vittoria. Inoltre Annibale non manifestò mai l’intenzione di allargare l’impero punico all’Italia, e rispettò culti e tradizioni dei popoli con cui veniva in contatto. Quest’intelligente politica fruttò all’invasore il prezioso appoggio di galli ed etruschi, nonchè di molte città greche del meridione: l’armata con cui Annibale affrontò in Puglia gli eserciti consolari di Emilio Paolo e Varrone era rinforzata da un buon numero di ausiliari.
Il trionfo di Canne, contro un nemico superiore per numero ed armamenti, rimane il più fulgido esempio del genio militare del barcide: a quel punto la strada per Roma era aperta, e tanti, dopo Maarbale, si sono interrogati sul motivo per cui il duce cartaginese non diede ordine di marciare sulla città. Davvero Annibale non sapeva sfruttare le sue vittorie?
Va in primo luogo tenuto conto che (abbastanza stranamente) l’esercito cartaginese non disponeva di macchine d’assedio49, e che le mura di Roma, rinforzate di recente da Q. Fabio Massimo, erano alte e possenti; v’è però anche un’altra spiegazione, più convincente a parere di chi scrive, dal momento che attribuisce un ben preciso significato al comportamento attendista di Annibale. “Il terribile avversario (...) non progettava assolutamente la conquista e la distruzione di Roma. L’offerta di pace di Annibale dopo Canne e la dichiarazione di intenti nel trattato con Filippo di Macedonia, dimostrano che egli mirava soltanto al ristabilimento dello statu(s) quo ante.50
Come i fatti successivamente comprovarono, per i quiriti non c’era tuttavia alternativa all’eliminazione (fisica) di Annibale e alla distruzione della sua patria: quando egli infine lo comprese, la fortuna aveva già iniziato ad abbandonarlo. Eppure Senato e popolo romano vissero attimi di terrore allorchè, trascorsi ormai cinque anni dalla battaglia di Canne, dall’alto delle fortificazioni le sentinelle scorsero le avanguardie cartaginesi che si approssimavano alla città (211 a. C.).
In quest’occasione, va detto, Annibale non progettava affatto di prendere l’urbe, essendo le sue schiere numericamente ridotte51: si trattava di un’operazione dimostrativa, “tattica”, volta ad un ben più limitato obiettivo, la liberazione di Capua52 dall’assedio romano. Ecco come si svolsero gli eventi: visto che la sua presenza in Campania non aveva alcun effetto sugli eserciti consolari fortemente trincerati intorno alla città, il condottiero rimosse il campo col favore delle tenebre53 e iniziò una marcia rapidissima alla volta della capitale. Sperava che, accortisi della sua improvvisa partenza verso il nord e indovinatene in ritardo le intenzioni, i consoli si mettessero al suo inseguimento; ovvero che il Senato, vedendo il temuto nemico accamparsi a sole due miglia dalle mura, stimasse le legioni distrutte e offrisse la pace, o una tregua. Non accadde nulla di tutto questo: dopo l’iniziale sconcerto i cittadini si prepararono disciplinatamente a resistere. “Piccola cosa a dirsi, ma sufficiente a mostrare la forza d’animo del popolo romano, il fatto che proprio nei giorni dell’assedio il terreno, ove Annibale aveva disposto l’accampamento, fu messo all’asta a Roma e trovò un compratore. Annibale, da parte sua, volle imitare tanta fiduciosa sicurezza e pose in vendita i banchi di cambio della città: ma non fu trovato alcun compratore, sicchè fu palese che anche i presagi del destino erano favorevoli (ai romani)54.
Al cartaginese fu ben presto chiaro che il suo audace piano era fallito: Capua era ormai destinata a cadere. Prima di ritirarsi, tuttavia, Annibale volle dire addio a Roma a modo suo: mentre sulla città si abbatteva una violenta grandinata primaverile55, tre cavalieri furono visti galoppare forsennatamente verso Porta Collina. Nonostante la pronta reazione delle sentinelle, uno dei tre afferrò un giavellotto, ne ravvolse la punta in uno straccio e con due selci asciutte provocò la scintilla che fece avvampare la lama. Incurante delle frecce avversarie, l’uomo spronò la sua cavalcatura e, giunto a portata di tiro, scagliò l’arma all’interno delle mura: stando alla narrazione la lancia cadde nel Campo Scellerato, dove venivano sepolte vive le Vestali che avevano infranto il voto di castità. Le vedette romane riconobbero in mezzo ai lampi il volto tormentato del lanciatore: era proprio lui, Annibale, l’odiato nemico. Verità o leggenda? che importa, ci piace credere che le cose siano andate così; e concedere ad un uomo nobilissimo di congedarsi con un gesto tanto inutile56 quanto grandioso.
In definitiva Annibale perse la guerra perché aveva sottovalutato la tenacia e l’ambizione dei romani, la loro arrogante certezza di essere destinati a dominare il mondo. Nato da una stirpe di mercanti, aveva lottato per assicurare una fruttifera pace alla sua terra; ma l’irriducibile nemico voleva espandersi, non convivere.
Hannibal ad portas! per secoli, le matrone romane avrebbero fatto ricorso a questa esclamazione, divenuta proverbiale, per intimorire i bimbi troppo vivaci. Il nome dell’uomo che aveva fatto tremare Roma diventò un espediente per mettere a letto i fanciulli.



6. Un ponte sul Reno

Nelle piazze di molte città del continente un uomo ci guarda dall’alto, rivestito del paludamentum e dell’inseparabile corazza: caratteristiche del suo volto sono gli zigomi pronunciati e gli occhi che, pur scolpiti nella pietra, conservano l’eco della vivacità del modello.
E’ corretto, ma riduttivo, definire Caio Giulio Cesare uno dei più grandi comandanti militari di tutti i tempi: al di là dell’impressionante varietà dei campi in cui il suo ingegno gli permise di primeggiare, il romano fu soprattutto un abilissimo politico e uno statista lungimirante come pochi. La prova sta nel fatto che l’impero da lui edificato sulle ceneri dell’ormai decrepita repubblica romana sopravvivrà al fondatore per oltre cinque secoli; e questo a non voler considerare Bisanzio e, su altro piano, l’innegabile influenza esercitata da una figura realmente superiore sul successivo sviluppo della civiltà europea, fino ad oggi. Tra i meriti da attribuire a Giulio Cesare v’è quello d’aver compreso - per primo in maniera chiara - il ruolo centrale di quella che oggi chiamiamo “opinione pubblica”, il cui sostegno dev’essere ottenuto e conservato da chi si appresta a realizzare trasformazioni epocali nella struttura d’una società. Anzi: l’opinione va influenzata, blandita e, ove possibile, creata: non a caso, con i suoi acta diurna e gli acta senatus57, il più illustre rampollo della gens Iulia può essere considerato, se non l’inventore, il geniale precursore del giornalismo moderno.
Alla luce di quanto detto, il costante ricorso all’arma psicologica da parte di Cesare, nel corso delle tante campagne che lo videro protagonista, non può né deve stupire: ciò che semmai colpisce sono le tecniche e gli strumenti di volta in volta utilizzati. Come Alessandro, egli non sottovalutava il potere della parola scritta, se capillarmente diffusa: ma a differenza del macedone, non aveva bisogno di letterati professionisti che magnificassero le sue imprese. Giulio Cesare fu, tra le altre cose, uno dei maggiori autori latini; e i “Commentarii” redatti di suo pugno, e lodati persino dagli avversari58, si dimostrarono un mezzo di propaganda straordinariamente efficace.
Le doti di persuasore del romano si manifestano compiutamente nella guerra civile che lo vede opposto ai sostenitori del declinante potere oligarchico59: la propaganda cesariana è rivolta alla società civile non meno che ai nemici sul campo di battaglia. Nei confronti di questi ultimi - che Giulio Cesare definisce “adversarii” e non “hostes”, con ciò lasciando aperte le porte alla riconciliazione60 - egli fa costante mostra di magnanimità (soprattutto per quel che riguarda legionari ed ufficiali subalterni), mirando ad ottenere la resa dei suoi avversari piuttosto che ad annientarli: lo scopo è magistralmente raggiunto nei primi tempi del conflitto contro Pompeo e soprattutto nella guerra di Spagna contro i pompeiani Afranio e Petreio, quando le truppe repubblicane passano nella loro totalità dalla parte di Cesare, abbandonando i comandanti.
Tuttavia il principale destinatario della propaganda giuliana è lo strato “medio” dell’opinione pubblica romana, gli equites e la piccola borghesia cittadina ed italica che, travolti dagli eventi, non hanno all’inizio ben chiaro da che parte convenga stare: per ottenere il loro appoggio, anche in chiave futura, egli si serve certamente di uomini fidati ed iniziative clamorose, ma anche e soprattutto dei formidabili Commentarii. Nella sua ricostruzione dei fatti, ben presto di dominio pubblico, Cesare sottolinea di essersi sempre mantenuto nell’ambito della legalità, insiste sul proprio desiderio di una pace duratura; gli stessi episodi di clementia, confermati più o meno a malincuore dagli oppositori, sono un messaggio rassicurante per i destinatari dell’azione. Il futuro imperatore promette riforme ed una politica tale da assicurare gloria e prosperità per il popolo romano negli anni a venire: la convinzione che una profonda trasformazione della società sia necessaria si trasmette naturalmente ai lettori, e mette radici nel loro animo. Prima di conquistare Roma, Giulio Cesare conquista i romani.
Premesso questo, non manchiamo di osservare che la più straordinaria operazione psicologica condotta a buon fine da Cesare appartiene ad un periodo precedente, e riguarda l’attraversamento di un fiume impetuoso.
Proconsole in Gallia, il romano non sottovalutava la minaccia rappresentata dei germani che, attraversando il Reno, compivano sporadicamente terribili razzie in territorio gallico, ritirandosi poi dietro la protezione del grande fiume. La dura lezione inflitta agli Svevi di Ariovisto non tranquillizzava il condottiero: era indispensabile impressionare quei barbari dando loro un segno tangibile della superiore potenza di Roma. L’unica via possibile era oltrepassare quel rivo che i popoli germanici consideravano una frontiera invalicabile da qualsiasi nemico. Gli Ubi si offrirono di fornire le navi necessarie all’impresa: ma Cesare optò per una diversa soluzione, assai più efficace ai suoi fini. Per rendere possibile l’attraversamento, ordinò la costruzione di un ponte che fu realizzato in tempi così rapidi da passare la storia come una delle più grandi opere di ingegneria della storia. Dopo appena dieci giorni l’esercito romano passava il Reno: sbigottiti da un’impresa che andava al di là della loro immaginazione (e delle loro capacità tecniche!), i germani abbandonarono i loro villaggi all’invasore e si sparpagliarono nelle foreste. Senza bisogno di combattere, Giulio Cesare aveva vinto la guerra: riattraversato il fiume in piena tranquillità dopo 18 giorni, egli ordinò ai soldati di distruggere quel ponte che tanto aveva atterrito i nemici. Anche quest’ultima decisione ebbe un impatto psicologico fortissimo: quale doveva essere il potere dei romani se essi potevano permettersi di abbattere un’opera tanto meravigliosa?
L’obiettivo iniziale del proconsole era quello di incutere nei germani un timore superstizioso, ribadendo l’inarrivabile supremazia di Roma: poteva dirsi raggiunto, non valeva la pena di lasciare truppe a presidiare località povere di attrattive.
Non solo il senso del messaggio era incontrovertibile (“ovunque vi nascondiate, Roma possiede gli strumenti per raggiungervi ed annientarvi: vi conviene rinunciare a sfidarla!”), ma il mezzo usato per veicolarlo era l’unico davvero idoneo, viste le circostanze, nei confronti di popoli che non conoscevano la scrittura ed ammiravano più d’ogni altra cosa il potere delle armi.
Da allora, per merito di Cesare e della sua finezza psicologica61, la frontiera del Reno fu una tra le più sicure del mondo romano.
Avendo fatto cenno all’abilità del grande generale nel fare uso di manovre di “conquista delle menti” per finalità - a seconda dei casi - strategiche, tattiche e di consolidamento, è il caso di chiedersi ora se simili tecniche persuasive facessero parte del patrimonio di conoscenze della generalità dei comandanti romani. In verità, le pagine degli antichi cronisti riportano numerosi esempi di operazioni psicologiche in epoca repubblicana ed imperiale: un episodio interessante è quello narrato dal suo stesso protagonista62 e risalente all’assedio di Gerusalemme da parte delle legioni di Tito, nel 70 d.C. Giuseppe Flavio, prima di passare dalla parte di Roma, era stato uno dei più autorevoli capi della rivolta giudaica: fidando nella sua capacità di persuadere i connazionali, Tito inviò proprio lui a chiedere la resa della città, promettendo in cambio clemenza e perdono per tutti. Giuseppe onorò il compito affidatogli producendosi in un lungo e appassionato discorso: la vittoria dei ribelli era impossibile, sottolineò più volte, in quanto l’impero disponeva di risorse illimitate, e nessuna forza al mondo era in grado di opporglisi. D’altronde, i rivoltosi non lasciavano scelta ai romani: non avessero consegnate le armi, sarebbero stati loro stessi i responsabili della distruzione di Gerusalemme e del sacro tempio che avevano giurato di difendere. Invitò infine gli assediati ad aver pietà della loro nazione e delle loro famiglia, non prima di aver fatto ricorso ad argomenti di carattere religioso: a Dio, e non alle armi, spetta la difesa del popolo eletto, così sta scritto nella Bibbia - disse.
Stavolta la manovra non ebbe successo: un sasso scagliato dalle mura centrò in pieno il futuro storico, che per poco non ci rimise la vita; Tito dovette ordinare l’assalto.
Evidentemente, per far breccia nell’animo di fanatici religiosi non bastavano, allora come oggi, gli appelli alla ragione, e neppure la miglior conoscenza delle scritture: chi è imbevuto di incrollabili certezze intende soltanto la logica della spada.
Non solo, come s’è visto, l’arma psicologica era usata in guerra: l’utilizzo di essa era anche suggerito dagli scrittori di cose militari dell’epoca, come Polieno e Sesto Giulio Frontino63. In effetti, a differenza di altri popoli, i pragmatici romani non amavano la guerra in sè e per sè, ed erano ben lieti se gli obiettivi prefissi venivano raggiunti attraverso la resa del nemico piuttosto che con una battaglia sanguinosa: ciò non comporta tuttavia che essi facessero sistematico ricorso ad un corrispondente delle odierne operazioni psicologiche. Nei secoli della repubblica e, più tardi, in quelli del principato solo i soldati e gli ufficiali di rango inferiore potevano dirsi “di carriera”: per i rampolli delle famiglie più in vista i comandi militari erano solo una tappa del cursus honorum, e la loro assegnazione coincideva comunque con cariche di durata annuale, salva la possibilità di limitate proroghe. Non esistevano quindi, per questi alti ufficiali “di complemento”, scuole di guerra equiparabili a quelle attuali, ove apprendere i segreti dell’arte militare. Se avevano fortuna, i giovani tribuni e legati potevano essere chiamati a servire sotto comandanti esperti ed apprenderne le tecniche: Cesare, ad esempio, deve non poco all’abile Lucullo, ma altri furono meno avvantaggiati. In definitiva, a decidere le strategie da seguire era sempre il singolo: e spesse volte furono il coraggio e la disciplina dei legionari - quest’ultima la vera arma segreta dei romani! - a segnare le sorti delle battaglie, ponendo rimedio all’inettitudine di duces ambiziosi.

7. Carnefici e santi

Dopo il crollo dell’impero romano, nel V° secolo dell’era cristiana, inizia per l’occidente un lungo periodo di stagnazione, nelle arti, nelle scienze e nell’organizzazione sociale: si affacciano i secoli bui del medioevo. Anche i progressi nell’arte della guerra vengono dimenticati: gli eserciti del tempo sarebbero sembrati, ai teorici d’età romana, più orde indisciplinate che truppe regolari; le battaglie si riducevano, nella gran parte dei casi, a furiose zuffe tra (pochi) guerrieri equipaggiati alla bell’e meglio, e gli ignorantissimi comandanti erano piuttosto inclini alle brutalità gratuite che non a raffinati calcoli strategici. Il nemico andava vinto, non convinto!
Il fiume della Storia però non si arresta: altrove fioriscono nuove culture, e uomini di talento creano dal nulla potentati destinati a sopravvivere negli annali. Una figura si staglia su tutte: quella del mongolo Temujin, che per le sue straordinarie conquiste si meritò il titolo di “Cinghis Kaghan” (il Sovrano oceanico), volgarizzato dagli occidentali in Gengis Khan. Nel breve volgere di alcuni decenni il ragazzo esiliato dalla tribù d’origine alla morte del padre riuscì a raccogliere sotto il suo scettro tutti i popoli dell’Asia64 e, ad onta della tradizione che lo dipinge come un mostro assetato di sangue ed analfabeta65, si affermò come uno dei più brillanti e capaci comandanti militari di ogni tempo.
E’ riconosciuto dagli studiosi che il condottiero faceva uso abituale delle psyops66, degli inganni67, della sicurezza operativa e della distruzione dei processi decisionali avversari; vista l’importanza attribuita alla rapidità di spostamento delle truppe ed alle comunicazioni, non deve inoltre stupire che, con parecchi secoli d’anticipo sul “selvaggio west”, Gengis Khan abbia ideato un sistema di posta militare che ricorda molto da vicino il pony express.
Proviamo ad immaginare ora, per un momento, l’esercito mongolo che si schiera per la battaglia: contrariamente a quanto si crede, la sua consistenza numerica è quasi sempre inferiore a quella degli avversari! Al nemico, tuttavia, sembrerà di aver di fronte una moltitudine infinita: com’è possibile? Il trucco c’è, anche se vederlo non è agevole: invece di raggrupparsi, i cavalieri mongoli, armati per lo più alla leggera68, formano reparti mobilissimi che sciamano da destra a sinistra, togliendo all’avversario qualsiasi punto di riferimento e saggiandone la capacità di reazione. Spesso l’esercito straniero, preso dal nervosismo, comincia a disunirsi. E’ a questo punto che entra in gioco un’arma dall’apparenza innocua: si tratta di enormi tamburi, trasportati ciascuno da quattro persone, il cui rullare sinistro sparge il terrore tra le file nemiche. Agilità, dardi penetranti e maneggevoli spade ricurve trasformano poi gli scontri in autentiche mattanze, da cui il “Sovrano oceanico” esce sempre vincitore.
Oltre ad essere imbattibile in campo aperto, Gengis Khan padroneggia anche perfettamente le tecniche di assedio, che ha appreso dai cinesi: più che la facilità con cui le città cadono, però, ad impressionare è l’efferatezza delle stragi commesse dai mongoli all’interno delle mura. Si tramanda di popolazioni sterminate fino all’ultima donna e bambino, con l’aggiunta addirittura di cani e gatti; in altre occasioni a venir risparmiati sono soltanto gli artigiani, chiamati a dare il loro contributo all’edificazione della capitale Karakorum.
E’ innegabile che simili condotte disumane facciano meritare in pieno, ai mongoli, la nomea di “barbari”: c’è tuttavia, in questa barbarie, qualcosa di calcolato, di attentamente studiato. Un episodio è in tal senso illuminante: appreso dell’esistenza di un potente impero confinante con i suoi domini, il Khwarezm69, Gengis Khan invia al sovrano di quel paese, Mohammed, un’ambasceria con ricchi doni, forse per metterlo alla prova. Mohammed fa la cosa sbagliata: incamera l’oro e uccide gli ambasciatori, offrendo così all’imperatore mongolo la possibilità di dire: “la guerra è stata vostra scelta!” e di intervenire con l’esercito.70 Anche in un’altra occasione Gengis Khan non manca di ammonire chi si appresta a resistergli: “la rovina si abbatterà su di voi!”
Distruzioni ed assassinii di massa andrebbero quindi intesi alla stregua di “azioni dimostrative”, volte a demoralizzare il nemico e a spingere gli altri popoli alla volontaria sottomissione71?
La tesi appare fondata, specie se si tiene a mente che, in qualche circostanza, i massacratori mongoli risparmiano la vita ad alcuni abitanti delle città conquistate, perché testimonino nel mondo la furia e l’invincibilità dei cavalieri asiatici: si potrebbe parlare in questi casi, se la definizione non apparisse troppo cinica, di “messaggi-psyops in carne ed ossa”, indirizzati alle genti non ancora assoggettate!
Avendoli finora descritti alla stregua di spietati (ed astuti) genocidi, può far specie che si citi un episodio in cui i mongoli vennero accolti… come liberatori! Eppure merita ricordarlo72: nel 1218, saputo della ribellione dei Qara Khitai, Gengis Khan inviò il suo miglior generale, Jebe, con un esercito di 20.000 uomini a riconquistare il territorio73. Una volta tanto non fu necessario combattere e vincere: la popolazione musulmana dell’impero del Qara Khitai insorse e all’arrivo dei mongoli si consegnò al loro capo. Da tempo era stanca delle persecuzioni del buddhismo, cui – dall’ascesa al trono del naimano Kuchlug, vecchio avversario di Temujin – si erano aggiunte quelle del cristianesimo. Per le popolazioni turcofone dover scegliere tra Gesù e Buddha era inconcepibile: essi ritenevano infatti uguali ed ugualmente rispettabili tutte le religioni. Perciò aprirono le porte a Gengis Khan, che dovette alla sua (non immeritata) fama di tolleranza in materia religiosa la riconquista di un regno senza spargimenti di sangue!
Mentre nelle sconfinate distese asiatiche si affermano quelli che saranno conosciuti come “imperi delle steppe”, l’Europa ritrova pian piano la strada dello sviluppo: contemporaneamente all’adozione di nuove tecniche nel campo produttivo, si assiste alla nascita dei primi abbozzi di stati nazionali, destinati ad erodere nel tempo l’autorità del Sacro Romano Impero di nazione germanica.
Tra tutti gli ordinamenti medievali, però, quello che mostra maggior forza e compattezza è la Chiesa di Roma: governa un territorio ristrettissimo, è vero, ma la sua influenza è di fatto illimitata, potendo contare, oltre che sulla protezione di Dio Onnipotente, anche e soprattutto sul monopolio della cultura. Non va infatti dimenticato che, in un mondo di illetterati74, gli unici a saper scrivere e a coltivare le arti liberali erano appunti i chierici, cui si deve, tra l’altro, la conservazione del grande patrimonio letterario greco e latino75.
Eppure, nei primi secoli del secondo millennio, anche questa saldissima organizzazione entra in crisi: corruzione ed ignoranza si diffondono come una pestilenza negli strati più bassi del clero, facendo da triste contraltare all’indegnità dei vertici, messa spietatamente alla berlina dai poeti del tempo. Si diffondono così movimenti ereticali, votati a riformare quando non addirittura ad abbattere la chiesa ormai corrotta; movimenti spesso animati da personalità eccezionali, il cui ascendente sulle popolazioni mette giustamente in allarme le gerarchie cattoliche. Lotte e persecuzioni si moltiplicano, ma qualcuno, all’interno della chiesa, si rende conto che per battere l’eresia non sono sufficienti le spade, pur generosamente fornite dai principi temporali.
Domenico di Guzmàn, il futuro S. Domenico, nasce in Spagna intorno al 1170, e in gioventù frequenta l’università di Valencia, segnalandosi per la capacità oratoria e la predisposizione alla disputa teologica. Nel 1206, recatosi in Francia al seguito del vescovo di Osma, ha modo di appurare di persona quanto sia seria la minaccia rappresentata, per il papato, dal diffondersi dell’eresia catara. Nella Provenza del XIII° secolo, i catari (detti anche albigesi, dal nome della città di Albi) convertivano le popolazioni alla propria causa grazie a predicatori itineranti che si guadagnavano il generale rispetto in ragione della loro cultura, la preparazione teologica e la rigorosa osservanza di quell’austerità che la tradizione attribuisce ai primi discepoli di Cristo. Domenico comprese che la Chiesa dell’epoca non era in grado competere con simili modelli di probità: i vescovi vivevano in un lusso satrapesco e i semplici preti erano a stento capaci di dir messa; neppure sui colti monaci si poteva far conto, visto che per tradizione essi rimanevano confinati nei loro monasteri.
Era necessario un nuovo approccio al problema, concluse l’acuto spagnolo: bisognava ritorcere contro gli aborriti eretici le medesime armi da questi utilizzate nella loro opera di proselitismo. L’intuizione divenne atto: Domenico di Guzmàn organizzò una rete ogni giorno più vasta di monaci itineranti che, viaggiando a piedi, scalzi, si spostavano di villaggio in villaggio, di città in città. Questi uomini, come i loro avversari, vivevano frugalmente, ed erano inoltre istruiti, capacissimi di impegnare i predicatori catari, o chiunque altro, in “tenzoni teologiche”. “Benchè il loro abbigliamento fosse poverissimo e i piedi nudi, avevano sempre dei libri con sé. Se nella storia della Chiesa, l’importanza attribuita al sapere non era certo una novità, si era sempre trattato di un interesse o fine a se stesso, o teso alla conservazione e al monopolio culturale; Domenico fu il primo a difendere l’erudizione come sussidio e come strumento di predicazione76”.
Grazie anche all’ausilio del braccio secolare, che egli peraltro mostrò di apprezzare77 , gli sforzi di Domenico e dei suoi “domenicani” (cani del signore, Domini canes nell’iconografia medievale) furono coronati dal successo, e il fondatore del nuovo Ordine si meritò, nell’opinione dei credenti, un seggio in Paradiso.
Al di là del giudizio storico e morale, non si può non riconoscere nell’operato del monaco spagnolo alcuni tratti caratterizzanti le moderne psyops: la predicazione dei domenicani, efficace alternarsi di suadenti parole e concrete minacce, contribuisce a bloccare l’espandersi dell’eresia, talvolta riconquista alla “vera fede” le pecorelle appena smarrite. A chi obbiettasse che, nel caso appena esaminato, è difficile individuare un gruppo obiettivo “straniero”, destinatario del messaggio, si può agevolmente rispondere che il peculiare campo di battaglia della chiesa è non già uno o più territori, bensì il mondo interiore dell’uomo; e che, per lo meno nella percezione medievale, non c’era nemico più insidioso e “straniero” dell’eretico, di colui cioè che si allontanava consapevolmente dalla Parola di Dio. Ma “stranieri” erano, o almeno rischiavano di diventarlo, anche quanti fossero esposti all’influenza dell’avversario: ed in effetti sono proprio gli “indecisi” l’obiettivo primario dell’operazione psicologica ideata da Domenico di Guzman.78
In margine a quanto scritto ci siano consentite due notazioni: la prima, che nessun’altra organizzazione ha mostrato, nel corso dei secoli, capacità pari a quella della Chiesa cattolica nell’utilizzare eventi, reali o inventati, e strumenti di propaganda per il raggiungimento dei propri fini, nobile o meno che fosse la loro natura79; la seconda, che provoca un certo sgomento il confronto tra la tolleranza in materia religiosa del “mostro” Gengis Khan e la “pia” sete di sangue (eretico) che anima le parole di Domenico di Guzmàn, uno dei santi più venerati della cristianità. Eppure erano contemponei.
8. Un regno al di là del mare

Vi abbiamo già fatto cenno nel capitolo precedente: appena con l’alba del nuovo millennio cominciano a germogliare, in Europa, i semi che produrranno i fenomeni dell’umanesimo e, più tardi, del rinascimento. Si inizia a guardare al passato con curiosità, molte antiche opere vengono lette e studiate. Tra queste, anche i trattati di arte bellica, vere e proprie fucine di informazioni per i militari di epoca tardo-medievale e moderna.
Strano a dirsi, colui che mise maggiormente a frutto la lezione appresa fu un uomo che mai ebbe l’occasione di guidare un esercito sui campi d’Europa; eppure - come egli stesso soleva affermare - donò all’imperatore Carlo V d’Asburgo più territori di quelli lasciatigli in eredità dagli avi. Stiamo parlando di Hernan Cortès, il più abile, geniale e determinato dei conquistadores spagnoli del nuovo mondo.
Quando sbarcò sulle spiagge del Messico, in cerca di fortuna e di pagani da convertire, l’ex studente di diritto a Salamanca aveva con sè soltanto cinquecento soldati ed un centinaio di marinai, e nessuna idea di che cosa lo aspettasse. In verità, la sua sorpresa ed anche i suoi timori dovettero essere grandi quando gli fu comunicato che l’intero paese era soggetto allo scettro di un potentissimo imperatore, che risiedeva con la sua corte in una grandiosa capitale tra i monti, a centinaia di miglia di distanza. Quell’imperatore, o uey tlatoani, era Moctezuma II, solo omonimo, per sua sfortuna, del più capace monarca azteco. Visto che nulla sfuggiva all’attenzione del sovrano, un’ambasceria mexica si presentò assai presto al cospetto dei nuovi arrivati, per porgere loro un diffidente benvenuto e - soprattutto - per studiarli. Ecco la descrizione del momento culminante dell’incontro, fatta da un grande storico80: “Mentre si svolgevano queste trattative, Cortès vide uno del seguito di Teihtlile81 intento a tracciare con un pennello un qualche schizzo, su tela, di uno spagnolo, col suo costume, l’armatura, e altri particolari interessanti, tutti riprodotti fedelmente. (...) a Cortès l’idea piacque e, conscio che l’effetto sarebbe stato ingigantito dall’inserimento nella composizione di un elemento dinamico, ordinò alla cavalleria di eseguire una dimostrazione sulla spiaggia che offriva buona presa agli zoccoli dei cavalli. I movimenti rapidi e fieri del drappello che si esibiva in esercitazioni militari, l’apparente facilità con la quale i cavalieri guidavano i loro cavalli, il bagliore delle armi e il suono acuto delle trombe, tutto contribuì a riempire di stupore gli spettatori; ma quando udirono il tuono del cannone e videro fuoco e fumo uscire da quei terribili ordigni, e il fischio delle palle che sfrecciavano nella foresta frantumando i rami degli alberi, gli Aztechi furono sopraffatti dalla costernazione che invase persino il loro capo.”
Quale che sia il giudizio per l’impresa che si accingeva a compiere, non si può non provare ammirazione per la presenza di spirito e l’acume dimostrati da Cortès nell’occasione: nonostante il nervosismo suo e dei soldati per l’arrivo inatteso dell’ambasceria, egli riesce a volgere la situazione a proprio vantaggio, e l’effetto prodotto sugli inviati di Moctezuma (e, attraverso i loro rapporti, su Moctezuma stesso) ne è la prova.
L’ “elemento dinamico” di cui scrive Prescott è il ponte sul Reno di Cortès: d’altronde egli conosceva benissimo, per averli letti, i Commentarii di Cesare82, e nelle sue esortazioni ai soldati non mancava mai di riferirsi al valore ed alla disciplina degli antichi romani.
Non fu, quella appena riportata, l’unica occasione in cui il castigliano usò l’arma psicologica contro gli aztechi, nel corso della campagna messicana: ad esempio, volendo accreditare l’opinione che gli invincibili spagnoli ed i loro destrieri fossero anche “immortali” diede disposizione ai suoi di seppellire rapidamente e senza cerimonie i caduti a battaglia appena conclusa; inoltre, avendo notato che gli indigeni erano particolarmente impressionati dall’alta statura e dai capelli biondo-rossi del luogotenente Alvarado, lasciava a lui volentieri la scena, salvo dover intervenire quando, in più circostanze, la brutalità e l’arroganza del sottoposto misero a repentaglio il successo della spedizione83. La profonda, ancorchè fanatica, religiosità di Cortès non gli impedì peraltro di trar profitto dalla diffusa credenza, tra i popoli dell’Anahuac, che gli spagnoli fossero venuti ad annunziare il ritorno del dio Quetzalcoatl, o fossero divinità essi stessi.
Tuttavia, i più brillanti risultati nel campo delle psyops furono colti da Cortès nei confronti non degli avversari aztechi, bensì dei tanti popoli indigeni tributari o nemici dell’impero di Moctezuma: contrariamente a quanto in genere si crede, la capitale Tenochtitlan non fu conquistata da poche centinaia di conquistadores, bensì da un esercito composito formato in prevalenza da guerrieri indi! Resosi conto che l’impero azteco si reggeva sull’oppressione e il terrore, lo spagnolo comprese la necessità di assicurarsi l’alleanza di altre, più deboli nazioni: si spiega così la sorprendente clemenza di cui fa mostra nei confronti di genti che inizialmente gli si oppongono, come i Tabascani84. Se si voleva battere gli aztechi, in ogni caso, bisognava avere al proprio fianco i più valorosi nemici di Moctezuma, vale a dire i tlaxcalani. Tlaxcala era una piccola repubblica (oligarchica) che, da lungo tempo, costituiva una vera spina nel fianco per l’imperatore messicano: nel tentativo di sottometterla, gli eserciti aztechi erano incappati in rovinose sconfitte. Cortès, intelligentemente, “decise di propiziarsi i tlaxcalani facendosi precedere da un ambasciatore. Scelse quattro dei Cempoalani più eminenti e inviò per mezzo loro un dono marziale - un berretto di stoffa scarlatta, una spada e un arco, armi che chiaramente suscitavano l’ammirazione generale degli indigeni. Accompagnò i doni con una lettera in cui (...) esprimeva la sua ammirazione per il valore dimostrato nella lunga resistenza contro gli Aztechi, di cui intendeva soggiogare l’orgoglioso impero. Non ci si poteva aspettare che questa lettera, redatta in puro castigliano, riuscisse chiara ai Tlaxcalani. Ma Cortès ne comunicò il contenuto agli ambasciatori. I misteriosi segni grafici avrebbero forse impressionato gli indigeni come manifestazione di un’intelligenza superiore (...)85”.
Non fu facile per Cortès far passare i fieri Tlaxcalani dalla sua parte: gli indigeni si rendevano conto che i nuovi arrivati erano ancor più pericolosi di Moctezuma, e la libertà della repubblica più che mai in pericolo. Guidati dall’abile Xicotencatl, si opposero con coraggio agli spagnoli: ma in successive battaglie in campo aperto furono decimati e sconfitti. Alla fine, il senato tlaxcalano si rassegnò ad accettare il patto di alleanza proposto da Cortès: uno dei capi si soffermò a lungo sulla liberalità mostrata dai conquistatori verso i prigionieri come ulteriore motivo per stringere un legame d’amicizia con uomini che sapevano essere amici oltre che nemici. La (calcolata) clemenza di Cortès aveva dato i risultati attesi: il combattivo esercito repubblicano passò agli ordini del condottiero, e si mise in marcia alla volta dell’odiata capitale azteca86.
Le facili vittorie spagnole, ottenute contro un popolo che sempre gli si era gagliardamente opposto, non mancarono di produrre una profonda impressione su Moctezuma: paralizzato dal terrore e dall’indecisione, egli non tentò neppure di ostacolare il cammino degli invasori. Tenochtitlan era già caduta prima che Cortès vi mettesse piede.
Più tardi solo il fanatismo dei conquistadores, unito alla loro spaventosa ingordigia, mise a repentaglio il successo dell’impresa; al di là di ciò, la capacità di Cortes di comprendere la psicologia di popoli così diversi, e di metterli, per le proprie finalità, gli uni contro gli altri; l’uso, sapientemente alternato, di blandizie e minacce, nonchè la sovrana abilità di manipolare le menti, servendosi in modo geniale degli strumenti a disposizione, fanno del piccolo hidalgo dell’Extremadura uno dei più brillanti fruitori di psyops che la storia moderna ricordi.

9. Il sole di Austerlitz

Nel secolo che precede lo scoppio della Rivoluzione Francese, il progressivo rafforzarsi degli ordinamenti statali e del controllo governativo sul territorio porta, quasi ovunque in Europa, al formarsi di potenti eserciti nazionali. Sorgono le accademie militari, per preparare alla guerra moderna i comandanti e gli ufficiali del futuro; fioriscono nuove specializzazioni e le conquiste scientifiche trovano pronta applicazione al campo bellico. L’arma psicologica riacquista l’importanza che già le era riconosciuta dagli antichi: condottieri leggendari, come Federico II di Prussia e George Washington, baseranno le loro fortune (anche) sulla capacità di confondere sistematicamente il nemico e di cattivarsi l’ammirazione, od il timore, dei contemporanei.
Uscì dall'Accademia militare anche un giovane ufficiale corso, che inframmezzava il suo cattivo francese con colorite imprecazioni in italiano, ed era destinato a divenire, di lì a poco, il più celebre ed osannato condottiero dell'età contemporanea. Si chiamava Napoleone Bonaparte e dovette la sua fortuna, prima ancora che alle doti eccezionali di statista e di militare, all'aver trascorso la giovinezza in un periodo di rivolgimenti imprevedibili, che passa sotto il nome di Rivoluzione Francese. Fosse nato vent'anni prima o più tardi, probabilmente la sua carriera non sarebbe mai iniziata o si sarebbe trascinata nell’ombra87; invece le straordinarie possibilità offerte dai tempi, abilmente colte, fecero di lui un Imperatore, un simbolo, un eroe leggendario; e, in ultima analisi, una figura romantica, che ha segnato l'immaginario collettivo dei popoli europei.88
La scintilla del genio balena all'improvviso a Tolone (1794), quando il giovanissimo ufficiale di artiglieria raggruppa i dispersi cannoni e, nello stupore generale, riesce, grazie ad un susseguirsi di tiri di prova ed immediate correzioni, a minacciare i vascelli inglesi che prendono il largo in tutta fretta; di qui al comando dell'armata d'Italia ed alla poltrona di primo console il passo è sorprendentemente breve. I ritratti giovanili di Napoleone ci rimandano immediatamente ad uno dei suoi modelli (l'altro è Giulio Cesare): Alessandro Magno, figura affascinante di cui il corso conosceva a menadito strategie ed imprese. Come lui Bonaparte è di bassa statura, magro e nervoso; ha gli occhi straordinariamente vivi e capelli lunghi fino alle spalle, che rimandano agli eroi omerici. L’accostamento non gli sarebbe affatto spiaciuto: Napoleone, attento studioso dell'antichità classica, nelle sculture e nei dipinti di età imperiale si farà sovente rappresentare come un Cesare romano.
Cesare e Alessandro, dunque: ma come fa, il piccolo corso, a trasformare un esercito di pezzenti, a corto persino di uniformi, nell'invincibile armata d'Italia; come riesce a soggiogare l'Europa sconfiggendo, una dietro l'altra, forze soverchianti e ben equipaggiate? Abbiamo già visto che l'artiglieria, nelle sue mani, assurge ad arma risolutiva; nè va sottovalutato l'impiego “a tutto campo” della cavalleria89: "di quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno", dice di lui A. Manzoni nella celebre ode “Il 5 maggio”. La rapidità di spostamento degli eserciti napoleonici sbalordiva i contemporanei. C'è poi un ulteriore elemento: Napoleone sa indubbiamente impressionare le menti, quelle dei suoi soldati al pari di quelle dei popoli stranieri e di chi gli ostruisce il passo. Conquista i francesi con il suo eroismo, che rifulge sul ponte di Arcole, lo sprezzo del pericolo90 e la prontezza nel riconoscere l'altrui valore: nell’esercito napoleonico ogni soldato portava nello zaino il bastone di maresciallo, si usava dire, proprio per indicare che qualsiasi uomo di umili origini, se intelligente e valoroso, poteva accedere ai massimi gradi dell’armata (Gioachino Murat e soprattutto Ney sono due chiari esempi in tal senso). Agli stranieri, nemici o meno che siano, si rivolge invece la propaganda napoleonica: prima di intraprendere qualsiasi campagna, Bonaparte studia, e non soltanto le carte topografiche, ma soprattutto la mentalità, la psicologia di popoli, circoli di potere e sovrani. Maneggia le tecniche di guerra psicologica come pochi prima e dopo di lui; ma soprattutto riesce a suscitare aspettative e speranze: riesce insomma a farsi amare. Non solo nei ceti più umili: il celebre filosofo Fichte vede nel corso un’impersonificazione delle forze della Storia, Beethoven gli dedica, in un primo tempo, la sinfonia ”Eroica”, Ugo Foscolo si arruola addirittura nell’armata! E che dire dei cavalleggeri polacchi che, dalla sponda occidentale del Niemen, si gettano nelle acque insidiose – il guado è poco più a monte, ma che importa loro, sono così ebbri di gioia sconsiderata! – e annegano a decine nel fiume, solo per avere l’onore di essere visti da lui? I condottieri venuti prima di lui avevano di mira i propri interessi dinastici, al limite quelli della Nazione: Napoleone invece ha in mente di creare una nuova Europa, non fa distinzione tra francesi, tedeschi, italiani e polacchi, purchè condividano il suo sogno! Nelle pagine dettate a Sant’Elena egli ne delinea malinconicamente i contorni, quando oramai è svanito nel vento: un continente unito e governato da un’unica legge, un mondo di sudditi, forse, ma anche di eguali, quando schiavitù, nazionalismi e divisioni saran stati spazzati via.
Libertè, egalitè, fraternitè.
I detrattori di Napoleone in genere lo accusano di essersi cinicamente servito degli ideali rivoluzionari come di un bandiera91, di aver ingannato, in sostanza, i popoli che egli affermava di voler liberare. Non possiamo ovviamente conoscere gli intendimenti più segreti del corso, ma il volerlo raffigurare a tutti i costi come un uomo meschino ed affamato di potere92, oltre a suscitare qualche dubbio sull’obiettività di certi storici, lascia insolute un’infinità di domande: come potè, un personaggio attento solo al proprio particulare, vincere decine di battaglie, cattivarsi il favore di intere popolazioni e, fra una campagna e l’altra, riformare la legislazione francese e creare una nuova classe di contadini93 e di funzionari? Com’è possibile che polacchi ed italiani, dopo oltre un decennio di presunti “inganni”, accorrano nel 1812 ad arruolarsi a migliaia nella Grande Armata destinata alla Russia? Un’efficacia opera di propaganda, se smentita dai fatti concreti, non basta di certo come spiegazione94; risposte più attendibili possono venir desunte da azioni e atteggiamenti tenuti da Napoleone nei confronti dei popoli con cui viene in contatto. Le campagne d’Italia, in particolare, offrono allo studioso numerosi spunti di riflessione.
Nel giugno 1796, dopo aver lasciato parte dell’esercito repubblicano ad assediare la fortezza (austriaca) di Mantova, l’allora generale Bonaparte raggiunge di gran carriera Milano. Gli sono giunte voci di saccheggi ed atti di violenza commessi dalle sue truppe: è necessario immediatamente ristabilire ordine e disciplina ferrea. Non intende passare per un capo di briganti od un oppressore di popoli: se ha giustificato per qualche giorno i saccheggi dei suoi soldati – l’armata è alla fame! – ora non è più disposto a tollerarli. I suoi proclami sono chiari: fucilazione immediata per chi ruba, disonore per i reparti che han preso parte a razzie, destituzione degli ufficiali coinvolti95. Soprattutto sono credibili: le condanne vengono eseguite, gli abitanti del nord Italia tirano un sospiro di sollievo; il piccolo corso inizia ovunque ad ispirare fiducia. D’ora in avanti la condotta delle truppe francesi sarà ammirevole; così come ammirevole, per non dire stupefacente, era parso ai milanesi il contegno del generale, al primo incontro. Il 15 maggio, data del suo trionfale ingresso in città, Napoleone è uno sconosciuto o quasi: si sa soltanto che, alla guida di un’armata di straccioni, ha sconfitto i piemontesi e, ciò che più conta, i temibili austriaci. Serpeggiano curiosità e timore; ma a Bonaparte basta pochissimo tempo per suscitare nei cittadini un entusiasmo sincero. Il generale francese si rivolge agli italiani nella loro lingua, dimostra di conoscere le vicende storiche della penisola dai tempi di Roma in poi. Cita Platone, Aristotele, l’amato Giulio Cesare; fa rivivere nelle sue parole l’esperienza straordinaria dei liberi Comuni medievali; esorta gli italiani a riappropriarsi della loro Storia, a risorgere come Nazione!
Propaganda spregiudicata, frasi di circostanza? In un’altra occasione il corso si rivolge così ai deputati del Congresso Cispadano: “La disgraziata Italia è da molto tempo cancellata dal novero delle potenze europee. Se gli italiani d’oggi sono degni di recuperare i loro diritti e di dare a se stessi un governo libero, si vedrà un giorno la loro patria figurare fra le grandi potenze della terra!” Napoleone esorta gli italiani all’esercizio delle armi, alla concordia interna, all’unione; dopo secoli di passiva rassegnazione, getta – possiamo dire - i semi del Risorgimento96.
Ci chiediamo di nuovo: fu mero calcolo politico a dettare al futuro imperatore simili parole? Secondo noi è più logico pensare che egli credesse realmente in quel che diceva, così come gli italiani credettero in lui, e gli assicurarono, negli anni a venire, un costante appoggio. Tirando le somme, il messaggio era quello giusto, gli strumenti appaiono adeguati, il gruppo obiettivo venne raggiunto e “conquistato”: fu una grande operazione di psyops e, molto probabilmente, qualcosa di più97.
La “conquista delle menti e dei cuori”, riuscita a Napoleone in mezza Europa, fallisce invece in Russia: un po’, forse, perché, da buon francese, egli considera i russi semibarbari, un po’ perché le condizioni sono obbiettivamente diverse. Nella tarda estate del 1812 l’armata imperiale, provata ma vittoriosa, entra in una Mosca abbandonata dai difensori. Con gran sorpresa di Bonaparte, nessun plenipotenziario gli si presenta a trattare la pace: i rappresentanti dell’autorità sono fuggiti tutti, i pochi cittadini rimasti si nascondono nelle case. Quel che è peggio, le attese riserve di viveri non ci sono affatto; e i soldati imperiali98 si abbandonano al saccheggio. Napoleone è giustamente preoccupato: teme l’odio e la resistenza dei russi, si rende conto dell’importanza di conquistarne il favore. Dà perciò ordine di riaprire le chiese al culto, istituisce la municipalità di Mosca e redige dei proclami che vorrebbero essere rassicuranti99: “Abitanti di Mosca! – esordisce in uno – Le vostre sventure sono crudeli, ma Sua Maestà l’Imperatore e Re vuol far cessare il corso delle medesime. Terribili esempi vi hanno insegnato in qual modo egli punisce la disobbedienza e il crimine. Severi provvedimenti sono stati presi per porre fine al disordine e riportare l’ordine pubblico. Una paterna amministrazione, da voi istessi eletta, costituirà la vostra municipalità, ovvero la procura cittadina. Essa avrà cura di voi, dei vostri bisogni, del vostro interesse. (…) La polizia urbana viene istituita in conformità al suo precedente ordinamento, e grazie a essa l’ordine va di già molto meglio. (…) Alcune chiese di varie confessioni sono aperte, e il divino uffizio si celebra in esse senza alcun impedimento. I vostri concittadini ritornano ogni giorno alle loro abitazioni, e sono stati impartiti ordini perché trovino colà il soccorso e la protezione che per le loro sventure si sono meritati. Sono questi i provvedimenti che il governo mette in atto perché l’ordine ritorni, e per alleviare la vostra situazione (…)”. In un altro proclama, rivolto ai rappresentanti dei ceti produttivi, sta scritto: “Voi, (…) artigiani e operai, che le sventure hanno costretti ad abbandonare la città, e voi, sparsi agricoltori, che un’infondata paura ancora trattiene nei campi, udite! (…) I vostri conterranei escono arditamente dai loro rifugi, perché vedono che li si rispetta. Qualunque violenza fatta a loro e alle loro proprietà, viene immediatamente punita. Sua Maestà (…) li rispetta e non annovera nessuno di voi tra i suoi nemici, all’infuori di quanti disubbidiranno ai suoi comandi. (…) Artigiani e laboriosi operai! Fate ritorno ai vostri mestieri: le case, le botteghe, le pattuglie della sorveglianza vi aspettano, e per il vostro lavoro riceverete la paga che vi è dovuta!”
Non senza una dose di tagliente ironia, Tolstòj loda l’operato dell’imperatore che ”faceva del pari tutto ciò che era in suo potere100“: alla fine, tuttavia, ogni suo sforzo di cattivarsi la simpatia dei russi si rivelerà vano. Quali le cause dell’insuccesso? Possono aver giocato un ruolo il profondo patriottismo dei russi, la loro fiducia nello czar; il fatto che “nei proclami di Napoleone a Mosca si avvertono tratti arcaici, goffi e pomposi, tipici del linguaggio burocratico”101 (laddove per raggiungere il gruppo obiettivo occorre adoperare il suo linguaggio!); in ultima analisi, però, la spiegazione più soddisfacente ci viene offerta da Tolstòj stesso: “Eppure, cosa strana, tutte queste disposizioni, premure e progetti che non erano affatto peggiori degli altri adottati in occasioni consimili, non sfiorarono neppure la sostanza della questione, ma, come le lancette d’un quadrante d’orologio staccato dal suo meccanismo, giravano arbitrariamente e senza scopo, senza ingranare nelle rotelle.102” L’operazione psicologica fallisce, in primo luogo, perché il messaggio veicolato non risulta credibile, appare avulso dalla (tragica) realtà di quei giorni. Risultato: la Russia si mantiene ostile a Napoleone.
Abbiamo finora visto esempi di psyops “di consolidamento”, dall’esito più o meno felice, condotte sul modello alessandrino nei confronti delle popolazioni sottomesse; ma Napoleone eccelle soprattutto nelle operazioni “strategiche”, dirette contro concentramenti di forze nemiche (e qui è più evidente l’influsso di Giulio Cesare). Esamineremo due consecutivi episodi103: nel primo (Ulm) Bonaparte riesce ad ottenere la resa di un’intera armata austriaca senza dover combattere; nel secondo (Austerlitz) l’imperatore si serve genialmente di psyops per invogliare gli austro-russi ad accettare una battaglia decisiva nelle condizioni a lui più favorevoli!
Nell’autunno del 1805 Napoleone si trova ad affrontare una grave minaccia da est: il 10 settembre gli austriaci sono entrati in Baviera, imponenti rinforzi russi marciano alla volta dell’Europa centrale. L’imperatore deve giocare d’anticipo, affrontare i nemici prima che si ricongiungano per assalire la Francia da più punti. Il tempo non è dalla sua parte, e Napoleone lo sa. Così concepisce una manovra ardita: decide di mettere fuori gioco l’armata austriaca attestata sul Danubio, 40.000 uomini al comando dell’arciduca Ferdinando e di Karl Mack, prima di ingaggiare lo scontro risolutivo con le restanti forze austriache ed i russi di Kutuzov. Se l’operazione è ben condotta, la sorpresa è sicura: gli austriaci sono certi che l’attacco francese si svilupperà attraverso la Foresta Nera, interessando al massimo 70.000 soldati, e che buona parte dell’esercito napoleonico sarà inviato in Italia per fronteggiare l’arciduca Carlo; credendosi al riparo, attendono con fiducia l’arrivo delle avanguardie russe. L’imperatore progetta invece di aggirare le truppe di Mack con i 210.000 uomini della Grande Armee in arrivo dalla Francia; ma come riuscire ad effettuare un tale spostamento nel più assoluto segreto? Napoleone ordina che nessuna informazione trapeli dalla stampa e dalle frontiere francesi; per velocizzare la marcia – condotta ad un ritmo impensabile per l’epoca - riduce al minimo i rifornimenti, confidando nelle risorse locali; si avvale infine dello straordinario apporto della Riserva di cavalleria agli ordini di Murat. Quest’ultima operò incessantemente con finti attacchi nella Foresta Nera, calamitando l’attenzione di Mack e Ferdinando e creando con la sua mobilità un’impenetrabile “cortina fumogena” davanti agli occhi degli austriaci, i quali per quindici giorni rimasero all’oscuro di quanto stava accadendo, cioè del fatto che la Grande Armee marciava direttamente su di loro: quando infine si avvidero di essere circondati da un esercito tanto superiore, con i russi ad oltre 150 chilometri di distanza, furono travolti dallo scoramento e non ebbero altra scelta che arrendersi104, senza quasi aver sparato un colpo105. E’ proprio il fattore rapidità, oltre all’abile dissimulazione dei propri intenti da parte di Napoleone, a rendere possibile la “beffa” di Ulm.
La vittoria incruenta in Baviera costituisce, per Napoleone, nient’altro che il preludio della progettata battaglia di annientamento ai danni dell’esercito alleato, che si svolgerà il 2 dicembre in Moravia, ad Austerlitz. Nel corso di una perlustrazione, il 24 novembre, il corso individua il terreno a lui più favorevole, una piana dominata da basse colline (le alture di Pratzen): si tratta ora di attirare il nemico in trappola, stimolandolo alla lotta. Come riuscire nell’intento? Napoleone sa quanto sia forte la brama di rivincita, soprattutto nei circoli militari austriaci, e sceglie l’esca giusta: finge di volersi ritirare per timore di essere accerchiato sulla destra e tagliato fuori da Vienna. Ostenta nervosismo ed insicurezza: chiede continui incontri con il nemico, per enfatizzare l’apparente debolezza; sotto gli occhi del conte russo Dolgorùkov ordina ai suoi soldati di abbandonare le alture di Pratzen, di muoversi in disordine, di dare insomma agli austro-russi l’impressione di uno esercito allo sbando. Nei giorni immediatamente precedenti la battaglia, l’ordine di Napoleone ai suoi soldati è il seguente: recitare il panico! La scena si svolge in un “teatro” all’aperto, davanti ad una collina in mano agli alleati; pur comprensibilmente disorientati, i soldati francesi si inchinano alla volontà del loro comandante, in cui nutrono piena fiducia.106 E fanno bene!
All’alba del 2 novembre le truppe alleate cominciano lentamente a discendere le colline di Pratzen: lo scopo è quello di aggirare l’ala destra francese, secondo il piano del generale Weirother, inutilmente avversato da Kutuzov. Le truppe avanzano difficoltosamente nella fitta oscurità, iniziano a sfilacciarsi. Napoleone non aspetta altro: alle prime ore del mattino irrompe con la massa delle sue forze sul centro ormai sguarnito degli alleati. Quando la nebbia si alza e compare, alto nel cielo, il “sole di Austerlitz”107, il vecchio maresciallo Kutuzov sarà l’unico ad accogliersi del terribile pericolo che incombe sulle sue truppe: Tolstòj, in pagine tra le più belle di “Guerra e Pace”, descrive i suoi inutili, disperati sforzi di impedire la disfatta, l’isolamento del fianco sinistro e la distruzione di quello destro. Anche grazie allo straordinario eroismo dei russi, poeticamente riassunto nel solitario assalto del principe Andrèj, la battaglia si trascinerà fino al tardo pomeriggio: da ultimo, il furioso cannoneggiamento, voluto da Napoleone, del lago ghiacciato di Satschan, attraverso il quale l’ala sinistra russa cerca invano di battere in ritirata, mette fine allo scontro prima del calar del sole.
Austerlitz è forse il più grande trionfo militare del corso, una battaglia pianificata e combattuta alla perfezione. Essa ci fornisce qualche indicazione concreta sul “perché” dell’inarrestabile ascesa di Napoleone, consente cioè di abbozzare una risposta alla domanda iniziale.
Prima di combattere, Bonaparte conosce perfettamente il modus operandi e la consistenza di chi ha di fronte; sa individuare, al primo sguardo, i punti deboli dell’avversario. Non stupisce perciò che le sue psyops siano generalmente efficaci: egli vince grazie all’intelligenza, alla fantasia, disdegnando il ricorso alla forza bruta. Ulm ed Austerlitz ci insegnano anche altro, però: nella prima circostanza assume rilievo l’operato della cavalleria, impiegata in maniera innovativa e “poco ortodossa”108; in Moravia, il colpo decisivo viene sferrato dall’artiglieria che, come a Tolone, viene raggruppata in modo da recare il maggior danno possibile al nemico. Merita osservare che, come i più illustri tra i suoi predecessori109, anche Napoleone non introduce armi od equipaggiamenti nuovi (eccezion fatta per le cotte dei corazzieri): si serve invece in modo assolutamente rivoluzionario di quelli già esistenti, combinandone l’efficacia distruttiva ed adattandoli alle circostanze, in modo che l’obiettivo prefisso sia comunque raggiunto. Psyops è dunque solo un componente della panoplia che Bonaparte porta ovunque con sé, nelle campagne.
Rileggiamo i paragrafi che precedono: ciò che in fondo accomuna i condottieri di maggior talento, da Alessandro ad Annibale, da Gengis Khan a Napoleone, è la capacità di tradurre immediatamente il progetto in azione, unita all’elemento di imprevedibilità che deriva dal rifiuto di seguire schemi che altri hanno tracciato. Il corso vince facilmente le prime battaglie perché i suoi avversari mancano di elasticità, seguono acriticamente le nozioni apprese nelle scuole di guerra: sono generali “da tavolino”, che innamorati dell’idea, il “piano” così come concepito in astratto, non si curano della realtà, cioè delle condizioni del terreno né di altre possibili variabili. Un esempio illuminante viene dal contegno del generale Weirother, figura secondaria che prende vita nei periodi dedicatigli da Tolstòj: “Weirother rispondeva a tutte le obiezioni110 con un fermo e sprezzante sorriso, che evidentemente si era preparato in precedenza per qualsiasi obiezione, indipendentemente da ciò che gli avrebbero detto. “Se avesse potuto attaccarci, l’avrebbe fatto oggi” disse. “Dunque voi pensate che non abbia più forze?” disse Langeron. “E’ molto se ha quarantamila soldati.” Rispose Weirother, con il sorriso del dottore a cui un ciarlatano vuol suggerire una terapia. (…) Weirother sogghignò ancora, con quel suo sorriso che diceva quanto fosse buffo e strano per lui dover affrontare le obiezioni dei generali russi, e dover dimostrare ciò di cui non soltanto lui era perfettamente convinto, ma di cui lui aveva già convinto anche i sovrani imperatori.”111
E’ chiaro che simili avversari, prevedibili perché vincolati, anche da un punto di vista psicologico, a concezioni strategiche sorpassate – che pure, al loro apparire, si erano imposte come rivoluzionarie! – non hanno alcuna possibilità di mettere in crisi Napoleone. Tuttavia, se la creatività appartiene al genio, l’uomo intelligente impara. Per spiegare il successivo declino del grande corso, culminato nella disfatta di Waterloo, si possono addurre numerosi fattori, che vanno dal logorio fisico all’eccessiva ambizione, dal dominio inglese sui mari al progressivo assottigliarsi delle truppe migliori, provate da troppe campagne; ma non va dimenticato che, negli ultimi anni, i francesi si troveranno di fronte dei generali, come Wellington, Radetzky, lo stesso Kutuzov, che hanno appreso a far la guerra in modo non convenzionale, cioè “alla Napoleone”! Né quello di Bonaparte è un caso isolato: Scipione, il vincitore di Zama, può essere considerato un “alunno” di Annibale, così come Giulio Cesare, opposto all’ex legato Labieno passato ai pompeiani, affermerà, dopo il sofferto successo di Munda, di aver combattuto non per la vittoria, ma per la vita!112
In campo militare le innovazioni tattiche o strategiche, solitamente introdotte da condottieri geniali, si pongono in rapporto di antitesi-tesi con la situazione (e la dottrina) esistente, che ne viene stravolta; per arrivare ad una sintesi, sempre temporanea, è necessario che le novità vengano assimilate e fatte proprie dai tecnici di maggior talento. Il rischio, o per meglio dire l’esito quasi inevitabile, è che l’idea rivoluzionaria divenga a sua volta dogma113: l’unico antidoto a questa tendenza alla “sclerotizzazione” consiste, ove possibile, nel formare giovani ufficiali che siano non meri esecutori, bensì interpreti di una determinata dottrina; ufficiali con un solido patrimonio di conoscenze tecniche ma duttili e creativi, capaci di scelte autonome. Un simile discorso, valido per l’artigliere come per l’aviatore, lo è a maggior ragione per il “guerriero psicologico”.

10. Il volo del poeta

Un’analisi, anche affrettata, delle tecniche usate dai più capaci generali dell’età contemporanea richiederebbe decine se non centinaia di pagine: perciò abbiamo deciso di soffermarci su di un episodio recente, ma caratterizzato da tali elementi di novità, per l’epoca, da poter essere considerato il prototipo delle operazioni psicologiche oggidì condotte. L’anno è il 1918; i protagonisti della vicenda sono, accanto ad una singolare figura di poeta-soldato, l’aeroplano ed il volantino, che fanno così la loro comparsa nella storia secolare delle psyops.
La Grande Guerra, che aveva già fatto milioni di vittime, durava ormai da quattro anni: viste le difficoltà - logistiche - in cui si dibattevano i tedeschi, sembrava però, nell’estate 1918, che il trionfo dell’Intesa (Inghilterra, Francia, Stati Uniti ed Italia, oltre ad alleati minori) fosse imminente. L’imperialregio esercito austroungarico, tuttavia, occupava ancora larghe porzioni del nordest italiano e, nonostante la vittoriosa battaglia d’arresto combattuta dagli italiani sul Piave, ricacciarlo indietro non sarebbe stata impresa facile. Gabriele D’Annunzio, l’ardimentoso poeta che già aveva partecipato alla (fallimentare) “beffa di Buccari” sulle unità sottili dell’amico Costanzo Ciano ed aveva sorvolato, a fini dimostrativi, Lubiana e Trieste, sognava un’impresa che gli garantisse gloria imperitura ed affrettasse la conclusione del conflitto. Sognava di volare su Vienna, la capitale nemica. Sottopose il suo rischioso progetto al Comando Supremo che, considerati i benefici per il Paese in caso di riuscita, diede il suo benestare, facendo modificare uno degli apparecchi destinati al volo perché potesse accogliere il poeta-soldato coi suoi messaggi da lanciare sui viennesi. Non bombe, manifesti dunque: eppure avrebbero fatto più male di una pioggia di fuoco!
All’alba del 9 agosto gli otto monoplani della squadriglia “Serenissima” si alzarono in volo dall’aeroporto posto nelle vicinanze di Padova, destinazione l’Austria inferiore. Ogni apparecchio portava un carico di venti chili di carta stampata: erano “l’arme lunga della gesta inerme”. Senza essere intercettati risalirono la valle dell’Isonzo, sorvolarono Tolmino e i monti boscosi della Carinzia. Nessun aereo nemico ostacolò il loro volo, neppure quando lontana, all’orizzonte, apparve la distesa di case e palazzi ch’era Vienna. Raccontano i testimoni che intorno alle nove e venti minuti la squadriglia ridotta a sette apparecchi - quello del tenente Sarti era stato costretto da avarie ad atterrare - prese a volteggiare nel cielo della capitale, sconcertando e meravigliando la folla immensa che, alla notizia dell’apparizione degli aerei nemici, si era riversata nelle piazze e nelle strade. L’aria tersa e luminosa, l’inazione dei comandi austriaci favorivano i disegni del poeta: a un tratto, sui viennesi allibiti e affascinati, cominciarono a piovere a decine di migliaia i volantini. Al “goffo e intraducibile messaggio di D’Annunzio stampato in 50.000 copie”114 il Comando aveva voluto abbinare un eloquente invito alla resa scritto da Ugo Ojetti, tradotto in tedesco e stampato in 350.000 copie(!), che così recitava: “Viennesi! imparate a conoscere gli italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà. Noi non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne. Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico delle libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d’odio e d’illusioni. Viennesi! Voi avete fama d’essere intelligenti. Ma perché vi siete messa l’uniforme prussiana? Ormai, lo vedete, tutto il mondo si è volto contro di voi. Volete continuare la guerra? Continuatela. E’ il vostro suicidio. Che sperate? La vittoria decisiva promessavi dai generali prussiani? La loro vittoria è come il pane dell’Ucraina: si muore aspettandolo. Popolo di Vienna, pensa ai tuoi casi. Svegliati! Viva la libertà! Viva l’Italia! Viva l’Intesa!”
Sganciato il loro carico, gli aviatori italiani tornarono sani e salvi alla loro base lontana. L’effetto prodotto da un’impresa giudicata impossibile fu incalcolabile: i giornali francesi, inglesi, americani e persino tedeschi la portarono alle stelle115.
Com’è stato fatto presente nel primo capitolo, è impossibile determinare con scientifica certezza l’influenza di un’operazione psicologica (riuscita) sugli eventi successivi: ma non è assurdo sostenere che l’azione dannunziana, infliggendo un colpo terribile al morale dell’avversario, abbia avuto ripercussioni tali, sui popoli della monarchia, da agevolare il disfacimento dell’impero e, quindi, la sconfitta austriaca. Vienna è indifesa, l’Austria-Ungheria è condannata, ci si rese conto improvvisamente negli angoli più sperduti dei territori soggetti agli Asburgo, tra popolazioni anelanti all’indipendenza. Scrisse un giornale austriaco a larghissima diffusione, l’Arbeiter Zeitung: “Dove sono i nostri D’Annunzio? D’Annunzio, che noi ritenevamo un uomo gonfio di presunzione, l’oratore pagato per la propaganda di guerra grande stile, ha dimostrato di essere un uomo all’altezza del compito e un bravissimo ufficiale aviatore. Il difficile e faticoso volo da lui eseguito, nella sua non più giovane età, dimostra a sufficienza il valore del Poeta italiano che a noi certo non piace dipingere come un commediante. E i nostri D’Annunzio, dove sono? Anche tra noi si contano in gran numero quelli che allo scoppiar della guerra declamarono enfatiche poesie. Però nessuno di loro ha il coraggio di fare l’aviatore!”
Gabriele D’Annunzio non poteva desiderare premio maggior di questo: la lode sincera del nemico, che suonava quasi come un’ammissione di sconfitta. Entrambi gli scopi che egli si proponeva alla vigilia erano stati raggiunti.
Se il successo dell’operazione condotta dal poeta-soldato è innegabile vediamo di metterne in evidenza i motivi, alla luce delle regole di psyops esposte nel capitolo introduttivo. Nella circostanza, è del tutto chiaro che tanto il messaggio quanto il mezzo scelto per trasmetterlo (mezzo che, a sua volta, è anche messaggio!) rispondessero perfettamente alle esigenze degli italiani. Il testo di Ojetti, che faceva leva, tra l’altro, sull’antica diffidenza degli austriaci nei confronti dei vicini tedeschi (ed in particolare dei Preussen, i bellicosi prussiani), suggeriva tre cose: che la guerra era irrimediabilmente perduta per gli imperi centrali, ad onta delle poco convinte rassicurazioni germaniche; che il perdurare del conflitto avrebbe reso ancora più drammatica la penuria di generi alimentari che già affliggeva la cittadinanza viennese ed i popoli della monarchia (lo spettro della fame!); che i tanto disprezzati italiani, infine, erano in grado di compiere azioni clamorose, e si accreditavano come un nemico potente, ma cavalleresco, cui non poteva sfuggire la vittoria finale.
L’analisi del “carattere nazionale”, dei timori e delle passioni del gruppo obiettivo era stata effettuata in modo eccellente. Ma ciò che rese il messaggio così efficace fu lo strumento usato: l’aeronautica muoveva allora i suoi primi passi, e il volo di una squadriglia di aerei per centinaia di chilometri in territorio nemico aveva il sapore dell’impresa. Era una dimostrazione di forza lampante, che suffragava e rendeva credibile il testo dei volantini, ed impressionò vivamente i viennesi. L’Italia è il futuro, l’impero transnazionale appartiene al passato: ecco quello che, confusamente, percepì la folla che osservava il cielo.
Giova da ultimo sottolineare che quest’ardita operazione di psyops, che presenta tutti i caratteri delle più riuscite azioni odierne, fu soltanto avallata, non progettata dal Comando Supremo: essa è dovuta al genio di D’Annunzio. Purtroppo, come spesso accade, furono altre nazioni a mettere a frutto la lezione prontamente appresa, facendo della guerra psicologica quasi una scienza, mentre gli italiani, iniziatori anche in questo campo per ispirazione del singolo, rimasero indietro.

11. Veritas se ipsa defendet?

Perché le guerre scoppiano?
Per volontà degli dei, rispondevano gli antichi; per ambizione, e desiderio di gloria di singoli uomini, secondo gli storici dell’età romantica116. Oggi, più convincentemente, si ritiene che alla base di ogni conflitto e sommovimento vi sia un complesso di ragioni politiche, sociali, ideologiche117; ma soprattutto economiche. In sostanza, si fa la guerra per estendere la propria sfera di influenza, per impadronirsi di nuovi mercati; talvolta, per acquisire o consolidare il consenso popolare all’interno.
Chi decide di prendere le armi è sempre l’elite (che nella società contemporanea coincide spesso con i grandi potentati economici, di cui il vertice politico è “portavoce”), ma ad impugnarle sul campo di battaglia, a combattere e morire a migliaia sono chiamati i comuni cittadini. E’ sicuramente possibile costringere un uomo ad indossare l’uniforme, abbandonando la casa e la famiglia; ma è assai più produttivo indurlo ad imbracciare le armi volontariamente, per una casa che egli consideri giusta.
Quello di “guerra giusta” (o “santa”) non è affatto un concetto nuovo, di matrice novecentesca; ad esso i governi fanno ricorso da migliaia di anni, perlomeno dall’epoca di Sargon di Akkad.
Oggi tuttavia, grazie ai moderni mezzi di informazione, instillare nelle moltitudini l’idea di una causa per cui valga la pena lottare è particolarmente semplice; ma la distorsione della realtà, finalizzata a demonizzare il futuro nemico, ha bisogno di fatti concreti cui appoggiarsi: vale a dire, di un “casus belli”.
Fu così per il celebre attentato di Sarajevo, che “giustificò” l’attacco – già pianificato – dell’Austria-Ungheria alla Serbia118; fu così, almeno in apparenza, per la tragica vicenda del piroscafo Lusitania.
I libri di Storia narrano che il 7 maggio 1915, al largo di Kindsale (Irlanda) il transatlantico inglese Lusitania fu silurato ed affondato dal sommergibile tedesco U 20 del comandante Schwieger. Sulla nave, partita da New York alla volta dell’Inghilterra, si trovavano quasi 2000 persone, tra passeggeri ed equipaggio: i morti furono 1198119, 124 dei quali erano cittadini statunitensi. L’episodio suscitò una fortissima indignazione ovunque, ma specialmente in America: una violenta nota di protesta del Presidente Wilson, unita a considerazioni di natura politica spinsero il Kaiser Guglielmo II, contro il parere degli esperti, a porre restrizioni alla guerra dei sommergibili120.
Questa decisione – primo effetto dell’affondamento della grande nave – non arrecò significativi benefici alla causa tedesca: una martellante campagna stampa121 tenne vivo (e contribuì grandemente a creare) lo spirito di rivalsa dell’opinione pubblica americana; spontanee o meno che fossero, si susseguivano quotidianamente negli States vibranti manifestazioni antigermaniche. L’ex Presidente Theodore Roosevelt, conosciuto come filotedesco, chiedeva adesso a gran voce l’entrata in guerra contro l’impero germanico: alle sue dichiarazioni venne dato ampio risalto dai maggiori quotidiani.
L’incitamento all’odio diede i frutti previsti122: quando, nell’aprile 1917, gli Stati Uniti entrarono finalmente in guerra a fianco dell’Intesa, centinaia di migliaia di volontari corsero ad imbarcarsi per l’Europa, decisi a liberarla una volta per tutte dalla minaccia di “unni e vandali” (secondo la riportata definizione del Tribune). Com’è noto, l’intervento americano – anche grazie al cospicuo invio di armi e materiali, sfornati a profusione dall’industria – decise le sorti del primo conflitto mondiale.
I generosi combattenti d’oltreoceano sentivano di essere dalla parte giusta; c’erano alcuni aspetti della vicenda del Lusitania, però, che alla maggior parte di essi erano del tutto ignoti. In primo luogo, essi non sapevano – o non ricordavano, perché dopo l’affondamento del transatlantico i giornali USA si erano ben guardati dal riprendere la notizia – che in data 22 aprile 1915 era apparsa, sui 50 principali quotidiani statunitensi, una nota diramata dall’ambasciata tedesca a Washington, che avvertiva i “viaggiatori oceanici” dei rischi connessi alla traversata, stante il fatto che “la zona di guerra include le acque adiacenti alle isole britanniche; che, in conformità all’annuncio formale dato dall’Imperiale Governo Germanico, i vascelli battenti bandiera britannica o di uno dei Paesi suoi alleati possono essere distrutti in quelle acque e che i passeggeri che navighino in zona di guerra su navi della Gran Bretagna o dei suoi alleati lo fanno a proprio rischio.123
Il 30 aprile il capitano del Lusitania, Turner, volle rassicurare i viaggiatori: nelle acque dell’Irlanda sudoccidentale era in attesa l’incrociatore britannico Juno, che avrebbe scortato il piroscafo fino alla destinazione finale, Liverpool. Non c’era da preoccuparsi, dunque; inoltre, non era forse il Lusitania una nave passeggeri, insuscettibile di impiego bellico? Così generalmente si credeva: sta di fatto che quasi nessuno rinunciò alla traversata.
Ciò che le future vittime non potevano immaginare era che, a far data dal 17 settembre 1914, il Lusitania risultava iscritto come “armed merchant cruise” - vale a dire “incrociatore armato di origine mercantile” - nel registro ufficiale della flotta britannica124; e che inoltre, come è stato ampiamente dimostrato in seguito125, la nave trasportava materiale bellico e munizioni destinati alle forze armate inglesi.
In sostanza, secondo il diritto di guerra, il Lusitania poteva essere legittimamente considerato dai tedeschi una “preda bellica”126; e così fu.
Ma c’è dell’altro: quel tragico 7 di maggio il capitano Turner riceve l’ordine di dirigere su Queenstown, anziché su Liverpool. La nuova rotta implica necessariamente un incontro ravvicinato con il sommergibile tedesco U 20; e all’Ammiragliato britannico lo sanno benissimo, visto che la posizione dell’unità nemica è nota!
Sono le prime ore del pomeriggio quando il Lusitania viene avvistato dall’equipaggio tedesco: naviga a zig-zag, senza scorta, e costituisce un facile bersaglio.127 Il sommergibile si prepara all’attacco, e il capitano Turner non tenta alcuna manovra evasiva: un siluro, lanciato dalla distanza di 650 metri, provoca una prima esplosione, cui fa seguito, come ebbe successivamente a dichiarare il comandante tedesco Schwieger, “un’esplosione inusitatamente disastrosa”, che squassa il transatlantico e ne provoca l’affondamento nel giro di pochi minuti.128
Era saltato in aria il deposito munizioni.
Come si spiega l’ordine pervenuto al capitano Turner, e la condotta discutibile di quest’ultimo? La risposta sta in questo scambio di battute (febbraio 1915) tra il Ministro degli Esteri britannico Grey ed esponenti del governo americano: “cosa farà l’America, se i tedeschi dovessero affondare una nave passeggeri con turisti americani a bordo?” – chiese il primo. “Questo ci porterebbe alla guerra”, fu la decisa replica.
Di fatto, “il Lusitania viene diretto dall’Ammiragliato britannico direttamente dinanzi ai tubi di lancio dell’U boot tedesco, in modo da provocare una reazione tale da coinvolgere l’America nella guerra.”129 Era il casus belli ideale, studiato e progettato a tavolino dai massimi vertici anglo-americani130: a questi ultimi, e non ai militari tedeschi, va pertanto addossata la responsabilità della morte atroce di oltre un migliaio di civili inermi!
D’altronde, se è immediatamente chiaro l’interesse inglese ad un allargamento del conflitto, anche il governo e l’alta finanza americana avevano buoni motivi per prendervi parte: gli Stati Uniti avevano concesso ingenti prestiti a tutte le potenze dell’Intesa (oltre a rifornirle di armi), e in caso di sconfitta di quest’ultima i debiti non sarebbero stati onorati; inoltre, dopo la rinuncia alla “dottrina Monroe”, coincisa con la sottrazione agli spagnoli di Cuba e delle Filippine, gli americani erano ben decisi a ritagliarsi un ruolo da protagonisti sulla scena politica europea, senza contare che un’Europa uscita provata dalla guerra poteva rappresentare un mercato appetibilissimo per i prodotti d’oltreoceano.
Ragioni economiche e geopolitiche, dunque, alle radici di una “guerra giusta”; ma al di là dei risvolti etici, il tragico caso del Lusitania interessa lo studioso di psyops sotto un profilo specifico. E’ noto che già nell’agosto 1914 i britannici avevano fondato il “War propaganda bureau”, l’ufficio propaganda di guerra, che costituì un modello anche per gli americani. Fin da subito, le operazioni condotte dal Bureau ebbero un unico scopo, assolutamente innovativo: la demonizzazione del nemico, agli occhi dell’opinione pubblica interna ed internazionale. Chi non rammenta le raccapriccianti notizie relative a stupri di massa e mutilazioni di bambini131 nel Belgio occupato dai tedeschi? Si trattava di assolute falsità, ma sul momento vennero credute e, per così dire, “prepararono il terreno” in cui avrebbe attecchito la grande menzogna del Lusitania. Solo dei diavoli, delle creature disumane avrebbero potuto macchiarsi di un tale delitto!
Grazie ad una spregiudicata opera di propaganda (il concetto di psyops non era stato ancora definito dagli esperti) e ad alcuni eventi “provvidenziali”, una comune guerra di matrice economica divenne una crociata contro “unni e vandali”: e detta impostazione giustificò agli occhi del mondo, a conflitto concluso, l’annichilimento e l’umiliazione delle potenze sconfitte. Agitando la bandiera della libertà e della democrazia132, i Paesi vincitori imposero la loro tutela alle altre nazioni.
Si può anche osservare che la situazione e gli avvenimenti appena descritti presentano una sinistra analogia con quanto sta attualmente accadendo; non è questa la sede, tuttavia, per esprimere dubbi e congetture prive, al momento, di qualsiasi riscontro concreto. E’ probabile che, com’è stato per il Lusitania, occorreranno decenni per individuare, sotto una patina di menzogne, le tessere utili a ricostruire la storia di questi nostri tempi.

12. Guerra psicologica e strategia del terrore

Se di impiego della guerra psicologica si può parlare fin dai tempi più remoti, è tuttavia opinione comune, l’abbiamo visto, che solo con la seconda guerra mondiale psyops entri nell’età adulta. Gli studiosi evidenziano, rispetto al passato, un’intensificazione delle operazioni psicologiche a fini bellici, e un loro uso su larga scala che non ha – o non avrebbe – precedenti: se in parte la convinzione è influenzata dal dato che la documentazione relativa all’ultimo secolo è più abbondante e facilmente consultabile rispetto, per esempio, alle iscrizioni egiziane od assire, il rapido progresso del novecento pone le premesse per un effettivo perfezionamento delle tecniche di psywar.
Più che l’affermarsi delle scienze psico-sociologiche, a incidere sulla diffusione di psyops è lo straordinario sviluppo fatto segnare dai mezzi di comunicazione, che per la prima volta nella Storia diventano “di massa”. La radio prima, cinema e televisione poi sono in grado di raggiungere chiunque, anche chi vive ai margini della società e non legge i giornali: nati per la trasmissione di notizie e l’intrattenimento, i nuovi strumenti si rivelano, nelle mani di spregiudicati manipolatori alla Goebbels, impareggiabili veicoli di propaganda133. Inoltre tecnologie così radicalmente nuove e “meravigliose” suscitano nelle moltitudini quasi una sorta di religioso rispetto – soprattutto nei periodi appena successivi alla loro introduzione – e contribuiscono verisimilmente all’efficacia dei messaggi veicolati (rendendo più agevole condurre operazioni psicologiche).
Non sorprende che, già nel periodo precedente lo scoppio della guerra, le dittature facciano largo ricorso a psyops per sostenere all’esterno le proprie pretese territoriali: per acquisire il pieno controllo dell’opinione pubblica nazionale, le elites nazista e bolscevica – ed in misura minore quella dell’Italia fascista – mettono a punto strategie di propaganda alquanto raffinate che, con gli opportuni accorgimenti, possono essere adattate a situazioni sempre nuove e diverse.134
Estate 1938: dopo l’annessione incruenta della Renania, due anni prima, e l’Anschluss imposto all’Austria, la Germania di Hitler fa di nuovo paura. La vittima designata dell’espansionismo tedesco è ora la Cecoslovacchia, stato multietnico nato dalla dissoluzione dell’impero asburgico. Neppure questa volta manca una scusa per l’aggressione: in territorio ceco, nella regione montagnosa dei Sudeti, vive una forta minoranza di lingua tedesca, che lamenta discriminazioni da parte del governo di Praga. La tensione tra i due Paesi arriva presto all’acme: i cecoslovacchi si oppongono fieramente alle pretese tedesche, non appaiono disposti a piegarsi. L’Europa delle grandi potenze trema al pensiero che la crisi dei Sudeti possa innescare una reazione a catena e, forse, una guerra mondiale. Come scongiurare un rischio simile, visto anche che le opinioni pubbliche di Francia e Inghilterra vogliono la pace, e i due Paesi non sono preparati ad un conflitto? La Germania è già fortissima, si ragiona, il suo esercito smanioso di combattere; ma sul serio Hitler è un guerrafondaio, come lo dipinge la sinistra europea? In fondo sta solo cercando di riportare la Germania ai suoi confini naturali: venendo incontro alle sue richieste, non del tutto infondate, sarà forse possibile disinnescare la carica di aggressività del nazismo. Certo, per salvare la pace occorrerà abbandonare la piccola Cecoslovacchia al suo destino: ma è un prezzo equo, secondo Chamberlain e Daladier.
Si arriva così alla vergognosa conferenza di Monaco in cui, con l’autorevole regia di Mussolini “salvatore della pace”, tutte le pretese di Hitler vengono soddisfatte in nome di una miope Realpolitik; e mentre il loro Paese viene smembrato, i delegati cecoslovacchi sono relegati in anticamera.135
Anche alla luce degli avvenimenti immediatamente successivi, viene da chiedersi: c’erano alternative alla resa di Monaco? Davvero il nazismo non poteva essere fermato, nel 1938 o, addirittura, nel 1936 (anno dell’occupazione della Renania)? Effettivamente il riarmo tedesco era in atto, e lo spettacolo delle Waffen SS in parata suscitava impressione in tutto il continente: ma tutta questa potenza era reale, o solo mediaticamente simulata? Una risposta inequivoca ci viene dal generale Keitel, capo dell’Alto Comando della Wehrmacht (OKW), nella sua deposizione al processo di Norimberga: “Fummo quanto mai lieti che non si giungesse a operazioni militari perché… avevamo sempre avuto la convinzione che i nostri mezzi per attaccare le fortificazioni di frontiera della Cecoslovacchia erano insufficienti. Dal punto di vista puramente militare ci mancavano i mezzi necessari per un attacco che implicava lo sfondamento delle fortificazioni di frontiera.”136 Eccesso di pessimismo? Forse, ma condiviso addirittura da Adolf Hitler che, dopo aver ispezionato la linea delle fortificazioni ceche, ammise con Carl Burckhardt, alto commissario per Danzica della Società delle Nazioni: “Quando, dopo Monaco, fummo in grado di esaminare dall’interno la forza militare della Cecoslovacchia, ciò che constatammo ci turbo non poco; avevamo corso un serio rischio. Il piano preparato dai generali cechi era formidabile.”137
La conclusione è sorprendente: la sottovalutata Cecoslovacchia avrebbe potuto battere Hitler! Quello del Fuehrer era dunque un bluff, e neppure il primo: se vi fosse stato un minimo di opposizione, l’invasione della Renania, condotta da poche truppe “da parata”, e l’occupazione dell’Austria – con le forze tedesche che rischiarono di essere bloccate prima del confine… dalla mancanza di carburante! – si sarebbero risolte in un fallimento, indubbiamente esiziale per la sopravvivenza stessa del nazismo.
Tuttavia l’Europa si lasciò intimorire e sedurre dalla propaganda di Goebbels: intravvide nelle sfilate dei biondi guerrieri nordici una forza che ancora non c’era, e permise ad Hitler di prepararsi ad un conflitto che avrebbe mutato il corso della storia. Può darsi che il Fuehrer abbia sottovalutato l’esercito cecoslovacco; ma certo la vile reazione anglo-francese era da lui ampiamente prevista: se non altro perché, per propiziarla, aveva impiegato tutti i mezzi propagandistici a sua disposizione, dal cinema alle olimpiadi, dalle parate alla diplomazia pubblica138. Il capolavoro di Hitler, vero maestro dell’azzardo e di psyops, era però ancora di là da venire: nel triste autunno del ’39, mentre la Wehrmacht schiacciava la Polonia con i suoi carri veloci, bastò un velo di truppe tedesche sul confine occidentale per mantenere nell’inattività l’esercito francese. L’orco tedesco aveva appreso che mostrare gli artigli era più produttivo che usarli; in seguito, però, sarebbe andato incontro al suo destino nelle sconfinate pianure della Russia.
All’alba degli anni ’40, l’Unione Sovietica era un universo sconosciuto. La rivoluzione di Lenin aveva liberato i russi da un’oppressione secolare; successivamente il gerorgiano Stalin aveva instaurato una dittatura feroce, ma tutt’altro che sorda alle esigenze della modernizzazione. Nel quarto decennio del ‘900 l’esercito sovietico era di gran lunga il più potente e meglio armato del mondo, con un parco carri che sfiorava le 30.000 unità. Sebbene poco interessato ad esportare il comunismo139, Stalin ambiva a conquistare nuovi territori: la Finlandia, poco abitata e apparentemente indifesa, faceva al caso suo. Sulla carta (1939), l’esercito finlandese non valeva quello cecoslovacco, neutralizzato da Hitler senza colpo ferire: ma solo sulla carta! Sembrò una riedizione del duello tra Davide e Golia: nelle cupe foreste della Carelia, le divisioni sovietiche, composte per lo più da ucraini poco avvezzi ai climi freddi, andarono incontro a rovinose sconfitte ad opera di avversari decisi e motivati.140 Da parte russa non si rinunziò all’impiego della guerra psicologica. Scrive il giornalista Montanelli, inviato del Corriere della Sera nei giorni del conflitto: “Ma i regali piovuti dal cielo non sono stati solo delle bombe. Sono stati anche dei manifestini che ho visto con i miei occhi: redatti in finlandese, che esortavano la popolazione a ribellarsi al Governo e a intendersi con l’Unione delle Libere Repubbliche Sovietiche “che – diceva il manifesto – non vi affameranno, come stanno facendo i vostri dirigenti borghesi, ma vi distribuiranno le loro ricchezze”.141 Nella corrispondenza del 1° dicembre ’39, riporta quest’altra notizia: “Il giornale Pravda ha pubblicato un appello al partito comunista finlandese perché intervenga a indurre i soldati finlandesi a deporre le armi, a organizzare un Governo popolare, a espellere i proprietari terrieri e i capi militari, a nazionalizzare le banche e le industrie, a distribuire le proprietà fondiarie tra i coltivatori diretti e a far la pace con l’Unione Sovietica. Corre voce che il manifesto sia stato diffuso da una radio clandestina in lingua finlandese nelle immediate vicinanze del vecchio confine. (…) La stessa radio ha annunciato poi che, in seguito a una rivolta che si sarebbe prodotta nell’esercito finlandese, sarebbe stato proclamato un “Governo popolare” a Terijoki in Carelia, sotto la presidenza di Otto Kuusinen, il cui fine è di rovesciare il Governo Ryti e di far la pace con i sovietici. (…) Nella sua dichiarazione il nuovo “Governo” prega il Governo sovietico di venirgli in aiuto con l’esercito russo.”142
Volantini, radio, disinformazione: come si vede il Governo sovietico utilizzò tutti gli strumenti a sua disposizione per indebolire il fronte avversario. Senza successo, tuttavia. Il perché del fallimento ce lo spiega, da esperto di strategie di comunicazione qual era, lo stesso Montanelli: “La Finlandia non ha masse proletarie; l’operaio guadagna quasi quanto un tecnico, il contadino è proprietario della terra che lavora, ognuno possiede, per lo meno, una casa, un giardino e un libretto di risparmio. Non sono terre che il bolscevismo possa fertilizzare con le sue dottrine perverse. La storia di Kuusinen, di questo fantoccio che nessuno più ricordava se non per trattarlo da rinnegato, non ha nemmeno indignato il Paese. Il Paese ne avrebbe riso se la situazione consentisse di ridere.143” Al di là della concessione all’ideologia, caratteristica dell’epoca, il commento evidenzia un dato: che la propaganda sovietica, piuttosto ripetitiva e basata sulla promessa di una liberazione delle masse proletarie, non ha né può avere presa su una società che non conosce il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori. E’ il messaggio ad essere inefficace – o, per usare le parole del giornalista, “grottesco” – non perché sbagliato in sé, semplicemente perché rivolto ad un gruppo obiettivo non allettabile con determinate promesse.144
Ad ogni modo, una conferma della notevole importanza attribuita dai sovietici alla guerra psicologica, già nel corso del secondo conflitto mondiale, ci viene da un’intervista a Stefan Doemberg pubblicata su “Il Piccolo” di Trieste di domenica 1 maggio 2005.145 Ebreo tedesco di nascita, Doemberg emigrò nel 1935 in Unione Sovietica; nei giorni dell’aggressione nazista, si arruolò giovanissimo nell’Armata rossa e combattè contro gli invasori. Rientrato in Germania nel dopoguerra, ha diretto successivamente l’Istituto di Storia contemporanea e quello di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Berlino, città dove attualmente vive.
Ricordando gli anni di guerra, dice tra l’altro Doemberg: “Mi assegnarono alla 62° Armata, che aveva difeso Stalingrado. Al mio arrivo, i tedeschi si erano già arresi, ma potei rendermi conto della complessità di quel fronte. Essendo d’origine e di madrelingua tedesca, pensarono di utilizzarmi al meglio inviandomi nella 7° sezione, branca dell’Intelligence, adibita alla guerra psicologica. Rispetto agli altri ufficiali sovietici, così speravano i miei superiori, conoscevo, oltre alla lingua, qualcosa della mentalità e della cultura del nemico. Scrivevamo i testi dei volantini da lanciare oltre le linee, inviavamo messaggi per radio, interrogavamo i prigionieri.”
Emergono dati interessanti: in primis l’utilizzo di tecniche di persuasione moderne, fondate, oltre che sui messaggi scritti, anche su trasmissioni radiofoniche; ancora, lo sforzo da parte dei vertici militari di utilizzare uomini capaci di intendere la psicologia del nemico. Ma ciò che maggiormente suscita l’attenzione dello studioso è il riferimento alla “7° sezione” fatto da Doemberg: dimostra che, già negli anni ’40, l’esercito sovietico disponeva di unità specializzate in psyops.
In generale, come già si è visto nel capitolo introduttivo, tutti o quasi i partecipanti alla Seconda Guerra Mondiale fecero ricorso a psywar. I metodi usati sui vari fronti dai contendenti appaiono abbastanza simili. Nei giorni dell’agonia dell’effimero Impero italiano in Africa orientale, “gli inglesi fecero anche ricorso alla guerra psicologica. Per demoralizzare i nostri soldati assediati, tutte le sere trasmettevano con gli altoparlanti romantiche canzoni italiane, brani di opere liriche e notizie delle nostre sconfitte in Grecia, in Libia e nel Mediterraneo. Non mancavano neppure la pioggia di volantini propagandistici e di salvacondotti per gli ascari che volevano disertare.146
Risulta che la propaganda ebbe un limitato successo, specialmente tra le truppe coloniali: ma a determinare, nella primavera del ’41, la perdita di Etiopia e Somalia da parte italiana furono soprattutto concezioni militari superate e penuria di mezzi.147
Non v’è necessità, a questo punto, di citare altri esempi di impiego di psyops nel corso del conflitto mondiale, anche perché molto s’è già scritto in merito all’inizio di questa trattazione148; giova invece sottolineare che in quel periodo prendono forma le prime unità specializzate nella guerra psicologica149: si è fatto riferimento alla 7° sezione della 62° armata sovietica (è logico pensare che ogni grande unità russa fosse dotata all’epoca di analoghe sezioni), ed è altresì attestata l’esistenza, nell’US Army dell’epoca, di cellule “Progetti speciali” e Compagnie di disseminazione150.
Sostanzialmente si assiste all’affermarsi, già in tempo di guerra, di un modello di psyops che, se non richiede particolare inventiva, postula uno studio più o meno attento della situazione e del gruppo obiettivo, condotto da equipes di specialisti, e sfrutta i ritrovati della tecnica: la radio, poi la televisione, che si aggiungono ai messaggi scritti (ma disseminati da moderni aeroplani).
Questo schema, seguito fino ai giorni nostri, si confonde per molti operatori con il concetto stesso di psyops: di qui un proliferare di formule e distinzioni teoriche151 che rischiano di imprigionare le forze vive di psywar in una ragnatela di dogmatismi.
L’esperienza delle crisi più recenti mostra però che alle operazioni psicologiche codificate e, per così dire, “convenzionali”, taluni contendenti preferiscono altri generi di condotte, più difficilmente catalogabili.
Nel prossimo capitolo ci soffermeremo, sia pur brevemente, sugli attacchi terroristici suicidi, che rappresentano l’arma più temibile oggi in mano alla galassia di organizzazioni denominata Al Qaeda152, e ad altri gruppi fondamentalisti. Si tratta indubbiamente di atti criminali, che suscitano indignazione perché diretti, in genere, contro civili inermi; tuttavia lo studioso di psyops non può esimersi da alcune considerazioni di carattere “tecnico”. Le stragi compiute in Iraq come in Spagna, a Beslan come in Israele, rispondono ad una logica ben precisa: quella di terrorizzare la popolazione, indebolire la compagine sociale, impedire l’affermarsi di un’autorità o la sua sopravvivenza politica. In una parola, puntano a creare (o mantenere) il caos.
Definire gli attentatori suicidi “kamikaze” è perciò fuorviante, oltre che ingiusto: i piloti giapponesi disponibili ad immolarsi erano soldati che attaccavano le navi nemiche, in vista del raggiungimento di un obiettivo strettamente militare. Lo scopo dei pianificatori del terrorismo globale è evidentemente più ambizioso, e rimanda piuttosto agli intenti perseguiti da Gengis Khan nelle sue campagne asiatiche (v. supra). Siamo di fronte ad un esempio contemporaneo di psyops cruente?
Non sarebbe il primo: nel corso della Seconda Guerra Mondiale, la RAF (l’aviazione britannica) e successivamente l’USAF statunitense sganciarono 1.587.943 tonnellate di bombe sulla Germania.153 Il dato è impressionante, ma non basta da solo a spiegare ciò che, tra il 1940 e il ’45, si scatenò sul Paese. Si sarebbe tentati di credere che il fine dei continui attacchi fosse quello di mettere in ginocchio l’industria bellica tedesca: lo scopo, tuttavia, non era questo.
Nel settembre del 1940 Charles Portal, capo del Bomber Command della RAF, diramò un foglio d’ordine con cui prescriveva che “gli obiettivi da colpire dovevano essere scelti fra quelli situati all’interno di città densamente abitate, in modo che se non si fosse riusciti a centrarli le bombe cadessero sulle zone residenziali”154. Il suo successore al comando, il celebre Arthur T. “Bomber” Harris, suggerì di colpire semplicemente le città senza ricercare obiettivi industriali o militari! Non si tratta di speculazioni: il 25 ottobre 1943 lo stesso Harris chiarì la sua strategia, affermando che “l’obiettivo è la distruzione delle città tedesche, l’uccisione dei lavoratori tedeschi e lo smembramento dell’esistenza della società civile in tutta la Germania” e che questi erano “i bersagli perseguiti e accettati della nostra politica dei bombardamenti e non danni derivati da tentativi di colpire obiettivi industriali”155.
Che le finalità dell’offensiva aerea inglese (e poi anche americana, a partire dal ‘42) fossero di natura terroristica era noto ai vertici militari e politici alleati156: non è un caso che siano stati gli stessi inglesi a coniare la definizione, per gli attacchi, di ”terror bombing”. Tenendo conto di questi elementi, cessano di apparire inspiegabili bombardamenti come quello su Lubecca (nel ’42), o quelli che rasero al suolo Colonia (1944), Wuerzburg e Dresda (1945): il fatto che si trattasse di città d’arte, di scarso rilievo industriale, le rendeva obiettivi ancor più appetibili per gli strateghi anglo-americani!157
Non sta a chi scrive esprimere un giudizio etico sulla vicenda, anche se è certo che i generali tedeschi Keitel e Jodl, impiccati a Norimberga, avevano sulla coscienza colpe non più gravi di quelle dell’”eroe” Arthur Harris158 ; ciò che giova mettere in luce sono le sorprendenti similitudini tra il “terror bombing” brevemente descritto e la strategia del terrore di Bin Laden - o chi per lui. In entrambi i casi le bombe (aeree od umane poco importa) sono finalizzate a seminare il panico, a dissolvere il nemico dall’interno, a fiaccare il morale della popolazione civile159 togliendole qualsiasi speranza nel futuro, o di una vita normale160.
Operazioni psicologiche non convenzionali? A prendere per buona la definizione di psyops data dal Presidente americano D. Eisenhower161, “la guerra psicologica è qualsiasi cosa, dal suono di un bellissimo inno fino al genere più straordinario di sabotaggio psichico”, non vediamo alcuna ragione valida di escluderlo a priori.

13. Conclusioni

I dati esposti nel corso della presente ricerca ci consentono ora di abbozzare qualche riga di conclusione, nella convinzione, peraltro, che ad alcuni degli interrogativi iniziali si sia già fornito risposta nel corso dei singoli capitoli.
In primo luogo, non si può dubitare del fatto che le tecniche di guerra psicologica siano antiche quanto la storia umana: la necessità di ingannare il nemico e di impressionarlo, indebolendone la volontà di resistenza, accomuna i re assiri del II° millennio a.C. agli strateghi contemporanei.
La prima differenza che balza agli occhi riguarda, evidentemente, i mezzi, gli strumenti utilizzati per ottenere lo scopo: gli antichi non disponevano di elicotteri, nè di radio o semplici altoparlanti! La diversità, peraltro, ha scarsissima rilevanza, è più apparente che reale: se è vero che l’arma psicologica consiste nel messaggio diretto all’obiettivo, oltre che nell’effetto prodotto, la tecnologia usata risulta del tutto indifferente allo studioso, sempre che sia giudicata adeguata al fine da raggiungere. Da questo punto di vista, è agevole rilevare che il ponte progettato da Cesare, o l’esibizione della cavalleria spagnola in Messico erano strumenti di diffusione del messaggio/psywar molto più raffinati di quanto non fosse l’ipotizzato ologramma nel cielo di Baghdad! D’altronde, i risultati conseguiti da Alessandro o Giulio Cesare attraverso geniali operazioni psicologiche sono incontestabilmente superiori a quelli raggiunti dall’ipertecnologico esercito americano all’alba del ventunesimo secolo162. Ciò dimostra semplicemente che, indipendentemente dal livello di sviluppo tecnico di una civiltà, il successo delle operazioni psicologiche dipende sempre dalla sensibilità e dal talento di chi le pone in essere: il fattore umano rimane fondamentale163.
Ciò non vale ad escludere, tuttavia, che le psyops abbiano effettivamente subito un’evoluzione in tempi recenti: pur con qualche residuo di dubbio - si pensi alla propaganda militare assira - è possibile condividere l’asserzione secondo cui “nonostante la lunga storia del suo fortunato impiego, il potenziale per l’uso del potere della persuasione mediante le operazioni psicologiche come moltiplicatrici di forza per il raggiungimento degli obiettivi nazionali con una distruzione minima, è stato riconosciuto solo dai capi militari e dagli uomini di stato più percettivi. Inoltre dalla Seconda Guerra Mondiale le PSYOP sono state considerate come un’arma efficace e un sistema a sè.164
La maggior novità rispetto al passato è dunque rappresentata, oggi, dall’esistenza, nell’ambito degli eserciti più organizzati, di unità specialistiche dedite all’effettuazione di operazioni psicologiche, che annoverano nei loro ranghi psicologi, tecnici ed esperti di strategia della comunicazione. E’ una forzatura guardare agli scribi di Ninive e ai segretari di Alessandro il Macedone - cui abbiamo fatto riferimento nelle pagine precedenti - come ai progenitori dei moderni guerrieri psicologici? Secondo noi no: d’altro canto è indiscutibile che, rispetto agli antichi, i contemporanei abbiano del fenomeno “guerra” una percezione diversa. Essa non è più “ars”, arte, bensì scienza: variabili e possibili conseguenze di ogni evento vengono attentamente analizzate a tavolino, la convinzione - illusoria - di poter tutto prevedere e prevenire lascia poco spazio, almeno in teoria, alla decisione improvvisa del singolo.
In sintesi, le psyops attuali appaiono maggiormente “standardizzate” rispetto a quelle dei tempi passati e, sebbene nelle linee guida sostanzialmente analoghe alle precedenti, risentono del principio della “divisione del lavoro” che sta alla base della società industriale e, quindi, dell’organizzazione degli eserciti moderni. Rispetto ad altri periodi storici, il perfezionamento delle tecniche è abbastanza evidente: l’unico rischio è che il cieco affidamento nella tecnologia e nella “specializzazione” possa far sottovalutare l’apporto individuale, l’elemento intuizione/creatività che consente di far fronte all’imprevisto.
E’ triste osservare che, nonostante l’importanza riconosciuta oggidì alle operazioni psicologiche, l’automatica adozione di schemi prefissati e l’irrigidimento della catena di comando portano alle volte, come si vede in Iraq, proprio a quei risultati dolorosi che le psyops sono istituzionalmente deputate ad evitare.
In un articolo recentemente pubblicato su una rivista specialistica165, gli estensori, facendo riferimento alla loro esperienza irachena, osservano che “Antica Babilonia ha inoltre dimostrato come i termini entro i quali si identifica un prodotto PsyOps, se interpretati in modo rigido, possano finire con escludere attività che sono al tempo stesso necessarie, efficaci e richieste dai Comandanti.” Gli autori stessi ci danno un esempio eloquente di come la smania di definire e catalogare abbia generato nel tempo distinzioni artificiose: “operazioni psicologiche (…) e comunicazioni operative non sono equivalenti e non esprimono, in modo diverso, lo stesso concetto. Sebbene concettualmente simili l’una all’altra, se ci si riferisce alla tipologia dei prodotti “classici” (…), quei prodotti atipici/anomali già menzionati (talk show, video messaggi del Comandante, previsioni meteo) risultano essere al di fuori dei confini dell’ortodossia PsyOps è conseguentemente è indeterminata la competenza della loro realizzazione.(…) Si è propensi a pensare che la dizione comunicazioni operative meglio si presta a descrivere il lavoro svolto dal personale del 28° Reggimento (…) in quanto più ampia di operazioni psicologiche che, a ben vedere, sono comprese nelle altre.”
Sebbene le dispute nominalistiche non ci appassionino più di tanto – a parer nostro rimane valida la definizione coniata oltre cinquant’anni fa da D. Eisenhower - il brano appena riportato dimostra che i più acuti tra gli addetti ai lavori hanno oggi ben chiaro il rischio di una “burocratizzazione” di psyops. In alternativa ai “Corsari della comunicazione capaci di adattarsi ad ogni situazione”, auspicati nell’articolo166, a dirigere le operazioni psicologiche potrebbe venir presto chiamato Weirother!
Il problema è sentito anche dagli operatori, dunque, né le pessimistiche considerazioni d’avvio sono dettate da sterili rimpianti per il “buon tempo andato”: i nuovi sviluppi in Medio Oriente mettono in luce dei fatti nudi e crudi, di cui non si può non tener conto. E’ stato riconosciuto da più parti167 che, pur non disponendo di propri mezzi di informazione nè di unità specializzate in psyops, i terroristi di Al Qaeda stanno vincendo la guerra mediatica. Banalissime cassette in VHS, fatte pervenire alla TV araba Al Jazeera e, attraverso questa, al pubblico del pianeta, scuotono la coscienza occidentale con immagini di uomini come noi, rapiti, torturati, uccisi. Il messaggio è chiaro, terrorizzante: noi non ci fermeremo davanti a nulla, a differenza di voi non abbiamo niente da perdere, possiamo colpirvi tutti, ovunque, senza distinzioni di razza, sesso e convinzioni politiche.
Come ha provato l’esperienza spagnola, gli atti di terrorismo, diretti contro singoli o comunità intere, possono influire sull’operato dei governi, sulle scelte delle amministrazioni: insomma, possono mutare il corso di un conflitto. Per portare avanti la loro sanguinaria ed efficace “guerra psicologica”, gli uomini di Osama non hanno bisogno di pianificazioni ad alto livello, nè di tecnologie raffinate: bastano piccoli gruppi armati e decisi, muniti di strumenti anche rozzi. A differenza dei patetici propagandisti di Saddam, che scambiavano Burt Simpson per un attore in carne ed ossa, essi conoscono molto bene il loro nemico, che poi saremmo noi, l’Occidente: sanno che la nostra società è ossessionata dalla paura della morte, dall’ansia per la propria sicurezza, e ne traggono profitto.
Batterli non sarà facile, e forse richiederà, al mondo libero, scelte radicali, oltre ad un ripensamento delle attuali strategie, assai carenti sotto il profilo delle azioni di consolidamento. Alessandro Magno ci ha indicato la via da seguire: per avere successo, un’occupazione deve essere discreta, quasi invisibile; e le occasioni di attrito con le popolazioni locali ridotte al minimo. Vincere la pace è possibile soltanto se chi viene da fuori è percepito non come straniero, ma come amico e liberatore: per raggiungere questo risultato è indispensabile un’adeguata preparazione e piani flessibili, oltre ad una grande capacità di adattamento delle unità sul campo.
Più in generale, una psyops “non letale” può tornare ad essere arma decisiva: purchè non si abbia paura di gettare nuovi ponti sul Reno!



BIBLIOGRAFIA E FONTI



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INDICE


Quel rimasuglio di “patriottismo occidentale2 (2012) pag. 1

1. Che cosa sono le operazioni psicologiche pag. 4

2. Distruttori di città e maestri di propaganda pag. 10

3. Oriente contro occidente pag. 16

4. Il re del mondo pag. 19

5. Hannibal ad portas! pag. 24

6. Un ponte sul Reno pag. 28

7. Carnefici e santi pag. 32

8. Un regno al di là del mare pag. 37

9. Il sole di Austerlitz pag. 41

10. Il volo del poeta pag. 51

11. Veritas se ipsa defendet? pag. 54

12. Guerra psicologica e strategia del terrore pag. 59

13. Conclusioni pag. 68

Bibliografia e fonti pag. 73
1 Nell’ambito del master di I livello “Analisi e gestione della comunicazione”, organizzato dall’Università degli Studi di Trieste, sotto la responsabilità del prof. Enzo Kermol.
2 Si veda l’articolo “CNN and psyops” di ALEXANDER COCKBURN, pubblicato in data 26/03/2000 su “CounterPunch” (“America’s Best Political Newsletter”, quotidiano online edito da Alexander Cockburn e Jeffrey St. Clair), ove si legge tra l’altro: “...il giornalista olandese, Abe de Vries, ha riportato che una manciata di militari provenienti dal 3° battaglione operazioni psicologiche, facente parte del 4° gruppo aviotrasportato operazioni psicologiche basato a Fort Bragg, in North Carolina, aveva lavorato nel quartier generale della CNN ad Atlanta (…) lavoravano in qualità di dipendenti, regolarmente assunti, della CNN”.
3 La definizione è contenuta nel rapporto del Defence Science Board Task Force, commissionato dal Dipartimento della Difesa Usa nel 2000, dal titolo “The Creation and Dissemination of All Forms of Information in Support of Psychological Operations (PSYOP) In Time ofMilitary Conflict”; più articolata la definizione NATO che fa riferimento ad un “uditorio nemico, amico o neutrale” e suddivide dette attività psicologiche in “strategiche, di consolidamento e proprie del campo di battaglia”; suddivisione cui ci rifaremo nel corso del presente lavoro.
4 Il condizionale è d’obbligo: come osserva il ten. col. STEVEN COLLINS, sulla “Rivista della NATO - Estate 2003”, “L’impiego delle PSYOPS in Iraq sembra che abbia avuto maggior successo (rispetto alla guerra nei Balcani). Il problema, come in tutte le azioni PSYOPS, consiste nella difficoltà di determinare il rapporto tra causa ed effetto di un’azione nel corso di un conflitto.”
5 Riportiamo il contenuto di alcuni di essi, piuttosto chiaro ed incisivo: “Saddam non controlla più l’Iraq - aiutaci ad ottenere la tua libertà con il minimo di perdite umane” e “Noi sappiamo chi sei - se lancerai dei missili sarai ucciso o catturato e giudicato come un criminale di guerra (sic!)”.
6 Ten. col. LUCA FONTANA, Le operazioni psicologiche militari (PSYOP) la “conquista” delle menti, pubblicato su “Informazioni della Difesa - rivista n. 6 anno 2003”.
7 ibidem, pag. 42.
8 ”Questi messaggi furono così ben pianificati ed altrettanto abilmente disseminati che testimonianze raccolte di recente fanno intendere come alcuni reduci tedeschi fossero ancora convinti, a distanza di decenni, della loro veridicità” FONTANA, Le operazioni psicologiche…, pag. 42. Sempre a proposito delle forze armate tedesche, vale la pena sottolineare come, specie nella prima fase della guerra, esse dimostrarono di padroneggiare assai bene le tecniche di psyops. Un esempio: il 1° settembre 1939 i cavalleggeri del 18° reggimento lancieri polacco riuscirono a cogliere di sorpresa una colonna di fanteria tedesca. Ma non appena sul fianco apparve un gruppo di autoblindo nemiche, i cavalieri furono costretti a ritirarsi, dopo aver subito gravi perdite. Ebbene, a battaglia finita, i tedeschi realizzarono un documentario propagandistico che ritraeva i cavalleggeri polacchi (in realtà soldati tedeschi travestiti!) in procinto di lanciarsi incoscientemente all’attacco contro una colonna di carri armati. Prendendo spunto dall’indiscutibile eroismo dei polacchi, i comandi tedeschi sfruttarono le moderne tecnologie di ripresa per fornire al mondo - e quindi ai futuri avversari - una rappresentazione impressionante quanto falsa della superiorità tedesca sui nemici e dell’impossibilità di contrastare le nuove armate del Reich! Grande propaganda, è lecito dire, se è vero che ancor oggi l’opinione pubblica è convinta che i cavalieri polacchi fossero così meravigliosamente incoscienti da assalire all’arma bianca le divisioni corazzate di Guderian! Dove invece le tecniche di psyops vennero sorprendentemente “dimenticate” dei tedeschi fu in Russia: provati dalla quasi ventennale tirannide di Stalin, i russi e gli ucrami sembravano pronti a ribellarsi all’oppressore comunista, ed all’inizio vedevano nei tedeschi quasi dei liberatori. Con l’appoggio delle popolazioni locali, la marcia verso i pozzi di petrolio del Caucaso sarebbe stata più rapida ed agevole: invece i soldati di Hitler stupirono dolorosamente i cittadini dell’URSS, massacrandoli senza pietà e trattandoli come schiavi. La risposta di un popolo disperato e fiero sarebbe stata la “Grande Guerra Patriottica”. Evidentemente, tanto nel caso delle popolazioni slave sottomesse quanto in quello dei lavoratori ebrei, che per effetto delle sevizie gratuite e della denutrizione mai furono messi in grado di contribuire realmente allo sforzo bellico della Germania, il condizionamento dell’ideologia nazista ebbe il sopravvento sulle esigenze dell’esercito e della produzione industriale (cfr D. J. GOLDHAGEN, I volonterosi carnefici di Hitler, ed. Mondadori).
9 FONTANA, op. cit : “E’ dalla Seconda Guerra Mondiale che le psyops sono considerate come un’arma efficace e un sistema a sè. (...) le operazioni psicologiche non sono tuttavia in alcun modo una nuova tattica militare. Vi sono numerosi esempi dell’uso della guerra psicologica in tutta la storia.”
10 Ecco che allora non appaiono riconducibili all’ambito di psyops le iniziative condotte da Stalin nei confronti del suo stesso popolo, nel corso della seconda guerra mondiale. Com’è noto, la sopravvivenza dell’Unione Sovietica all’invasione tedesca fu in gran parte dovuta all’abilità del dittatore di appellarsi al patriottismo emotivo del popolo russo. Stalin riuscì a far sì che i cittadini russi, già provati dalle terribili “purghe” ed ora in balia delle armate germaniche, identificassero il regime al potere con la “Santa Madre Russia”, da sempre venerata; e trovassero la forza, morendo a milioni, di scacciare dal patrio suolo l’aggressore nazista. La propaganda esaltò il ruolo storico della chiesa ortodossa e dell’esercito; sulla “Pravda”, organo ufficiale del PCUS, il motto “lavoratori della terra, unitevi” fu sostituito, per tutta la durata del conflitto, da “morte all’invasore tedesco”. Ancor oggi, pur nello sfacelo morale della loro patria seguito al crollo dell’Unione Sovietica, i russi ricordano con commossa ammirazione gli eroi della “grande guerra patriottica”.
11 la defmizione è tratta da “Rivista della NATO -- Estate 2003” - art. cit. del ten. col. COLLINS.
12 Un buon esempio di psyops nera è rappresentato dall’emittente “Radio Tikrit”, attiva dal febbraio 2003. Creata probabilmente dalla CIA, essa si è data inizialmente una veste di credibilità affermando di essere gestita da fedeli sostenitori di Saddam Hussein e tenendo una linea editoriale servile nei confronti del regime al potere. In poche settimane, tuttavia, il tono è mutato e la stazione è divenuta sempre più critica nei confronti del dittatore iracheno, man mano che il suo potere scricchiolava sotto la spinta decisa degli anglo-americani.
13 Più semplicemente, si può anche leggere le pagine che seguono come una breve storia della guerra psicologica.
14 Ten. col. FONTANA, op. cit.
15 Poema di Qadesh (il), della LETTERATURA EGIZIA, Giulio Einaudi editore s.p.a, 1969.
16 Iscrizione di TIGLATH PILESER I, conservata al British Museum.
17 Vanterie simili si leggono negli annali di Salmanazar III e di Assurbanipal (quest’ultimo vissuto molti secoli dopo il regno di Tiglath Pileser), oltre che di molti altri re d’Assiria.
18 SIEGMUND GINZBERG, Gli Assiri e le guerre dell’impero, da “Il Foglio” del 15/03/2003.
19 BUSTENAY ODED, War, peace and empire, giustificazioni per la guerra nelle Iscrizioni reale assire, Ed. Dr. Ludwig Reichert Verlag, 1992.
20 GINZBERG, art. cit.
21 Iscrizione di Tiglath Pileser I.
22 ISAIA 5 :29-30
23 GIUDITTA, 1:7-11
24 GIUDITTA, 2:3
25 GIUDITTA, 2:5-9
26 Propagandistica appare anche la quantificazione delle truppe impegnate nella “spedizione punitiva”: 120.000 fanti e 12.000 cavalieri (oltre ad un forte contingente di carri, che costituivano il nerbo dell’esercito assiro)!
27 Cosa abbastanza inusuale per i tempi, al re detronizzato fu risparmiata la vita.
28 Erodoto accenna a 2 milioni di uomini in armi, cifra peraltro inverosimile. Anche a non voler considerare che il mondo, all’epoca, era molto meno densamente popolato di quanto non sia oggi (nel I° secolo a.C., in età dunque molto posteriore, la Germania contava appena 3 milioni di abitanti, l’odierna Francia 4,5!), sarebbe stato impossibile, sotto il profilo logistico, approvvigionare un esercito di dimensioni simili che avanzasse lentamente, a piedi, attraverso territori in gran parte poveri, spopolati ed ostili. E non si può certo immaginare che i villaggi e le piccole città incontrate lungo il cammino fossero in grado, volenti o nolenti, di offrire sostentamento ad una tale moltitudine di uomini. E’ evidente che, “decuplicando” a parole gli effettivi del suo esercito, comunque immenso, re Serse intendeva spaventare a morte i greci; e questi ultimi, una volta conseguita l’insperata vittoria, avevano tutto l’interesse ad accreditare e diffondere la fama che voleva gli elleni eroici ed “invincibili” al punto da sopraffare la più grande schiera mai radunata.
29 Questo passo, e quelli successivamente virgolettati, sono tratti da ERODOTO, Storie, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. - Libro VII.
30 Che non si sia trattato di una semplice manifestazione di follia “alla Caligola” – come il lettore moderno potrebbe frettolosamente pensare – lo dimostra il fatto che anche il predecessore Dario aveva punito con la sferza le onde ribelli, colpevoli di aver causato il naufragio di alcune sue navi.
31 così conclude Demarato (ERODOTO, op. cit.): “Sono liberi, sì, (gli spartani), ma non completamente: hanno un padrone, la legge, che temano assai più di quanto i tuoi uomini temano te; e obbediscono ai suoi ordini, e gli ordini sono sempre gli stessi: non fuggire dal campo di battaglia, neppure di fronte ad un numero soverchiante di nemici (…)”.
32 Rispetto al padre Filippo, al cui talento di organizzatore andrebbe in realtà ascritto, secondo alcuni, il merito dei fulminei successi di Alessandro, egli aveva inoltre un vantaggio da non sottovalutare, se si tiene conto dell’epoca in cui visse: ad onta della bassa statura, Alessandro di Macedonia era un bellissimo giovane, grazie ai suoi capelli biondi come quelli di Achille, ed a tratti armoniosi degni di essere immortalati da scultori e pittori. Inoltre la sua indole romantica, il suo desiderio di infinito non smettono di affascinare, ancor oggi, poeti e uomini comuni.
33 cfr ROBIN LANE FOX, Alessandro Magno, ed. Allen Lane, Londra, 1973, pag. 110.
34 ERODOTO, Storie - Libro VII.
35 R. L. FOX, Alessandro...
36 Non va dimenticato che gli abitanti della penisola consideravano i macedoni “barbaroi” (stranieri non greci), alla stregua dei persiani.
37 ARRIANO, Anabasi di Alessandro, Dante Alighieri, 1910 - 11, 3.8.
38 Fu più volte ferito, nel corso delle sue campagne, ed al Granico fu salvato dall’intervento di Clito che abbattè un satrapo persiano ormai sul punto di ucciderlo.
39 Molto meno delle battaglie in campo aperto Alessandro amava gli assedi, per abbreviare i quali spesso ricorse a fantasiose trovate: presso Hissar, nelle montagne del Koh-i-Noor, un gruppo di ribelli sogdiani aveva trovato rifugio presso l’aristocrazia locale, in una fortezza naturale apparentemente inespugnabile. Schernito dai parlamentari nemici, che gli avevano proposto di andarsi a cercare delle truppe volanti, Alessandro seguì il consiglio: promettendo loro un premio straordinario, convinse trecento dei suoi soldati, esperti montanari, ad arrampicarsi fin sulla vetta sovrastante il rifugio. Ce la fecero in 270: il mattino seguente, Alessandro mandò araldi ad invitare le sentinelle nemiche ad ammirare i suoi soldati volanti. I sogdiani si volsero e scorgendo gli scalatori in piedi al di sopra di loro deposero le armi, pensando si trattasse di un intero esercito!
In generale, sempre a proposito di assedi, si usa rimproverare ad Alessandro la crudeltà mostrata nei confronti di chi non si arrendesse prontamente, e si cita ad esempio la triste sorte toccata agli abitanti di Tito, ed al coraggioso satrapo della città, cui fu riservato lo stesso supplizio dell’omerico Ettore; d’altra parte, il favorevole trattamento riservato a quanti aprivano volontariamente le porte dimostra che la condotta del macedone rispondeva ad un disegno ben preciso, quello di risparmiare al suo esercito sacrifici non ritenuti indispensabili.
40 E’ utile rammentare che per valutare la “verisimiglianza” del messaggio bisogna rapportarsi alla situazione concreta: gli egizi erano un popolo la cui esistenza era dominata dalla religione, e da una casta potentissima di sacerdoti di cui, per qualunque invasore straniero, era indispensabile conquistarsi l’appoggio.
41 “Alessandro e le azioni di Alessandro – si tramanda abbia affermato Callistene – dipendono da me e dalla mia storia. Non sono venuto io per guadagnarmi stima dal servizio di Alessandro, ma per renderlo glorioso agli occhi degli uomini (ARRIANO, Anabasi…, IV 10.1-2)”.
42 afferma il già citato COLLINS, nell’articolo cit.: “stranamente, sembra che i pianificatori militari di Iraqi Freedom abbiano dedicato poche energie per sviluppare in anticipo delle capacità psyops idonee al dopo conflitto.”
43 emblematica è la punizione inflitta al satrapo persiano Besso che, assassinato l’incerto Dario, si proclamò Gran Re col nome di Artaserse IV: dopo la cattura fu crudelmente torturato per ordine del macedone e poi squartato come colpevole di regicidio! E’ evidente che agli occhi dei Persiani Alessandro voleva accreditarsi (anche) come il successore dell’ultimo sovrano, legittimato dalla vittoria in battaglia.
44 cfr R. L. FOX, op. cit.
45 i macedoni vedevano l’introduzione dei costumi orientali e della proskynesis come una potenziale minaccia alla loro libertà: ma il re non pensò mai di instaurare una forma di teocrazia né di pretendere forme di adorazione dai suoi connazionali.
46 nei manuali di psyops è normalmente citato un esempio di guerra psicologica attribuito al grande condottiero, che, a seconda di come viene presentata, può essere considerata un’azione “tattica” (dettata da condizioni estreme) ovvero “di consolidamento” (se si tratta invece di una tecnica impiegata più volte!). Avendo Alessandro disperso il suo esercito nel vastissimo territorio dell’impero appena conquistato, egli, alla guida di pochi uomini, temette in un’occasione di essere raggiunto e travolto da nemici preponderanti prima che qualcuno potesse venirgli in aiuto. Allora istruì i suoi armieri a costruire corazze ed elmi giganteschi, che furono abbandonati appositamente negli avamposti in modo che, trovandoli, i nemici temessero di dover affrontare in battaglia degli autentici giganti! Pare che lo stratagemma abbia avuto successo, e gli inseguitori siano fuggiti terrorizzati.
47 scrive GISBERT HAEFS, Annibale, pag. 646, ed. Marco Tropea Editore, Milano 1999: “Diversamente da Alessandro, Gengis Khan, Napoleone ecc., i quali, non appena vien meno la malia esercitata dalla obiettiva grandezza delle loro azioni, a causa dell’assurdità sanguinaria delle loro conquiste militari ai miei occhi ricadono tutti in un archetipo la cui immagine più spaventosa è quella di Hitler, il cartaginese continua a emanare un eccezionale fascino.”
48 Sta per “stratagemmi”.
49 Delle città assoggettate da Annibale in Italia alcune si consegnarono spontaneamente, altre furono prese a tradimento: l’eventuale capitolazione di Roma avrebbe di certo richiesto un lunghissimo e rischioso assedio… semprechè, come suggeriva Maarbale, i cavalieri numidi non avessero preceduto dinanzi alle mura la notizia della disfatta di Canne! In quel caso, forse, l’effetto sorpresa e lo sconforto avrebbero avuto il sopravvento sullo spirito di resistenza dei cittadini.
50 ancora HAEFS, op. cit., pag. 647, che aggiunge significativamente: “(Tito) Livio fu costretto a demonizzare Annibale per poter giustificare il comportamento di Roma; tuttavia, nelle ben oltre mille pagine dei libri Ab urbe condita dedicati alla guerra contro Annibale, non si trovano esempi della slealtà e della crudeltà che gli si attribuisce.”
51 secondo lo storico greco Polibio aveva con sè 2-3000 soldati appena, tra fanti e cavalieri.
52 La città greca, seconda solo a Roma per numero di abitanti, si era alleata con i cartaginesi, che vi avevano disposto un forte presidio, e subiva ora l’assalto dei romani. Costretta infeine alla capitolazione, sperimentò la spietatezza e la ferocia degli avversari di Annibale, che ne fecero un deserto.
53 per ingannare gli assedianti ordinò di mantenere accese le torce nell’accampamento.
54 FLORO LUCIO ANNEO, Flori epitome de Tito Livio bellorum omnium DCC annorum libri duo - Liber primus, Romagnoli, 1881.
55 1’episodio è narrato da POLIBIO, in Storie, Sansoni, 1937.
56 A meno che non si sia trattato di un enfatico rinnovo del giuramento di odio eterno a Roma fatto in gioventù. Così venne interpretato, comunque, dai suoi nemici, e anche dopo la decisiva vittoria di Zama i romani non furono soddisfatti finchè il grande avversario non finì, cadavere, nelle loro mani.
57 Si trattava di veri e propri giornali murali che riportavano, a beneficio del popolo, i resoconti delle sedute del Senato ed altre notizie “di attualità”.
58 tra i quali l’ambiguo Cicerone che, pur osteggiando il Cesare politico, non gli lesinava lodi come scrittore.
59 quanto affermato nel primo paragrafo, che cioè la propaganda rivolta ai connazionali esula dal campo delle operazioni psicologiche propriamente dette, non vale evidentemente nell’ipotesi di guerre civili: il compatriota è, in questo caso, un nemico da vincere o conquistare. Sarebbe ad esempio interessante investigare se e quali motivazioni di ordine bellico fossero alla base del celebre atto di emancipazione con cui, per scopi propagandistici prima che umanitari, il Presidente americano Lincoln decise la liberazione degli schiavi negli stati del sud, durante la guerra civile americana.
60 cfr CAIO GIULIO CESARE, Commentarii de bello civili, Garzanti, 1946.
61 chiunque abbia letto i “Commentarii de bello gallico” non può non stupirsi della straordinaria accuratezza con cui Cesare descriveva, oltre alla geografia dei paesi, costumi e abitudini dei popoli con cui era venuto in contatto. Il grande conquistatore era conscio che, per avere ragionevoli probabilità di sconfiggere un nemico, è necessario conoscerlo prima approfonditamente.
62 GIUSEPPE FLAVIO, autore del libro “Guerra giudaica”.
63 entrambi sono autori di opere intitolate “Stratagemata”: FRONTINO visse nel secolo d.C., POLIENO circa cent’anni dopo. Il primo, per mostrare come sia possibile guadagnarsi il rispetto e l’amicizia di un popolo straniero, rilegge in chiave “psyops” il seguente episodio, narrato da T. LIVIO: conquistata Carthago Nova, Cornelio Scipione mostrò la sua nobiltà d’animo quando gli presentarono una fanciulla di straordinaria bellezza, fidanzata di Allucio, uno dei comandanti celtiberi. Egli la restituì sana e salva all’ispanico, al quale disse: “non ti chiedo in cambio che di diventare amico del popolo romano”.
64 E poco mancò che i suoi successori conquistassero anche l’Occidente: intorno al 1240 il mongolo Batu Khan guidò una spedizione fin nel cuore dell’Europa e, dopo aver sconfitto russi, ungheresi, tedeschi e polacchi, si affacciò all’Adriatico nei pressi di Zara: la morte del Gran Khan Ogodai in Asia, più che la minaccia rapprentata dall’esercito raccolto da Federico II di Svevia, convinsero infine il condottiero a tornare sui suoi passi.
65 E’ dimostrato che, al contrario, Temujin-Gengis Khan sapeva scrivere.
66 Ad esempio, uomini di sua fiducia venivano inviati in anticipo per portare avanti le psyops di persona, raccontando la brutalità e il numero infinito dell’armata mongola. L’esempio fu imitato dai successori. Si narra, ad esempio, di un inglese al servizio del terribile Batu Khan mandato presso la corte del re ungherese Bela IV per ottenerne, con suggestive minacce, la resa: il prode magiaro respinse sdegnosamente la proposta e scelse di resistere, ma il suo esercito fu disfatto dai tartari ed egli si salvò a stento con la fuga (1241 d.C.).
67 Soprattutto le finte ritirate, che si succedevano nel corso delle battaglie ed erano seguite da dietro-front talmente improvvisi da gettare nel panico le schiere medio-orientali ed europee, non avvezze a quel genere di tattiche.
68 L’esercito di Gengis Khan, nelle cui file militavano, oltre ai mongoli, anche molti turchi e tartari, era basato su formazioni miste di cavalleria pesante (corazzata, ma assai più mobile di quella europea del tempo) e leggera (armata d’arco, scudo e spada).
69 Il cui territorio corrisponde più o meno a quello degli attuali Iran ed Uzbekistan.
70 La rapidissima conquista del Khwarezm rappresenta uno dei capolavori dell’arte militare di Gengis Khan; ma la completa distruzione di Samarcanda, unita agli odiosi eccidi commessi, gettano un’ombra indelebile sull’impresa. Inutile aggiungere che il khan Mohammed non fu risparmiato!
71 A proposito degli effetti della “propaganda” mongola, JEAN-PAUL ROUX, Storia dei Turchi, Garzanti ed. S.p.A. 1988, pag. 159, scrive: “Le popolazioni (dell’Iran) sono in preda a un folle panico e chi può fugge. Ma ciò che è più sconvolgente è la passività di coloro che restano, la loro rassegnazione. Un guerriero solitario fa incatenare un gruppo di uomini, poi li fa sgozzare gli uni dagli altri; un plotone di cavalieri accerchia una folla e la conduce al supplizio senza che nessuno provi a opporre resistenza o a fuggire.”
72 cfr ROUX, op. cit., pag. 158.
73 All’epoca un regno vassallo dei mongoli.
74 Lo stesso Carlo Magno, per esempio, che era analfabeta, affidò l’educazione dei suoi sudditi ai vescovi e monaci cristiani (specialmente irlandesi).
75 L’ammirato turbamento che doveva impadronirsi degli uomini del medioevo ogniqualvolta si trovassero dinanzi a persone “colte” è ben reso dallo scrittore JAMES A. MICHENER, nel suo libro “Polonia”, Gruppo Editoriale Fabbri 1985, pag. 94: “(…) Pawel venne tirato fuori, e gli fu permesso di lavarsi, gli furono dati vestiti puliti e poi venne condotto in una stanza dove lo attendevano due uomini rimarchevoli. Il primo, e più alto, era un cavaliere di quarant’anni, Siegfried von Eschl, che era stato a Gerusalemme e a Roma, discendente di un’antica famiglia tedesca proprietaria di vari castelli sul Reno, uomo devoto al bene dell’Ordine e uno dei suoi migliori comandanti. Il secondo, più piccolo e meno signorile di portamento, era in certo senso più imponente, perché sapeva leggere e scrivere (…)”
76 MICHAEL BAIGENT – RICHARD LEIGH, L’Inquisizione, Marco Tropea editore s.r.l., Milano 2000, pag. 34.
77 “Sono già molti anni che predicando, implorando, piangendo mi rivolgo a voi con parole miti. Ma, come dice la gente del mio paese, dove le benedizioni non servono, ci vuole il bastone. Ora chiameremo a raccolta contro di voi condottieri e vescovi che, ahimè, si raduneranno contro questo paese (…) e causeranno la morte violenta di molte persone (…) e vi ridurranno tutti in schiavitù.” Queste parole, più degne di uno spietato conquistatore che di un santo, furono pronunciate da Domenico di Guzmàn in un discorso a Prouille (cit. da BAIGENT – LEIGH, op. cit.).
78 Vogliamo divertirci ad applicare le categorie psyops esaminate nel primo capitolo all’operato dei domenicani nella Francia del sud? Diciamo allora che si trattava di propaganda “bianca”, con finalità “strategiche” e “di consolidamento” (nelle zone meno infettate dall’eresia).
79 Pensiamo all’episodio di Attila fermato da Papa Leone I, ed a quanto la diffusione del racconto tra popoli semibarbari dovette accrescere il prestigio del papato, e la fiducia (mista a timore!) nella Chiesa; ma anche un riconosciuto “falso storico”, come quello relativo alla donazione di Costantino, contribuì al rinsaldarsi dell’autorità dell’istituzione romana.
80 WILLIAM H. PRESCOTT, La conquista del Messico, ed. Newton Compton editori s.r.l. 1987,- pag. 127.
81 il governatore azteco della provincia, che era a capo dell’ambasceria.
82 non a caso Hernan Cortès, uomo di spada e di lettere, lasciò un brillante resoconto della Conquista, intitolato “Cartas de relacion” e palesemente ispirato ai Commentarii del conquistatore della Gallia.
83 come nei giorni che precedettero la “noche triste”, in cui gli spagnoli furono cacciati da Tenochtitlan. Va detto, a onor del vero, che neppure gli aztechi erano dei totali sprovveduti, sul piano della guerra psicologica: a quel che risulta, Moctezuma ordinò ai vassalli che gli spagnoli avrebbero incontrato lungo il cammino di esagerare la potenza del regno e il numero dei guerrieri di cui disponeva, allo scopo documentato di far desistere gli invasori dal proposito di arrivare a Tenochtitlan.
84 nel corso di una battaglia contro i guerrieri tabascani, Cortès, risultato facilmente vincitore, prese numerosi prigionieri, tra cui due capi: Cortès li rilascio con l’incarico di riferire ai loro compatrioti che “avrebbe dimenticato il passato se si fossero subito sottomessi. Altrimenti, battendo l’intera regione a cavallo, l’avrebbe messa a ferro e fuoco, passando a fil di spada tutte le creature che la abitavano, uomini, donne o bambini.” La minaccia, mista a blandizie, ebbe pieno successo: i Tabascani passarono dalla sua parte.
85 PRESCOTT, op. cit, pag. 165.
86 1’unico a consigliare, inascoltato, la continuazione della lotta fu il giovane Xicotencatl; in seguito il prode comandante verrà fatto eliminare da Cortès, la cui clemenza - evidentemente - non veniva dal cuore!
87 Qualcuno, scherzosamente ma neppure troppo, ha ipotizzato che, fosse vissuto ai tempi della monarchia borbonica, Napoleone si sarebbe dovuto accontentare, una volta in congedo, di rivincere genialmente “a tavolino” battaglie che altri avevano combattuto e perso!
88 Odiato dai russi, che ancor oggi non esitano a paragonarlo ad Hitler, Bonaparte è considerato dai polacchi, ad esempio, quasi un padre della patria: il sostegno accordato alla loro causa nazionale gli ha assicurato una citazione nella Mazurka di Dabrowski, inno nazionale, e sono in grado di testimoniare personalmente che il suo busto in bronzo, conservato nella reggia di Wilanow, presso Varsavia, è oggetto di un'ammirazione che va al di là dell’indubbio talento dello scultore che l’ha realizzato.
89 Che molti esperti militari dell’epoca consideravano un’arma “d’appoggio”, quando non addirittura truppa da parata; per Napoleone, invece, la cavalleria, in particolare i reggimenti di dragoni e corazzieri, riuniti nella riserva, costituivano una formidabile forza d’urto e di manovra. I corazzieri erano la cavalleria prediletta di Napoleone, che emise personalmente l’ordine di aggiungere alle loro dotazioni una corazza pettorale e dorsale, capace di proteggerli dai fendenti di sciabola e dai colpi di pistola (i cavalleggeri dell’epoca erano in genere privi di corazzatura).
90 Tanto che nell’imminenza di una battaglia, a quel che si dice, i suoi soldati rumoreggiarono e rifiutarono di combattere, finchè non ottennero la promessa, da parte di Napoleone, che egli avrebbe salvaguardato la sua vita e non si sarebbe esposto ai pericoli della prima linea: a tal punto i francesi amavano il loro comandante, e ritenevano indispensabile la sua guida!
91 Cioè come strumento di propaganda e, dunque, di psyops.
92 Così ce lo presenta, ad esempio, Tolstòj in “Guerra e Pace”. Lo sforzo, a tratti patetico e comunque inane, di sminuire la figura del condottiero non toglie peraltro nulla ad una delle più straordinarie opere letterarie mai scritte; e, a parziale scusante di Lev Tolstòj – che non esita, all’occorrenza, a piegare la Storia alla propria visione, come nella descrizione della battaglia di Borodino! – va osservato che “Guerra e Pace” è l’elegia appassionata di un mondo oramai svanito, quando l’autore scrive: il mondo dorato e felice dell’aristocrazia russa di fine ‘700.
93 Nel 1840, quando le ceneri di Napoleone tornarono a Parigi, ciò che più impressionò i cronisti del tempo fu il pianto di centinaia di migliaia di contadini che, al passaggio del feretro, gli facevano ala commossi: molti dovevano a lui se non erano più servi, se i campi faticosamente lavorati nel corso dell’anno erano di proprietà delle loro famiglie.
94 In fondo storia e cronaca insegnano che, se basata sulla menzogna, la propaganda assicura a chi se ne serve un successo effimero!
95 Così si rivolge Napoleone ai suoi soldati: “Dovete essere dei liberatori per coprirvi di onore, non dei saccheggiatori e dei flagelli, coprendovi di vergogna! L’Italia dovete stupirla con un contegno esemplare dopo averla stupita con il vostro coraggio!”
96 Scriverà nelle sue memorie Napoleone: “Dopo il mio passaggio, l’Italia non era più la stessa nazione: la sottana, che era l’abito di moda per i giovani, fu sostituita dall’uniforme; invece di passare la loro vita ai piedi delle donne, frequentavano i maneggi, le sale d’armi, i campi militari (…) Vi sembra poca cosa tutto questo? No! La coscienza nazionale si era formata. E l’Italia ebbe per la prima volta i suoi canti guerreschi e gli inni patriottici.”
97 Significativo un commento di cui non è stato possibile identificare l’autore (ma che è giustificato riportare): “La leggenda ha inizio. Tenteranno poi di farla dimenticare, ma la leggenda resta e resterà. Queste prime vittorie, di fatto, non sono che scontri di poca importanza, ma che Napoleone trasforma però in “Epiche battaglie”, e queste battaglie le trasfigura in “eventi storici”, e raggiunge il doppio effetto aggiungendovi la dotta oratoria. Preparato lo è per davvero! Di ogni Staterello ricorda la sua storia (…)”.
98 Sarebbe improprio definirli francesi, visto che questi ultimi costituiscono, in seno all’armata, un’esigua minoranza!
99 I testi sono riportati da L. TOLSTOJ, Guerra e Pace, 1999 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., pagg. 1560 e ss. A cura di I. SIBALDI.
100 TOLSTOJ, op. cit., pag. 1563.
101 Nota di I. SIMBALDI a pag. 1560 di “Guerra e Pace”.
102 TOLSTOJ, op. cit., pagg. 1563-1564.
103 Nell’estate del 1805 si costituisce, su impulso inglese, la III^ coalizione, che raggruppa, oltre all’Inghilterra, Austria, Svezia, Regno di Napoli e Russia: lo scopo è ancora una volta quello di schiacciare Napoleone. Le battaglie di Ulm ed Austerlitz risalgono al tardo autunno di quello stesso anno 1805.
104 Risulta in realtà che il generale Mack avrebbe preferito combattere e salvare l’onore, ma ne fu impedito dai suoi subalterni. Tolstòj, in “Guerra e Pace”, fa pronunciare al generale, condannato a morte per una resa che non aveva voluto e poi graziato da Francesco I, la seguente frase, rimasta celebre: “sono lo sfortunato generale Mack”.
105 Scrive DAVID G. CHALANDER, Le campagne di Napoleone, Rizzoli, pag. 226: “(...) l’imperatore progettava anche con molta attenzione i suoi piani per distruggere l’esprit de corps dei suoi avversari. Oltre a una guerra con cannoni e baionette, egli combatteva una guerra psicologica la cui forza poteva essere disastrosa per la sorte dell’avversario. Forse il miglior esempio dell’annientamento da parte sua della fiducia e del morale nel nemico si verificò nel 1805 quando la Grande Armata distrusse la retroguardia dello sfortunato generale Mack e con la sua eccezionale velocità di movimento trattenne vicino ad Ulm l’esercito austriaco, magnetizzato e quasi inattivo, fmchè non ebbe altra possibilità se non la resa. E’ chiaro che questo aspetto della strategia napoleonica implicava un accurato studio del carattere del suo avversario e molto spesso i suoi piani erano concepiti per ricavare il massimo dalla sventatezza o dall’esitazione del nemico.”
106 Il 30 novembre Napoleone scrive l’ordine da distribuire e leggere a ogni reparto: “Le posizioni che occupiamo sono formidabili (…) Soldati, dirigerò personalmente tutti i vostri battaglioni; e se, con la vostra abituale audacia, riuscirete a portare disordine e confusione tra le file del nemico, rimarrò a distanza; ma se la vittoria sarà in dubbio anche solo per un momento, il vostro imperatore si esporrà in prima linea.”
107 Così lo chiamerà Napoleone nelle sue memorie.
108 Secondo la scienza militare del tempo.
109 Alludiamo per esempio ad Alessandro Magno, che portò al successo la falange “creata” dal padre Filippo.
110 Relative al piano da lui stesso elaborato, e che andava esponendo ora ai generali alleati.
111 TOLSTOJ, op. cit., pagg. 1563-1564.
112 Lo stesso Alessandro, nell’ultima fase della conquista dell’Asia, avrà enormi difficoltà a battere il satrapo Spitamene, che gli oppone l’arma non convenzionale della guerriglia.
113 Si pensi al principio della Blitzkrieg – che prevede l’impiego congiunto di masse di carri ed aerei – sperimentato dai tedeschi in Polonia e Francia, e successivamente alla base, nel dopoguerra, delle dottrine militari dei due blocchi.
114 PIERO CHIARA, Vita di Gabriele D’Annunzio, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., 1978, pag. 318.
115 CHIARA, op. cit., pag. 319.
116 Tolstoi, nelle ultime pagine di “Guerra e pace”, si appella invece ad inarrestabili movimenti di popoli, che trascinano con sé presunti leaders e geni militari.
117 Tra queste ultime possiamo senza dubbio annoverare i sogni e la bramosia di gloria di uomini effettivamente eccezionali, come Alessandro Magno o Tamerlano; ma anche la fede senza fanatismo di un Saladino, o l’esaltazione mistica di una Giovanna d’Arco.
118 Come sottovalutare l’ondata emotiva che scosse i popoli della duplice monarchia se, allo scoppio del conflitto, lo stesso Siegmund Freud (il padre della psicanalisi, non un uomo qualunque!) espresse “a caldo” il proprio consenso alla guerra e fece dichiarazioni patriottiche?
119 Secondo altre stime, 1201; i conteggi divergono anche per quel che riguarda i morti americani: c’è chi parla di 123, chi – più genericamente – di oltre 100 vittime.
120 La U-Boot-Krieg rappresentò la reazione, da parte germanica, al blocco navale imposto dagli inglesi.
121 Scriveva ad esempio il “New York Tribune”, pochi giorni dopo la tragedia: “Dal 7 maggio milioni di persone in questo Paese si rammaricano che nelle Fiandre nessun americano si batta contro gli unni e i vandali.”
122 Tra essi possiamo citare anche l’assassinio, ad opera dei marinai inglesi, degli 11 superstiti del sommergibile tedesco U 27, affondato il 19 agosto 1915.
123 L’annuncio fu pubblicato in inglese e in tedesco, e venne successivamente ripetuto. Racconta MARGARET HAIG THOMAS, nel suo libro This was my world, 1933: “Il sabato, primo maggio (il giorno della partenza del Lusitania), perchè non vi potessero essere errori circa le intenzioni tedesche, l’Ambasciata Germanica a Washington indirizzò un avvertimento ai passeggeri (…), che fu pubblicato nei giornali del mattino di New York direttamente sotto la notizia della partenza del Lusitania. I passeggeri di prima classe (…) ebbero ancora tempo dopo aver letto l’avvertimento (…) di rinunciare alla traversata (…). Per i passeggeri di terza classe (l’annuncio) arrivò troppo tardi.”
124 Ciò è avvalorato dal manuale internazionale Brassey’s Naval Annual, precursore dell’attuale Jane’s Naval Ships (pubblicazione ufficiale che corrisponde al nostro “Almanacco Navale”, annualmente aggiornato).
125 COLIN SIMPSON, Il Lusitania. Un grande giallo vero. La documentata ricostruzione di una delle più drammatiche tragedie del mare, Rizzoli, Milano 1974.
126 Merita sottolineare che, dopo l’affondamento del Lusitania, il Ministro degli Esteri USA William Jennings Bryan disapprovò la dura nota di protesta del Presidente Wilson, che parlava di “crimine”, e diede le dimissioni dal governo: secondo l’opinione di Bryan, la Germania aveva tutto il diritto di impedire che ai suoi nemici fosse consegnato materiale bellico; e l’imbarco di passeggeri su una nave che trasportava armi, nella speranza che perciò non venisse attaccata, non poteva essere considerato una forma protezione da eventuali attacchi. Passeggeri come “scudi umani”? La realtà, come di seguito illustrata, è forse ancora più sconvolgente.
127 cfr amm. VITO ROMANO SPECIALE, Gli affondamenti mai chiariti della marina militare (1^ parte), in “Bellica.it – Uomini e guerre”. L’ammiraglio della M.M. in congedo V. R. Speciale è autore di apprezzati volumi, tra cui Avvenimenti vissuti dal marinaio Speciale, Aurora Ladispoli.
128 La circostanza è confermata da molti dei sopravvissuti: “avvenne una seconda esplosione, molto più forte (della prima)”, ricorda Mc Millan Adams, un passeggero americano. Documenti emersi nel corso degli anni ’80 confermano la presenza, a bordo del Lusitania, di munizioni ed altro materiale esplosivo.
129 Così JANUSZ PIEKALKIEWICZ, Der Erste Weltkrieg, Econ Verlag, 1998.
130 Un casus belli molto opportuno fu anche l’affondamento, a seguito di esplosione, della corazzata statunitense Maine, nel porto de l’Avana (1898): come prontamente accertato dalla commissione di inchiesta, si trattò di un incidente (la nave era costruita male), ma la responsabilità fu addossata ad una fantomatica “mina spagnola”. Di qui la guerra che si concluse con l’espulsione degli iberici da Cuba e dalle Filippine. Neanche la vicenda di Pearl Harbour (7 dicembre 1941) risulta del tutto chiara: consta che il governo USA fosse al corrente del prossimo attacco nipponico, ma non si fece nulla per evitarlo!
131 Pare incredibile, ma vi è ancora oggi chi crede che i soldati del Reich si divertissero a tagliare le mani ai bambini belgi! Davvero “le bugie hanno le gambe corte”?
132 Già l’espressione “Imperi centrali”, riferita alla Germania e all’Austria-Ungheria, ha in sé qualcosa di negativo: rimanda ad epoche oscure, a concezioni politico-sociali superate.
133 Perché la voce del Fuehrer, e dunque del nazionalsocialismo, giungessero ovunque, il Ministro della Propaganda del Reich, Joseph Goebbels, dotò ogni famiglia tedesca di un apparecchio radio: l’indottrinamento quotidiano diede ottimi frutti, se è vero che, salvo rare eccezioni, il popolo seguì compattamente Hitler nella sua folle avventura. Merita rilevare che l’eccellente idea è stata ripresa dagli americani in Afghanistan, all’alba del 21° secolo: individuato nella radio il mezzo più adatto per far giungere la sua “verità” al popolo afghano, l’amministrazione ha provveduto alla distribuzione gratuita di apparecchi su larga scala.
134 In fondo si è gia chiarito, nel primo paragrafo, che le regole che stanno alla base di qualsiasi campagna propagandistica (sia essa diretta verso l’interno o l’esterno) sono sempre le stesse: è in ossequio ad una scelta politico-descrittiva, non certo per ragioni obiettive, che si escludono dall’ambito psyops le operazioni condotte nei confronti della comunità nazionale.
135 Più ancora del cinismo dei vertici anglo-francesi, colpisce la loro incapacità di analisi politica. Scrive WILLIAM SHIRER, Storia del III Reich, 1962 Giulio Einaudi editore s.p.a., pag. 460: “Ciò che deve aver maggiormente sorpreso Hitler fu che nessuno degli uomini al governo dell’Inghilterra e della Francia (<<piccoli vermi>>, come il Fuehrer li chiamò sprezzantemente in privato dopo Monaco) si rese conto delle conseguenze derivanti dalla loro incapacità a reagire con una certa energia contro il succedersi delle mosse aggressive del capo dei nazisti. In Inghilterra l’unico a capire sembrò essere Winston Churchill. Nessuno sintetizzò le conseguenze di Monaco meglio di quel che egli fece nel suo discorso alla Camera dei Comuni del 5 ottobre: Abbiamo subito una disfatta totale e senza scusanti… (…) Tutti i paesi dell’Europa centrale e del bacino danubiano verranno assorbiti, l’uno dopo l’altro, nel vasto sistema della politica nazista (…) e non pensate che questa sia la fine. E’ soltanto l’inizio…”
136 riportato da SHIRER, op. cit. pag. 461.
137 riportato da SHIRER, op. cit. pag. 461.
138 Più ancora di Monaco, il clamoroso patto Ribbentrop-Molotov rappresentò il maggior successo della diplomazia pubblica nazista.
139 Era stata una delle ragioni della drammatica rottura con Lev Trotzki, che sognava invece la rivoluzione mondiale.
140 Indro Montanelli, che seguì la guerra russo-finlandese in qualità di giornalista, esalta l’eroismo dei finni: “Resta il problema del buio (…). Ma nell’assoluto buio i finlandesi, allenati, marciano ugualmente come pipistrelli bianchi. La luce è necessaria solo quando si debba far fuoco. Allora in ogni plotone ci sono due o tre uomini-faro, con un potente riflettore pendulo sul petto. Sono i predestinati alla morte. Quando si è preso contatto col nemico, l’uomo-faro viene isolato; tutto il resto della truppa si scosta riparando alle ali dietro tronchi di abete. L’uomo-faro accende, fruga la tenebra antistante. Per lui sono i primi colpi avversari. Ma i compagni, scivolando rapidamente di albero in albero nella zona di ombra che bordeggia il canale di luce del riflettore, si portano a poca distanza dal nemico abbagliato e con le pistole-mitragliatrici, dal tiro non lungo ma rapido, falciano. (…) E’ da notare che il faro in queste truppe è una specie di onorificenza, di medaglia che si dà come prova e segno di distinzione ai soldati i quali si mostrano più valorosi aul campo.” Tratto da I. MONTANELLI, Dentro la Storia, Edizione CDE s.p.a. Milano, 1992, pagg. 94-95.
141 MONTANELLI, op. cit., pag. 53.
142 MONTANELLI, op. cit., pag. 63.
143 MONTANELLI, op. cit., pag. 73.
144 La Storia non si fa con i “se” ed i “ma”, d’accordo; tuttavia, numerosi storici ritengono che la propaganda bolscevica avrebbe sortito effetti ben più rilevanti sulla popolazione tedesca uscita stremata dal primo conflitto mondiale, vuoi per la grande diffusione del socialismo in Germania all’epoca, vuoi per le disperate condizioni del Paese. E’ opinione abbastanza diffusa che, se l’Armata rossa non fosse stata fermata dal maresciallo Pilsudski davanti a Varsavia e fosse dilagata in Europa, il comunismo si sarebbe facilmente – “naturalmente” - affermato in Germania.
145 “La caduta di Berlino l’ho vista con i miei occhi” – testimonianza di Stefan Doemberg raccolta da MARINA ROSSI, ne “Il Piccolo”, domenica 1 maggio 2005.
146 ARRIGO PETACCO, Faccetta nera – Storia della conquista dell’Impero, 2003 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Milano, pag. 219.
147 Certo ci fu sopravvalutazione, da parte italiana, delle forze a disposizione degli inglesi; ma è dubbio se ciò sia da imputarsi ad attività di disinformazione o non, piuttosto, alla scarsa preparazione dei comandanti ed alla mancanza di ricognitori e reparti esplorativi. In generale le testimonianze suggeriscono l’impressione che la propaganda britannica mirasse principalmente a deprimere gli italiani e provocarne la resa: con risultati non del tutto soddisfacenti, se è vero che le nostre truppe si batterono in genere con coraggio.
148 Accenni ad episodi di psyops affiorano nelle pagine di artisti e romanzieri che vissero l’esperienza della guerra. Scrive ad esempio YUKIO MISHIMA, Confessioni di una maschera, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1947, p. 189: “E poi, ecco che un giorno una piccola squadriglia di apparecchi in formazione impeccabile filò tranquillamente attraverso lo stupido tiro della contraerea e sparse giù dal cielo estivo una pioggia di opuscoletti propagandistici. Quegli opuscoli contenevano il testo delle proposte di resa.”
149 Per quanto riguarda il nostro Paese, è solo nell’aprile 2003 che ha luogo la riconfigurazione del 28° Reggimento “Pavia”: lo scopo è quello di sviluppare nelle Forze Armate la funzione operativa psyops. E’ peraltro a partire dal febbraio 2004 che il Reggimento ha ricevuto il personale necessario, e si è dato avvio ai percorsi formativi. Sempre nel 2004 parte dell’unità è stata distaccata in Iraq, nell’ambito della missione Antica Babilonia, per svolgervi attività psyops.
150 Nella successiva guerra di Corea (1950-52), la 1^ Compagnia di disseminazione (audio e volantini) operò ininterrottamente alle dipendenze dell’8^ Armata come unità tattica di guerra psicologica, utilizzando degli altoparlanti montati su veicoli terrestri e su mezzi aerei, al fine di diffondere i messaggi vocali nel modo più efficace possibile. Rimasero tuttavia i volantini il mezzo di dissuasione maggiormente utilizzato; i temi toccati riguardavano la convenienza ad arrendersi, il buon trattamento riservato dagli USA ai prigionieri, la nostalgia della casa lontana e della famiglia.
151 Per esempio quella tra psyops e propaganda (esterna), che risponde forse ad esigenze di political correctness ma è semplicemente assurda: ritenere che le operazioni psicologiche veicolino esclusivamente notizie “vere” significa 1) negare la storia stessa di psyops; 2) renderla un inutile doppione della pubblica informazione!
152 Sempre ammesso che Al Qaeda – perlomeno così come abitualmente descritta dai mezzi di informazione – esista davvero, e sia effettivamente guidata da un “fantasma” (Osama bin Laden) che fa la sua puntuale comparsa, via etere, subito dopo i più brutali attacchi terroristici. Certo, la “bassa manovalanza” del terrore è composta di fanatici integralisti, questo è provato, ma quanto si sa della “cupola”? Ben poco, in verità… Se, e diciamo se, a tirare i fili non fosse uno sceicco cieco, bensì qualcun altro… qualcun altro in grado di pianificare ed eseguire attacchi d’inaudita violenza nei quattro angoli del globo… allora costituiremmo noi tutti il “gruppo obiettivo” della più sconvolgente operazione di psyops “nera” della Storia, e – cosa di per sé assai meno grave – quasi tutte le considerazioni esposte negli ultimi capitoli perderebbero valore.
153 Dato fornito da G. F. GHERGO, Il terror bombing, articolo pubblicato sui numeri 135 e 136 della rivista “Storia Militare”. A titolo di raffronto, si consideri che nel corso di tutta la guerra i tedeschi sganciarono sulla Gran Bretagna in tutto 74.172 t. di bombe, pari a meno di un ventunesimo (pag. 15)!
154 GHERGO, op. citata, pag. 15.
155 Citato in B. GREENHOUS et al., The Crucible of War 1939-1945. The Official History of the Royal Canadian Air Force, vol. III, Toronto, University of Toronto Press, 1994.
156 Dopo il bombardamento di Dresda, in una nota ai capi di stato maggiore datata 28 marzo 1945, Churchill scrisse: “Mi sembra sia giunto il momento di ridiscutere il problema del bombardamento delle città tedesche condotto al solo scopo di accrescere il terrore, sebbene i pretesti addotti siano stati altri…” (citato da GHERGO, op. cit., pag. 21).
157 Il celebre bombardamento tedesco su Coventry, che provocò 380 vittime (contro i 25-36.000 morti, causati dalla “tempesta di fuoco” scatenata a Dresda) si giustificava, da un punto di vista militare, con quella che G. F. Ghergo definisce – a pag. 11 del suo articolo – “una concentrazione altissima – forse la più elevata di tutta la Gran Bretagna – di industrie di interesse bellico”.
158 D’altronde, da che mondo è mondo, i vincitori hanno ragione e i vinti torto; nella sostanza, il “processo” di Norimberga non si sottrae a questa logica, basata più sulla forza che sul diritto.
159 Che i bombardamenti mirassero solo marginalmente ad arrestare lo sforzo bellico tedesco lo prova il fatto che, nel 1944, la produzione di carri ed aeroplani superò enormemente quella degli anni prebellici.
160 A proposito dei risultati del Terror bombing, G. F. Ghergo così conclude (pag. 23): “E’ stato scritto che nelle ultime settimane del conflitto il morale dei tedeschi cominciò a vacillare, anche se si aggiunge che ciò fu dovuto più alla certezza di avere irrimediabilmente perso la guerra che ai bombardamenti. Ci sembra però che, se ci fu, questo scoramento non dette segni evidenti di sé. (…) Le truppe tedesche contrastarono l’avanzata dei sovietici e degli Alleati fino agli scontri finali (…), mentre la popolazione non mostrò mai alcun segno di cedimento. (…) Dunque l’obiettivo primario del Bomber Command, quello che aveva portato alla strage dei civili, non fu raggiunto.”
161 In una nota scritta al Segretario di Stato J. Foster Dulles il 24 ottobre 1953.
162 osserva il FONTANA, op. cit.: “Purtroppo è comunque triste constatare che, nonostante gli sforzi profusi a fattor comune da tutti gli “addetti ai lavori”, le PSYOPS messe in atto al termine del conflitto iracheno non si sono dimostrate efficaci quanto quelle operate a premessa.” Non altrettanto efficaci? Diciamo pure del tutto inefficaci! Più in generale, il susseguirsi quotidiano di sanguinosi attentati terroristici in Irak – ai danni soprattutto della popolazione civile! – è indice dell’incapacità americana di controllare il territorio assoggettato: incapacità sorprendente (e, per alcuni, sospetta), ove si consideri che il ben più modesto apparato bellico di Saddam si è sempre dimostrato in grado di impedire infiltrazioni esterne e di stroncare qualsiasi forma di opposizione armata al regime.
163 Chi ricorda i nomi dei generali statunitensi che hanno condotto le operazioni militari nella II^ guerra del Golfo, pur così vicina nel tempo (2003)? O quello del comandante in capo delle truppe attualmente schierate in Irak? Quasi nessuno, immagino. Il nome del generale Schwarzkopf, stratega della I^ guerra del Golfo, è invece ancor oggi popolare, e molti non avrebbero difficoltà a riconoscerne la fisionomia. Il fatto che gli americani lo accostino ai più grandi condottieri della Storia può apparirci esagerato: ciò non toglie che si trattasse di un militare di notevoli doti e personalità. E’ davvero un caso che le operazioni psicologiche poste in essere nella prima guerra abbiano prodotto risultati lusinghieri, e quelle odierne si rivelino invece fallimentari?
164 FONTANA, op. cit.
165 L’autore è Andrea ROMOLI.
166 ROMOLI, ibidem.
167 afferma il gen. FABIO MINI, ex comandante della Forza Nato in Kosovo: Purtroppo la Coalizione dei volenterosi ha perduto “la battaglia essenziale”, quella “per la conquista delle menti e dei cuori del popolo iracheno”. Gli fa eco, dalla prima pagina de “Il Piccolo” del 7 ottobre 2004, FERDINANDO CAMON: “La guerra è persa, il mondo sta peggio (...) Ad ogni ostaggio catturato, i terroristi suscitano il panico per un mese, tra torturati, uccisi esibizioni video, minacce, suppliche del condannato ed esecuzione finale. Poiché questa è una guerra mediatica, il terrorismo è più potente dell’Occidente. Perciò sta vincendo.”

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