GIOVENTù BRUCIATA
di Gaspare Serra
“Se i giovani non hanno sempre ragione, la
società che li ignora e li emargina ha sempre torto…”
(François Mitterand)
DALLA
“BEAT” ALLA “NEET” GENERATION:
GIOVANI
SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI…
SOMMARIO:
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NON UN PAESE PER GIOVANI…
Saranno forse “non + disposti a tutto” -ricalcando un noto slogan
sindacale- ma i giovani italiani dovranno
al più presto farsi le ossa per crescere
in un Paese di “lupi travestiti d’agnello”, pronti a sbatterli sommariamente sul
banco degli accusati.
◇ Siete dei “Neet”? “Ma che lazzaroni!” (il pensiero tagliente
di Vittorio
Feltri, firma storica del giornalismo italiano);
◇ Siete alla ricerca di prima occupazione? “Ma andate ai mercati a scaricare cassette!” (l’invito fraterno
dell’ex ministro Brunetta);
◆ Cercate un lavoro? “Non siate choosy, per carità!” (l’esortazione
spocchiosa del ministro Fornero);
◇ Volete un
consiglio? “L’agricoltura rende le persone sempre giovani…” (altro
suggerimento materno di Elsa Fornero);
◆ Non trovate lavoro? “È ovvio, lo
cercate accanto a mammà!”
(lo sfogo seccato del ministro Cancellieri);
◇ Lo avete trovato, ma nel pubblico
impiego? “I soliti fannulloni!” (la sintesi ideale del Brunetta-pensiero);
◆ Lo state ancora cercando, non più giovanissimi?
“Che generazione perduta…” (la conclusione pilatesca del senator Monti…).
Al bando ogni senilismo demagogico
o giovanilismo di comodo, è solare che sia facile scovare, nel mucchio dell’intera
“generazione Y” nata a
cavallo tra gli anni ‘80 e ’90, adolescenti
viziati e menefreghisti, pronti a prendersela col mondo intero pur di non
assumersi le proprie responsabilità; studenti
parcheggiati all’università, che preferiscono vivere di rendita piuttosto
che cercarsi un lavoro; giovani fannulloni
impiegati nella pubblica amministrazione i quali, conquistato il “posto
fisso”, ripongono il minimo impegno nel proprio lavoro.
Di “mele marce” se ne trovano
in qualsiasi paniere: chi fa
politica, anzi, ha meno autorità di chicchessia nel dare lezioni di morale…
Esiste, però,
un’Italia “per bene” di cui andare fieri: una “meglio gioventù”, silenziosa
ma pur sempre maggioritaria, che tutti i
giorni si fa in quattro per formarsi al meglio nelle nostre università, per mantenersi in qualche modo negli studi o per farsi strada nel mondo
del lavoro puntando sulle proprie forze.
È accettabile, allora,
che lo sport nazionale preferito da certi politici -ultimamente praticato
con successo anche dai tecnici- sia
divenuto il “tiro al bersaglio dei giovani”, una gara senza regole ad offendere,
umiliare, bistrattare un’intera generazione (ieri sconsideratamente cresciuta a
“pane e televisione”, oggi maldestramente rabbonita con “bastoni e carote”)?
Il ministro del Lavoro ha esortato i giovani ad “accontentarsi”
nella ricerca di prima occupazione.
Il vero problema, semmai, è che ci si accontenta fin troppo: i più
non sono affatto “schizzinosi”, né nella ricerca del primo né del secondo,
terzo od ennesimo lavoro!
Il 71% dei giovani under 35 è
disponibile ad accettare qualsiasi lavoro, purché remunerato: solo il 20% preferisce aspettare il posto
che lo soddisfi al meglio (fonte Cisl).
Chiedere quantomeno d’essere
pagati, fosse anche per il
più umile mestiere, vuol forse dire esser “choosy”?
Un
recentissimo studio di Bankitalia,
inoltre, ha rivelato che, tra i giovani entrati nel mondo del lavoro tra il
2009 e il 2011:
◆ il 25% dei laureati si è adatto benissimo a svolgere un’occupazione
con bassa o nessuna qualifica, più
dei propri coetanei tedeschi (in Germania il dato scende al 18%);
◇ oltre il 30%, invece, svolge un’occupazione del
tutto diversa da quella per la quale ha studiato.
Forse il mondo reale assume tutt’altro
aspetto dall’alto di una cattedra…
Prendersela con
Elsa Fornero, però, è come sparare sulla croce rossa, avendo il Ministro già
abbondantemente dato prova -dopo le sue prime “lacrime
di coccodrillo” - di aver la stessa sensibilità di un procione in calore!
Non si tratta
forse della medesima persona che si è rivolta ai malati di Sla con queste
parole: “Anche
la vita da ministro è dura…”?!
Liquidare il problema dei giovani senza lavoro
con un “vadano a scaricare la frutta al
mercato”, poi, è quanto di più
banale e demagogico si possa affermare.
Qual è la funzione della Politica?
Preparare sommessamente i giovani “al peggio” oppure tentare di offrir loro opportunità, ricercando
qualsiasi soluzione per sciogliere i nodi e lacciuoli che legano il mercato del
lavoro e bloccano l’economia?
Qua è
il compito di un ministro del Lavoro?
Invitare i ragazzi a competere con la manodopera
rumena e la manovalanza tunisina o stimolarli a misurarsi con i giovani ingegneri
indiani e i nuovi imprenditori cinesi?
Se s’inculca nei giovani la convinzione che il lavoro
serva soltanto a guadagnarsi da vivere e “portare
a casa lo stipendio”, non anche a realizzarsi e mettere in campo le
proprie capacità, come stupirsi del
fatto che i laureati diminuiscono sempre di più, mentre crescono gli inattivi e
gli sfiduciati?
Se s’inibisce
nei giovani finanche la capacità di sognare un futuro migliore, che ne sarà di loro?
L’impressione è che, dietro queste ripetute
“gaffe”, si celi una strategia ben mirata: la ricerca dell’“alibi perfetto” per sottacere le gravi responsabilità
di un’intera classe dirigente nell’affrontare i problemi della mancanza di
occupazione, crescita e sviluppo, che certo non dipendono solo da fattori
esogeni (l’assenza di un’Europa politica, la crisi finanziaria internazionale o
la congiuntura economica sfavorevole).
Un esempio
chiarificatore?
Tra il 1999 ed il 2007 l’Italia ha
beneficiato del c.d. “dividendo dell’euro”, ovvero di bassi tassi d’interesse sul debito pubblico che hanno consentito di risparmiare centinaia
di miliardi (secondo alcuni economisti, addirittura “100 miliardi” di euro
all’anno).
Un enorme “tesoretto”
che, se oculatamente speso in politiche d’investimento e affiancato da riforme
strutturali, avrebbe consentito all’Italia di essere tra i paesi più virtuosi d’Europa,
piuttosto che tra gli stati “pigs” citati come modello negativo persino nella
campagna elettorale americana.
Di chi la responsabilità se l’Italia negli
anni Duemila ha “dilapidato” queste risorse?
Se in capo ad
ogni italiano grava un debito pubblico di oltre “30.000 euro”, in termini
assoluti il terzo al mondo (tra il 1950 e il 1969 la media del debito pubblico
in rapporto al Pil era del 30%, oggi ha sfondato quota 126%)?
Se la spesa
pubblica è lievitata a dismisura (nel 1950 si attestava sotto il 25% in
rapporto al Pil, oggi supera il 50%)?
Se la pubblica
amministrazione è divenuta un ente erogatore di stipendi, piuttosto che di
servizi (Sicilia docet)?
Se il nostro
regime tributario è il più opprimente al mondo (nel 1951 la pressione fiscale
era del 18,2%, oggi supera il 55%)?
Se i costi del
lavoro e dell’energia sono nettamente più alti della media europea?
Se le ultime grandi
imprese italiane (vedi la Fiat) e le poche multinazionali straniere presenti (vedi
l’Alcoa) pagherebbero penali pur di delocalizzare?
Se la corruzione
ci costa “60 miliardi” di euro l’anno, mentre l’evasione fiscale il doppio?
Di chi la responsabilità se l’Italia
si è ridotta ad un Paese “a corto di futuro”, con il cappio al collo del debito e la pistola dei mercati alla
tempia?
Tutto questo è forse imputabile ai giovani che solo oggi si affacciano
sul mercato del lavoro, magari illusi che il mondo reale non fosse poi così
distante da quello rappresentato da “mamma Tv”?
È colpa dei giovani italiani se un loro coetaneo su tre è senza lavoro?
Se la loro generazione è divenuta “precaria” per antonomasia?
Se l’ingresso nel mercato del lavoro solitamente passa attraverso la scorciatoia
obbligata di un’occupazione in nero e senza tutele?
Se il mondo delle professioni è chiuso a camera stagna da caste
autoreferenziali, mentre il mercato del lavoro è drogato dal precariato?
Se gli stipendi degli italiani sono in media i più bassi d’Europa, per
molti insufficienti a garantire una piena indipendenza economica dalla famiglia
d’origine?
Se molti di loro -i migliori o i più audaci- preferiscono scappare all’estero
piuttosto che accontentarsi di un lavoro tanto dequalificato quanto malpagato?
Su un punto ha
perfettamente ragione il viceministro Martone: essere giovani in Italia vuol
dire aver ricevuto in dote dalla sorte una “sfiga” pazzesca!
A chi il compito di indicare una qualche
via d’uscita, “una luce in fondo al tunnel”?
A una classe politica “novecentesca”, la
stessa che fin oggi ha scavato la fossa sotto i piedi dei propri figli?
Ad un governo tecnico -il più sobrio degli ultimi 150 anni- che, definendo
“perduta” la generazione dei 30/40enni, ha già giudicato spacciati un quinto dei
cittadini che rappresenta?
Che futuro può avere un Paese che,
piuttosto che riconoscere i giovani come un “organo vitale” del Sistema, li
liquida sbrigativamente come un “arto
in cancrena” da amputare per salvare il resto del Corpo sociale?
L’ALLARME DISOCCUPAZIONE
Articolo
1
della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro…”.
Si, ma quale?
La Repubblica italiana pare piuttosto
“affondare” sul lavoro: un lavoro che sempre
più manca, si fa “nero” o diviene precario.
Secondo gli ultimi dati Eurostat:
◆ nell’Eurozona (nell’area
dei 17 paesi che adottano l’Euro) la
disoccupazione è salita a settembre all’11,6%
(appena un anno prima si fermava solo al 10,3%);
◇ in tutti i 27 stati dell’Unione,
i senza lavoro hanno raggiunto quota 10,6% (contro il 9,8% del’anno precedente);
◆ in un solo mese, il numero di disoccupati è salito di 169 mila unità nell’Ue a 27 (di 146 mila nel’’Eurozona);
◇ in un solo anno, i
senza lavoro sono cresciuti di 2,145
milioni di unità nell’intera Ue (2,174 milioni solo nell’area della moneta
unica);
◆ in termini assoluti, l’esercito di disoccupati ha raggiunto
quota 25,751 milioni in Europa (18,49 milioni solo nell’Eurozona).
E in Italia?
Nel nostro Paese, il tasso di
disoccupazione ha raggiunto il 10,8% (fonte Istat):
◆ a far peggio di noi i paesi
più direttamente travolti dalla crisi finanziaria del 2008 (Irlanda 15,1%), i
paesi del sud Europa più colpiti dalla crisi dei debiti sovrani del 2010
(Spagna 25,8%, Grecia 25,1% e Portogallo 15,7%) ed i paesi dell’Est europeo
(Lettonia 15,9%, Slovacchia 13,9%, Bulgaria 12,4% e Lituania 12,9%);
◇ a far nettamente meglio, invece,
i paesi del nord Europa e dello “zoccolo duro” europeo (Danimarca 8,1%, Gran
Bretagna 7,9%, Finlandia 7,9%, Svezia 7,8%, Belgio 7,4%, Germania 5,4%, Olanda
5,4%, Lussemburgo 5,2% ed Austria 4,4%).
L’Italia, così, si pone apparentemente in una posizione mediana: a
fronte di quasi 23 milioni di occupati (pari al 56,9% della popolazione
attiva), sono “2,8 milioni” i disoccupati:
“554 mila” unità in più in un solo anno.
Per intendersi, è come
se nel 2012 tutti gli abitanti di una città come Genova, la sesta più popolosa
d’Italia, avessero perso il posto di lavoro!
Ma, come se non
bastasse, questa è solo un’illusione
statistica che nasconde una realtà del “non lavoro” ben più drammatica.
La ragione?
PRIMO:
Annoverando tra i disoccupati anche
coloro che un lavoro hanno smesso di cercarlo -i cd. “scoraggiati”-, il tasso di disoccupazione salirebbe al “12,5%”,
attestandosi come il sesto più alto dell’Eurozona
(fonte Bce).
SECONDO:
Il “trend” della disoccupazione è allarmante:
per il 2013 si prevede che i senza lavoro raggiungeranno i “3 milioni” e sfonderanno
il muro del’11%, giungendo a quota “11,4%” (fonte Istat); tra il 2011 e il 2020, inoltre, il
numero dei disoccupati aumenterà di oltre “1,5 milioni” di unità (fonte Cnel).
TERZO:
Dal novero ufficiale dei senza lavoro restano
esclusi:
◆ i cd. “Neet”, giovani
che né studiano né si specializzano né cercano lavoro (oltre “2 milioni” in Italia);
◇ i giovani che studiano e non lavorano (non a caso in Italia ci si
laurea più tardi che nel resto d’Europa);
◆ le donne che hanno rinunciato a cercare un lavoro, preferendo dedicarsi
a tempo pieno alla famiglia (non a caso il mercato del lavoro italiano è tra i
più penalizzanti e discriminatori per le donne);
◇ i cassintegrati, lavoratori dipendenti per il quali il sussidio, il
più delle volte, precede un formale licenziamento (500 mila);
◆ i precari, tutti coloro che non hanno un contratto a tempo
indeterminato (quasi “4 milioni”);
◇ i cd. “precari mascherati”, ovvero i falsi collaboratori e le false
partite Iva con un solo committente (circa 400 mila).
In conclusione, allargando
la platea dei senza lavoro a chi un lavoro non lo cerca, lo ha precario o
rischia seriamente di perderlo, si sfiora quota “9 milioni”
di italiani!
IL DRAMMA DELLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE
“Giovani e lavoro”. Un ossimoro
o un binomio ancora possibile?
Secondo l’ultimo rapporto di Eurostat (sempre più somigliante a un “bollettino di guerra” aggiornante il conto
dei “caduti dal lavoro”), il quadro occupazionale si fa sempre più drammatico
per i giovani: a settembre, tra
gli under 25 il tasso di disoccupazione ha raggiunto quota 23,3% in
Europa (contro il 21% dell’anno scorso) e i giovani disoccupati sono 5,520 milioni nel Vecchio Continente (3,493
milioni solo nell’Eurozona).
Secondo l’Oil, inoltre, quest’anno la disoccupazione giovanile raggiungerà quota
12,7% a livello globale, salendo al 17,5% nelle economie sviluppate.
E in Italia?
Il nostro Paese detiene un primato ben poco invidiabile nell’Eurozona,
raggiungendo il podio della disoccupazione giovanile collocandosi al terzo
posto, insieme al Portogallo, con il
35,1%:
◆ a far peggio di noi solo i cd. stati “pigs”, dove anche
più della metà degli under 25 non lavora (54,2% in Spagna e 55,6% in Grecia);
◇ a far nettamente meglio i paesi del centro Europa, dove la
disoccupazione giovanile non supera nemmeno la doppia cifra (4,4% in Austria,
5,2% in Lussemburgo, 5,4% in Olanda e Germania).
Il “tallone d’Achille” del Bel Paese si
conferma, dunque, la mancanza d’impiego
fra i più giovani: circa “2,8 milioni” i senza lavoro (fonte Istat), un numero pari al
totale dei residenti della Capitale!
Se un giovane italiano impiega
mediamente 33 mesi -quasi 3 anni!- per trovare il primo impiego, negli
Stati Uniti di mesi ne bastano cinque (fonte Cerp).
E non fanno ben sperare le
previsioni del Cnel, secondo le quali, tra il 2011
e il 2020, i giovani attivi italiani si ridurranno di oltre “515 mila” unità.
La disoccupazione giovanile è un fenomeno di
per sé “fisiologico”,
dovuto alla maggiore inesperienza e alla minore ricerca di lavoro da parte dei
giovani.
Quando raggiunge simili livelli
da “codice rosso”, però, si è di fronte ad una “patologia del Sistema”, che
non può fronteggiarsi né con dosi massicce di ottimismo né con un arrendevole
fatalismo!
IL FENOMENO DEI “NEET”
Una “gioventù bruciata”, senza né arte né
parte e con il futuro alle spalle, sta crescendo in Europa.
La Banca d’Italia li ha definiti “scoraggiati”, l’Istat
“inattivi”, lo Svimez -prendendo in prestito un termine coniato nel Regno Unito-
“Neet” (“not in employment, education or
training”):
comunque li si chiami, giovani d’età compresa
tra i 15 e i 29 anni, non iscritti
ad alcun percorso formale di istruzione, non frequentanti alcun corso di
formazione, senza lavoro e
rinuncianti a cercarne alcuno.
Quanti sono i Neet?
Nel triennio 2005-2008 erano poco meno di 2
milioni, pari al 20% della popolazione nella stessa fascia d’età; nel 2010 sono saliti a “2,3 milioni”,
circa il 23,4% (fonte Banca d’Italia e Ministero del Lavoro).
Solo in Bulgaria gli
“scoraggiati” sono più numerosi:
in Francia e nel Regno Unito sono il 14,6% della popolazione giovanile, in
Germania appena il 10,7%.
Se i Neet italiani fossero messi tutti
insieme, costituirebbero la seconda città del Paese, essendo pari alla
somma degli abitanti di Napoli e Torino messi insieme: se non si interviene in tempo a fronteggiarne la crescita, così, il rischio è che in pochissimo tempo l’immaginaria
“città dei Neet” diventi la prima!
I soggetti più a rischio di trovarsi in
tale “limbo”, secondo un’indagine di Eurofound,
sono i giovani:
◆ presentanti delle disabilità (un individuo con disabilità ha il 40%
in più delle possibilità di appartenere a questo gruppo);
◇ con un background
di immigrazione (i giovani immigrati, rispetto ai coetanei autoctoni, hanno
il 70% in più delle probabilità di diventare Neet);
◆ con un basso livello di istruzione (o i cui genitori hanno un basso
livello di istruzione);
◇ con un reddito familiare basso (o con genitori disoccupati);
◆ meridionali (le città che detengono il primato negativo di giovani
che né lavorano né studiano sono tutte concentrate al Sud: Napoli 37%, Catania
36,4%, Brindisi 36,3% e Palermo 36,3%).
Perché non si
può restare indifferenti?
Per una ragione semplice: i Neet sono il termometro di un crescente “malessere sociale” che
rischia di contagiare tutto il Sistema!
Il “neetismo”
comporta un enorme costo sociale,
legato non solo all’inattività di una parte della popolazione in età lavorativa
ma anche ai sussidi per la disoccupazione e alle altre forme di sostegno cui tali
soggetti necessariamente faranno affidamento.
Secondo Eurofound, nei 21 Paesi membri UE presi in
esame, i costi economici della mancata partecipazione dei Neet al mercato del
lavoro ammonterebbero ad oltre “90 miliardi” di euro l’anno (2 miliardi a
settimana): l’inserimento nel mercato del lavoro di solo il 10 % dei Neet,
quindi, comporterebbe un risparmio di quasi “10 miliardi”.
Solo in Italia, il costo economico dei Neet supererebbe i “26 miliardi”
di euro l’anno, pari all’1,7% del Pil.
Il profilo medio
di un Neet fotografato dall’Istat è quello di un giovane che vive coi genitori,
non va al teatro né al cinema, legge meno dei propri coetanei, non fa sport e
naviga poco su internet: dispone ovviamente di più tempo libero ma,
generalmente, lo spreca dormendo, mangiando e lavandosi di più, guardando la
tv, fumando e bevendo molto.
Una generazione “vivacchiante”, sonnecchiante,
apatica, annoiata, nichilista, rassegnata... un po’ fannullona e bambocciona,
eternamente in attesa che improbabili occasioni di lavoro bussino alla porta…
Ma è giusto “generalizzare”?
È possibile credere
che l’Italia sia un Paese con un esercito di oltre 2 milioni di “fannulloni”?
E la loro sarebbe una
“scelta di vita”?
L’impressione
è che i veri “sfaccendati” siano un’esigua minoranza, anche fra i Neet.
Cosa ce lo suggerisce?
◆ I Neet “disoccupati” sono 729 mila. Ma è corretto
giudicare sfaticati chi semplicemente un lavoro lo ha perso, per di più in un paese profondamente in crisi
come il nostro?
◇ I Neet “inattivi”,
che non si dedicano alla ricerca di un lavoro in quanto scoraggiati
ma disposti a lavorare se solo cogliessero un’occasione, sono 746 mila. È forse loro
la colpa di vivere in una realtà dove spesso bravura e passione non contano
nulla, piuttosto servono le amicizie o, al limite, l’utilizzo del corpo
come merce di scambio?
◆ I Neet “non disponibili” al lavoro sono 635 mila. Di
questi, però, quasi la metà (279
mila) rinunciano per dedicarsi a tempo pieno alla famiglia. È giusto stigmatizzare tale
scelta in un Paese che non offre adeguati servizi alle famiglie ed in cui per le
donne è ancor più difficile trovare lavoro e ottenere una retribuzione
dignitosa?
◇ Di Neet “per scelta” -i
veri “scansafatiche”, punto e basta- ne
rimarrebbero soli 356 mila: sempre tanti, ma pur sempre lontani da quota 2 milioni!
Stereotipare i Neet come “fannulloni” non aiuta a comprendere questa realtà sociale.
Non a caso,
secondo l’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro), per molti giovani l’inattività non è una scelta ma il risultato di
scoraggiamento e marginalizzazione, determinato da un insieme di fattori (la
mancanza di qualifiche, problemi di salute e povertà, altre forme di esclusione
sociale…).
Se non si interviene
tempestivamente per ridare stimoli e speranze ad una generazione sfiduciata, il
rischio è che presto sia troppo tardi.
Come sarà possibile disinnescare questa “bomba sociale” tra 10 o 15 anni, quando i Neet di oggi non potranno più
contare sul sostentamento familiare e saranno troppo vecchi anche per i lavori
più umili e dequalificati?
Che futuro aspetta un’intera
generazione senza un lavoro stabile, una casa e l’opportunità di formarsi una
famiglia?
IL FENOMENO DEI “BAMBOCCIONI”
In Giappone li chiamano “parasaito shinguru” (“single
parassiti”), in Germania “nesthockers” (“quelli che non abbandonano il nido”),
in Francia “Tanguy” (da un omonimo
film uscito nel 2001), in Inghilterra “kippers” (acronimo di “kids in parents pockets eroding retiremen saving”,
tradotto “quelli che restano a casa ed erodono la pensione e i risparmi dei
genitori”).
In Italia è stato il compianto Padoa Schioppa, nel 2007 ministro dell’Economia, a coniare l’infelice neologismo
“bamboccioni” per definire quei
giovani incapaci di affrancarsi dai
genitori, continuando a vivere sotto il loro stesso tetto ben oltre il
termine degli studi e l’ingresso nel mondo del lavoro.
Da allora, l’interesse verso
tale fenomeno sociale sembra essere cresciuto di pari passo al fenomeno stesso.
Quante sono le vittime di quest’apparente
“sindrome di Peter Pan”?
Più del 31% degli italiani maggiorenni abita con almeno un genitore:
tra i 18-29enni coabita con i genitori il 60,7%, tra i 30-45enni il 26% (fonte Censis).
Anche se il fenomeno
non è esclusivamente italiano, nel
nostro Paese si resta in famiglia fino ad un’età che non ha pari nel resto d’Europa:
in media, 28 anni.
Quando parlò per la prima volta Padoa Schioppa della necessità di “mandare
i bamboccioni fuori di casa”,
lo scandalo dei subprime americani era solo agli inizi.
Tuttavia la crisi economica ha segnato virtualmente uno spartiacque: se, prima del 15 settembre 2008 (data del fallimento della Lehman
Brothers), la causa dei cd. “mammoni”
era per lo più sociologica (convenienza,
pigrizia, riluttanza ad assumersi responsabilità), adesso la causa è sempre più meramente economica (bamboccioni lo si è rimasti
-o lo si è divenuti- “per necessità”).
Non più solo la “paura del
futuro” bensì le problematicità del presente sono le cause prime della cd. “sindrome del
ritardo”, per cui si esce in età più avanzata dalla scuola e dalla famiglia.
Disoccupazione, difficoltà ad arrivare a fine mese, impossibilità a
pagarsi l’affitto o ad accedere a un mutuo per l’acquisto
di una casa: rendersi indipendenti,
in questo contesto, è un “lusso” per pochi!
La famiglia è divenuta l’unico welfare efficiente, un provider impeccabile di servizi e tutele,
un modello eccezionale di solidarietà tra generazioni.
Nulla di deprecabile, sennonché, quando la casa natia diviene più che un’opportunità
una prigione, il rischio per giovani disabituati alle responsabilità della vita
è di non riuscire più a venirne fuori!
Come se
non bastasse, le famiglie italiane si stanno progressivamente impoverendo (dati Istat):
◆ mentre nel 1995 una
famiglia riusciva a mettere da parte il 22% delle proprie entrate, nel 2011 la quota
di reddito accantonato si è ridotta all’11,5%;
◇ oltre il 15,7% delle
famiglie italiane vive in condizioni di disagio economico, con una percentuale che
supera il 25% nel Mezzogiorno;
◆ una su tre, infine, non
riesce più a sostenere spese impreviste, ricorrendo all’indebitamento.
Per quanto tempo ancora la rete familiare di
protezione sociale saprà contenere l’onda montante del disagio giovanile?
GLI STAGISTI
“Uno su mille ce la fa”.
Quale altra canzone candidare
ad “inno ufficiale” della Repubblica degli stagisti?!
Gli stagisti (o tirocinanti) sono studenti (o neolaureati) interessati
a fare esperienza pratica nel mondo del lavoro per essere avviati ad una
professione.
In Italia:
◇ circa il 55% dei laureati, sia triennali che specialistici, svolge
un tirocinio appena concluso il proprio percorso di studi (fonte Almalaurea);
◆ il 13,3% delle imprese italiane, nel 2010, ha accolto stagisti.
Lo stage può rappresentare una valida opportunità per
“farsi le ossa” offerta a giovani ancora “vergini” professionalmente: non è un rapporto di lavoro, bensì un’esperienza formativa.
Ma è sempre così?
In realtà, molte aziende
abusano dello “specchietto per le allodole” di promettenti stage per arruolare tra i propri dipendenti giovani senza tutele né stipendio, “disposti a tutto” pur di ben
figurare dinanzi a un possibile futuro datore di lavoro.
Non si contano più i casi di tirocini impostati come rapporti di lavoro a tutti
gli effetti (in cui gli stagisti vengono chiamati ad assolvere compiti e mansioni
privi di alcun contenuto formativo) o di tirocinanti privati non solo di alcun compenso economico
ma persino del rimborso spese (in Italia, diversamente da paesi
come la Francia, la legge non impone alle aziende di pagare gli stagisti:
ciascun ente o azienda ha la facoltà di decidere autonomamente se concedere o
meno un emolumento).
Il risultato?
Più della metà degli
stagisti non percepisce nulla (per
molti di loro svolgere un tirocinio vuol dire lavorare non tanto gratis quanto
“a proprie spese”!), mentre solo al 12% di loro, concluso
il periodo di formazione, viene proposto
un contratto di assunzione (fonte Unioncamere).
Lo stage è divenuto una catena di montaggio
funzionale allo sfruttamento di manodopera giovanile qualificata e a bassissimo
costo.
Eppure per molti neolaureati ottenere un posto da
stagista entro i fatidici 12 mesi dalla laurea rimane un’opportunità
imperdibile: l’ultima spiaggia cui naufragare per non affondare nel mare di
concorsi ad ostacoli e colloqui infiniti che si prospetta all’orizzonte.
“GENERAZIONE 1.000 EURO”
In Italia non solo è difficile
trovar lavoro ma, allorché
trovato, è una pia illusione ambire al
famigerato “posto fisso”: l’80% dei giovani finisce impigliati nella rete della
precarietà, da cui non è affatto facile liberarsi.
“Flessibilità”
e “precarietà” sono concetti diversi:
la flessibilità è un’opportunità professionale, la precarietà una
drammatica condizione esistenziale.
Eppure oggi flessibile fa sempre più rima
con precario.
Per molti rimane
un “totem” l’idea che la precarizzazione del lavoro costituisca l’unica via
possibile per perseguire la crescita e lo sviluppo.
Tutte
le riforme del mercato del lavoro susseguitesi negli anni (dalla “legge
Treu” del 1997 -che ha introdotto i
famigerati “co.co.co.”- alla “legge Biagi” del 2003 -che ha creato i contratti
di lavoro “a progetto” ed “a chiamata”-) hanno
introdotto una crescente
deregolamentazione del lavoro, non
accompagnata da adeguate tutele per i nuovi lavoratori “atipici”.
Ed i frutti di
queste politiche oramai, più che maturi, sono cadenti!
Lavoro a tempo determinato o part-time, ma anche contratti di somministrazione
(ex interinali) o di collaborazione (a
progetto, coordinata e continuativa, mini co.co.co., occasionale), ed
ancora associati in partecipazione, prestatori d’opera con partita Iva,
cessione di diritti d’autore, vouchers, lavoratori dello sport: richiede
un duro lavoro anche solo orientarsi in questa inesplicabile “giungla” contrattuale!
Quanti
sono i lavoratori precari?
Circa “4 milioni”:
◆ 1,4 milioni i lavoratori “atipici”
in senso stretto (collaboratori
a progetto dei settori privati, co.co.co. della pubblica amministrazione, associati
in partecipazione, collaboratori occasionali e lavoratori che cedono i diritti
d’autore nei settori dell’informazione e dello spettacolo);
◇ 2,5 milioni i lavoratori a tempo determinato o con contratti di somministrazione (gli ex interinali);
◆ 400 mila le false partite
Iva.
Questa la
fotografia più aggiornata del mondo del lavoro in Italia (fonte Datagiovani):
◆ tra gli under 35, i precari sono raddoppiati in otto anni, passando
dal 20% del 2004 al 39% del 2011;
◇ nel biennio 2009-2010, oltre il
76% delle assunzioni è stata fatta a tempo determinato, mentre i contratti
di lavoro standard sono stati solo il 20,8% del totale (su quattro lavoratori neoassunti, tre sono precari!);
◆ nel 2011 i contratti a termine in Italia ammontavano al 50% del totale (nel 2001 erano solo il 9,6%!);
◇ lo stipendio di un precario regolarmente è inferiore dal 20% al 33% rispetto
alla retribuzione netta mensile di un collega stabilizzato;
◆ la retribuzione media di un precario si attesta sugli 836 euro netti al
mese: 927 euro mensili per i maschi, 759 euro per le donne (fonte Cgia di Mestre).
Secondo
gli ultimi dati di Unioncamere, nell’ultimo
trimestre del 2012, su oltre 218 mila
assunzioni nelle imprese
dell’industria e dei servizi, “solo il 19%”
(circa un contratto su cinque) sarà a tempo indeterminato o apprendistato.
E tutto questo
senza considerare che i precari di oggi saranno
destinati a divenire i poveri di domani: secondo uno studio del Cerp
di Torino, dopo 40 anni di contributi,
beneficeranno di una pensione media di 7.303 euro lordi l’anno, pari a “608 euro” mensili!
I cultori della “flexibility no
limits” difendono la tesi per cui il riconoscimento alle aziende di una piena libertà
di assunzione e licenziamento produrrebbe maggiore mobilità dei
lavoratori, occupazione e retribuzioni
più alte.
Non tutti gli economisti,
però, concordano.
Guglielmo
Forges Davanzati (docente presso la Facoltà di Economia dell’Università
“Federico II” di Napoli), ad esempio, sostiene che la “flessibilità spinta”
sarebbe la principale causa della riduzione dei salari, dei consumi e dell’occupazione.
La deregolamentazione del mercato del lavoro, a suo avviso:
1- disincentiverebbe gli
investimenti in innovazione
(se un’impresa può fare profitti comprimendo i salari ed i costi connessi alla tutela dei diritti dei
lavoratori, non avrà convenienza ad investire nell’innovazione tecnologica);
2- ridurrebbe la propensione al
consumo (l’incertezza dei
lavoratori in ordine al reddito futuro li spinge ad aumentare i risparmi);
3- ridurrebbe l’occupazione (la possibilità di aumentare la produttività
dei lavoratori con la minaccia di un licenziamento o di un mancato rinnovo
contrattuale riduce il ricorso a nuove assunzioni);
4- incentiverebbe la “finanziarizzazione” dell’economia (la compressione della domanda di beni e
servizi, conseguente alla riduzione di salari e consumi, disincentiva gli investimenti
produttivi, dirottando quote crescenti del capitale in investimenti speculativi).
Proprio quest’ultima è la causa prima della
crisi mondiale che stiamo attraversando, che, scoppiata negli Usa, ha subito
contagiato l’Europa.
La precarietà è in grado di ridurre i
lavoratori a fantasmi di un “limbo senza regole”: costretti ad elemosinare
un nuovo rinnovo contrattuale o alla ricerca continua di un nuovo lavoro; discriminati
rispetto ai propri colleghi stabilizzati; senza adeguate certezze di percezione
di reddito futuro; senza alcuna garanzia di formazione professionale continua; in
totale soggezione al datore di lavoro (disponendo quest’ultimo di un potere
contrattuale incomparabile); privati del diritto a progettare un futuro, per sé
e la propria famiglia (Sposarsi? Fare un figlio? Acquistare un’auto? Chiedere
un mutuo?).
In questo contesto:
◆ i giovani pagano sulla propria pelle il prezzo del cd. “brain
waste” (o “spreco di cervelli”),
trovandosi costretti ad accettare impieghi che richiedono l’applicazione di una
piccola parte delle conoscenze acquisite;
◇ le donne sono doppiamente penalizzate, trovando lavoro con maggior
difficoltà, essendo pagate meno dei loro colleghi e dovendo frequentemente
ritardare la maternità, se non proprio rinunciarvi (è un caso che l’Italia,
con una media di 1,4 figli per donna, è tra i paesi al mondo col più basso
indice di natalità?).
Fino
agli anni ’90, la speranza era un
sentimento così diffuso da far convinti i padri che il futuro “avrebbe sorriso”
ai propri figli.
C’è da sorprendersi se, invece, oggi ha assunto sembianze sempre più “minacciose”?
LA FUGA DEI “CERVELLI”
C’è ancora una possibilità di
futuro per i giovani in questo Paese?
Il rischio è che prevalga la
rassegnazione: se fra i giovani meno istruiti e più disagiati ne è segno l’emergere
del “Neetismo”, tra i più preparati suscita allarme la cd.
“fuga dei cervelli” (o “brain
drain”), non tanto una fuga dalle proprie responsabilità, quanto una vera e
propria fuga dal proprio Paese!
Se alla “fuga delle imprese”
abbiamo già fatto l’abitudine
(la delocalizzazione industriale è un processo in costante aumento: “Fiat
docet”), con la “fuga dei cervelli”
stiamo appena iniziando a fare i
conti.
E cervelli non sono più solo i ricercatori scientifici (attratti dalle
maggiori risorse e dai minori vincoli alla ricerca all’estero) ma anche giovani
laureati di qualsiasi settore.
“Non vedo l’ora di lasciare l’Italia!”: questa
una delle espressioni d’insofferenza più ricorrenti tra i giovani studenti.
Come stupirsi se in Italia il
flusso migratorio verso la Germania è aumentato del 6,3%, tra il 2009 e il 2011
(fonte Il Sole 24 ore)?
In Germania sono 8 milioni gli under 30 con un’occupazione
(generalmente ben retribuita), in Italia appena 3 (fonte CdS).
Un buon motivo per tentare la fortuna oltralpe, no?
I dati parlano da soli:
◆ ogni anno i giovani
under 40 in fuga dall’Italia sono circa “100
mila” ed hanno superato quota “2 milioni” nel 2010 (fonte Italents);
◇ tra il 2009 e il 2010 , su
18 mila dottori di ricerca presi in esame, quasi 1.300 (il 7%) sono andati all’estero
(fonte Istat);
◆ dal
2001 al 2010, l’incidenza dei cittadini laureati sul
totale degli espatri è raddoppiata, passando dall’8,3% al 15,9% (fonte Istat).
Ma quanto ci costa questa fuga?
Secondo la Fondazione Lilly, negli
ultimi vent’anni, ogni ricercatore che è andato a lavorare fuori dai confini
nazionali ci è costato una perdita di “148 milioni” di euro (essendo stati
“155” i brevetti prodotti da parte dei venti migliori ricercatori italiani all’estero
e “301” i brevetti ai quali ricercatori italiani hanno partecipato in modo
significativo).
Complessivamente quasi “4 miliardi” di euro, senza considerare la vanificazione dell’investimento
in formazione dei giovani talenti regalati all’estero e la perdita di valore per il nostro tessuto
industriale.
La mobilità internazionale del
lavoro non è un fenomeno da stigmatizzare.
La cultura
scientifica di un paese, anzi, aumenta se il flusso di scienziati in uscita e
in entrata è continuo e robusto.
I flussi migratori in uscita di italiani con
elevato livello d’istruzione,
a dir il vero, sono inferiori rispetto a
quelli tedeschi o inglesi: Germania e Regno Unito presentano, in termini
assoluti, il maggior numero di giovani espatriati fra tutti i 27 Paesi dell’Unione,
rispettivamente 900.000 e 400.000, contro i soli 300.000 italiani (dato 2005,
fonte “Organization for Economic Cooperation and
Development”).
La sostanziale differenza è che, mentre questi
paesi vantano anche una straordinaria “capacità attrattiva” di cervelli
stranieri, l’Italia si pone al 24simo posto al mondo per competitività nell’attrarre talenti,
preceduta persino dalla Grecia (fonte Centro Studi Confindustria).
Il problema italiano, allora, è un saldo netto “emigrati-immigrati qualificati” pesantemente negativo:
◆ su ogni 100 laureati nazionali, ce ne sono solo 2,3 stranieri
(contro una media Ocse del 10,45%);
◇ le università italiane, con una media del 3,1%, sono le ultime per presenza di studenti
stranieri (contro una media Ocse del 10%, che sale all’11,2% in Francia,
all’11,4% in Germania fino al 17,9% in Gran Bretagna);
◆ i laureati italiani
che lavorano nei 30 Paesi Ocse sono 395.229, mentre gli stranieri qualificati
che hanno scelto di venire a lavorare in Italia sono solo 57.515 (solo 7 “cervelli” Ocse su 1.000 hanno
scelto l’Italia come destinazione).
Un paese che cede facilmente all’estero i
suoi migliori talenti senza attrarre giovani stranieri virtuosi subisce una
perdita netta di “capitale umano”.
Continuando
così le cose, il pericolo è che l’Italia
si trasformi in un paradiso per turisti e pensionati!
Per questo una priorità assoluta
deve essere:
◆ da un lato, frenare il “brain drain” (l’“export” di
cervelli);
◇ dall’altro, incentivare il “brain gain” (l’“import”
di intelligenze straniere), il “brain
exchange” (lo scambio di
cervelli tra paesi) e il “brain
circulation” (la circolazione dei cervelli, il loro spostamento all’estero
per approfondire gli studi, lavorare e fare ritorno in patria, dove mettere a
frutto le competenze così acquisite).
Una sfida che si può vincere solo in un modo: rendendo il nostro un Paese migliore.
Ovviamente “tra il dire e il
fare…”.
Pier Luigi Celli, direttore generale
della Luiss, in una discussa lettera pubblica indirizzata al figlio, lo ha esortato ad abbandonare l’Italia:
“Questo Paese -scrive Celli- non è più un posto in cui sia possibile
stare con orgoglio.
Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia
forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati(…), l’idea
che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel
lavoro che incontrerai.
Guardati attorno(…). Questo è
un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un
portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco
più di un millesimo di un grande manager che ha all’attivo disavventure e
fallimenti che non pagherà mai.
Per questo(…) il mio consiglio
è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell’estero.
Scegli di andare dove ha ancora
un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati.
Dammi retta, questo è un Paese
che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche
noi”.
Non conosciamo la strada che ha preso suo
figlio -francamente non ci preoccupa-, ma
sappiamo che molti italiani, pur senza essere “figli di qualcuno”, hanno
seguito il suo consiglio.
Ripartiamo dalla
Costituzione, che chiunque governi
dovrebbe leggere e rileggere come un “mantra” prima di assumere qualsiasi
decisione:
Art. 1: “L’Italia
è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”;
Art. 4: “La
Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le
condizioni che rendano effettivo questo diritto”;
Art. 35: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”;
Art. 36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla
quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a
sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”;
Art. 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le
stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”.
+
SCUOLA
Sempre
più spesso si sono spacciate per riforme strutturali mere riforme di bilancio, utilizzando
impropriamente il verbo “riformare” come sinonimo di “tagliare”.
Ciò è
particolarmente vero nel settore dell’Istruzione, considerato alla stregua di uno
dei tanti capitoli di spesa dell’imponente bilancio statale.
Non sorprende scoprire che, secondo uno studio dell’Ocse (“Education at a glance 2011”),
in Italia:
◆ nel 2008, solo il 4,8% del Pil è stato speso per l’Istruzione,
rispetto alla media Ocse del 6,1% (posizionandosi al 29simo posto su 34 paesi);
◇ tra il 2000 e il 2008, la
spesa sostenuta per studente è aumentata solo del 6%, contro una media Ocse del
34% (il secondo incremento più basso tra i 30 paesi considerati);
◆ la spesa per studente non
aumenta notevolmente in base al livello d’istruzione, passando da 8.200 dollari
al livello pre-primario a 9.600 al livello terziario, rispetto ad un aumento
medio nell’area Ocse da 6.200 dollari al livello pre-primario a 13.700 al
livello terziario;
◇ tra il 2000 e il 2009, gli
stipendi degli insegnanti sono leggermente diminuiti (-1%), mentre nell’are
Ocse sono aumentati in media del 7%, in termini reali.
Investire sulla Scuola vuol dire investire sul futuro dei giovani, dunque del Paese di cui questi sono la sola
speranza.
Occorre rimettere la Scuola, l’Università e la
Ricerca “al centro” dell’agenda politica di qualsivoglia governo, prescindendo dai vincolo di bilancio: è “miope” immaginare di ridurre il debito
pubblico di un Paese aumentando il suo “debito culturale”!
Come ridare centralità alla Scuola?
Ecco alcuni
suggerimenti:
◆ superamento
della “parità scolastica” (causa
della distrazione di risorse pubbliche in favore di istituti scolastici
paritari) per
ridare centralità alla scuola pubblica.
La legge
n.62 del 2000 ha equiparato le scuole private a quelle pubbliche.
La realtà, però, ci rivela che:
-
il 90% delle famiglie italiane continua a
preferire le scuole pubbliche per i propri figli (solo uno studente italiano su
dieci frequenta una scuola privata, nonostante queste già rappresentino circa
un quinto delle scuole italiane);
-
l’Italia è all’ultimo posto tra i paesi Ocse per
la qualità dell’insegnamento nelle sue scuole private, in molte materie;
-
la riforma sulla parità scolastica raggira sostanzialmente
il dettato dell’art. 33 della Costituzione, secondo cui “Enti e privati hanno
il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo
Stato”.
◇ riduzione
a 7 anni della Scuola dell’obbligo, accorpando la Scuola elementare e la Scuola
media in un comune ciclo formativo;
◆ riqualificazione
degli Istituti professionali, per troppo
tempo bistrattati e considerati meno dignitosi rispetto ai più gettonati
licei;
◇ aggiornamento dei piani di studio, dando priorità allo studio delle lingue straniere e dell’informatica (come
uscire da una scuola senza saper parlare ottimamente l’inglese o privi della
competenza per un uso professionale del pc?) ed introducendo lo studio del
diritto e dell’economia in ogni percorso d’istruzione (come ambire ad entrare
nel mondo del lavoro ignorando i propri diritti di cittadinanza e non avendo
nozione di cosa sia un contratto?);
◆ trasformazione
delle scuole in “centri di aggregazione giovanile”, aperti tutto il giorno tutti i giorni per offrire ai
ragazzi ulteriori servizi e spazi usufruibili al di fuori dell’orario delle
lezioni (ad esempio, tutor per gli studi, biblioteche, aule informatiche, palestre,
cineforum);
◇ messa
in sicurezza di tutti gli edifici scolastici. Secondo
un rapporto di Cittadinanzattiva, solo un
quarto degli edifici scolastici è in regola con tutte le certificazioni di
sicurezza, si contano lesioni strutturali in una scuola su dieci, distacchi di
intonaco in una su cinque, muffe ed infiltrazioni in una su quattro. E’ davvero
il Ponte di Messina, allora, la prima infrastruttura di cui il Paese più
necessita? Non aiuterebbe anche il rilancio dell’economia un piano per
l’edilizia scolastica che preveda almeno un cantiere aperto in ogni grande
città?;
◆ riqualificazione
delle scuole disagiate di periferia
o dei quartieri più problematici delle grandi città (si pensi allo Zen a
Palermo o a Scampia a Napoli), da considerare il primo “presidio di legalità”;
◇ maggiore attenzione al
merito degli studenti. Perché non premiare con borse di studio, la gratuità
dei libri di testo o viaggi premio gli studenti più meritevoli di ogni istituto?
Perché non stimolare negli studenti la convinzione che impegnarsi di più, nello
studio come nella vita, “conviene”?
◆ maggiore attenzione al
merito dei docenti. Perché non prevedere retribuzioni
supplementari (premi, incentivi e
gratifiche) in base ai risultati conseguiti dagli insegnanti, istituendo
“centri di valutazione” in ogni istituto scolastico, di cui far partecipi anche
le famiglie e gli studenti?
◇ rivalutazione
del ruolo sociale dell’insegnamento. Occorre
riaffermare il principio per cui compito degli insegnanti non è solo “istruire”
ma anche “educare” i giovani. Ma come pretendere che i docenti esprimano il massimo
impegno ed entusiasmo nel loro lavoro quando vengono sempre “meno considerati”
dagli alunni -spesso col complice sostegno dei loro familiari- e sempre più “bistrattati”
dallo Stato -non disposto a retribuirli dignitosamente, ma pronto ad accusarli
di non lavorare abbastanza-?
+
UNIVERSITà
La Riforma Berlinguer dell’Università, che
ha introdotto il cd. “3+2” (Decreto
ministeriale n.509 del 1999), ha
mostrato negli anni tutti i suoi
limiti, fallendo negli obiettivi sia di migliorare la qualità dell’offerta
formativa, sia di ridurre i tempi per il conseguimento della laurea.
La Riforma Gelmini (legge n.240 del 2010), invece, non ha prodotto altro che ridurre le
risorse destinate al mondo accademico e precarizzare i ricercatori universitari,
d’ora in avanti assunti “solo” con contratto a tempo determinato.
Il risultato?
Moltiplicazione di corsi di laurea per
lo più inutili; caos didattico nell’applicazione del sistema dei “cfu”
(crediti formativi universitari); aumento
del numero dei fuoricorso (molti non riescono a laurearsi prima dei 28
anni); diminuzione del numero dei
laureati (solo il 60% dei laureati di primo livello finisce la
specialistica); introduzione di alquanto discutibili test d’ingresso; inaccessibilità
dei dottorati; strutture sempre più inadeguate, con studenti non di
rado costretti a prendere appunti a terra in aule sovraffollate; posti letto
ridotti e caro degli affitti per gli studenti (favorito dalla carenza di
alloggi universitari); fondi insufficienti per il pagamento delle borse di
studio; tasse universitarie sempre più care...
È possibile credere che la colpa di tutto
questo sia dello “scarso impegno” o dell’incapacità di adattamento dei giovani?
L’impressione è
che, come al solito, “si guardi al dito per
non mirare la luna”:
◆ la spesa pubblica in educazione terziaria è pari a meno dell’1% del Pil,
a fronte di una media Ocse
dell’1,5%;
◇ la spesa per studente
risulta in media di 5.628 euro, contro una media Ocse di 8.455 euro;
◇ negli ultimi 30 anni
la percentuale dei laureati è cresciuta meno che altrove (tra i 15 ed i 64
anni, solo il 15% delle persone è laureato o ha un titolo di
studio equivalente, a fronte di una media Ocse del 31% ed una media europea del
28%)?
Come ridare slancio all’Università?
Occorre
una riforma organica basata su alcuni principi base:
◆ superamento del sistema “3+2” e della follia
dei “crediti universitari”, istituendo corsi di laurea quinquennali;
◇ abolizione del “numero chiuso”,
sostituendolo con una valutazione del merito in itinere. I test d’ingresso sono
spesso “inadeguati” per una selezione degli studenti più meritevoli, impedendo
a ragazzi ancora immaturi di confrontarsi col mondo dell’Università. Sarebbe
preferibile aprire democraticamente le porte “a tutti” ma selezionare
meritocraticamente i migliori. Come? Inserendo al primo anno accademico alcune
materie fondamentali sulle quali testarne l’attitudine e consentendo il
proseguimento degli studi “solo” a coloro che avranno sostenuto tutte le
materie previste o che avranno maturato una media voti elevata;
◆ introduzione
del “principio duale” (la
contemporaneità della formazione di carattere teorico, che si svolge in aula, e
professionale, che si acquisisce in azienda), superando il “principio
sequenziale” fin qui adottato (secondo il quale la formazione professionale
segue quella di carattere teorico). Si tratterebbe di favorire la formazione
professionale in itinere, ad esempio rendendo obbligatori i tirocini curriculari
e coinvolgendo nell’insegnamento professionisti che operano sul campo;
◇ miglioramento
dell’orientamento universitario,
indirizzando i ragazzi nella scelta dei percorsi di studi che offrono più
prospettive di lavoro (ad esempio, offrendo borse di studio premianti a coloro
che scelgono le facoltà scientifiche);
◆ potenziamento del diritto allo studio, assicurando l’effettiva
erogazione di tutte le borse di studio assegnate, approntando piani di
investimenti in edilizia studentesca e
garantendo agli studenti tariffe agevolate per l’utilizzo dei mezzi di
trasporto pubblico.
+ RICERCA
Il nostro Paese si colloca al 15simo posto in Europa per investimenti
in ricerca e sviluppo, preceduto persino da Repubblica Ceca, Estonia,
Lettonia e Slovenia.
Secondo l’Ocse, nel 2011 l’Italia ha investito
solo l’1,09% del proprio Pil in tale settore: numeri da “terzo mondo”,
considerando che, tra i paesi più industrializzati, solo il Sud Africa fa
peggio (con lo 0,92%).
Investono nettamente più del 2% del proprio Pil, invece, la Francia
(2,11%), la Danimarca (2,43%), l’Austria (2,45%), la Germania (2,53%), gli Usa
(2,62%), l’Islanda (2,78%), la Svizzera (2,9%) la Corea del Sud (3,23%), il
Giappone (3,39%), la Finlandia (3,45%), la Svezia (3,73%) e Israele (4,53%).
Che futuro può avere un Paese
che ha abbandonato l’agricoltura (surclassato dalle merci a basso costo provenienti dal Mediterraneo), arretra sempre più nel campo manifatturiero
(non potendo seriamente competere con la solida manifattura tedesca o l’emergente
industria cinese) e rinuncia persino
ad investire sul proprio capitale umano?
Occorre ridare “centralità” alla
ricerca ed allo sviluppo tecnologico.
Ecco da dove e come ripartire:
◆ maggiori investimenti nella ricerca, ponendosi l’obiettivo minimo di raggiungere il 2% del Pil in
investimenti nel settore nell’arco temporale di 3-5 anni;
◇ maggiori incentivi alle imprese per l’innovazione tecnologica, ad esempio detassando gli investimenti
privati in ricerca ed abolendo l’Irap;
◆ realizzazione della “banda ultra larga” (o fibra ottica) in tutto il Paese;
◇ costituzionalizzazione
del diritto al “libero accesso a Internet”,
inserendo un apposito richiamo all’interno dell’articolo 21 sulla libertà di
stampa e di parola.
Troppo poco ci si
occupa dello “spread digitale” (o “digital divide”) che distanzia l’Italia dal
resto del mondo sviluppato.
Secondo la Commissione
europea, il nostro Paese in Europa figura:
◆ terzultimo come percentuale di popolazione che si connette alla rete
almeno una volta a settimana (preceduto persino da paesi come Cipro,
Croazia e Polonia, avanti solo a Bulgaria e Portogallo);
◇ penultimo per la copertura di internet veloce (o Adsl) sul territorio
nazionale (solo l’Irlanda fa peggio di noi);
◆ ultimo per la copertura di internet superveloce (o fibre ottiche),
coprendo solo il 10% del territorio (la
Francia copre il 20% ed ambisce al 37% entro il 2015 ed al 100% nel 2025, il Portogallo
il 60%, la Svizzera il 90%, la Corea ed
il Giappone il 100%).
Oltre il 41% degli italiani non è “mai” entrato in
rete: il doppio o il triplo rispetto alla Francia (24%), la
Germania (17%) o
il Regno Unito (10%).
Quando si parla di “alta
velocità” che manca, allora,
si
dovrebbe in primis avere in mente l’arretratezza della nostra rete internet.
Il Tav Torino-Lione (linea
ferroviaria destinata a “far volare” in Europa le merci provenienti dalla Cina
dopo una lenta traversata transoceanica) ci costerà tra i 15 e e i 20
miliardi di euro: le stesse risorse che basterebbero a collegare il 100% degli
italiani ad Internet superveloce.
La differenza?
Realizzare
la banda ultralarga in Italia comporterebbe un aumento del Pil, ogni anno e fino al
2030, dall’1,5% (secondo le stime più pessimiste della
commissaria europea per l’Agenda digitale, Neelie Kroes) al 3% (secondo l’Osservatorio “I costi
del non fare”, di Andre Gilardoni).
Il futuro di
questo Paese, allora, dipenderà dalla lungimiranza della politica nello scegliere
la strada giusta.
E l’impressione è che la banda ultralarga
rappresenti l’autostrada tecnologica di cui l’Italia ha più bisogno per
ricominciare a correre.
+ OPPORTUNITÀ
La ricerca di un lavoro per i
giovani si è trasformata in un “percorso ad ostacoli”.
Come rimuovere le principali barriere
che intralciano il raggiungimento di questo traguardo?
◆ Più liberalizzazioni.
Gli ordini professionali spesso rappresentano il primo ostacolo all’ingresso di
giovani leve nel mondo delle professioni: non stupisce che, tra gli oltre 2 milioni di iscritti agli ordini, appena
il 9,4% abbia meno di 30 anni (un notaio su due ha più di 50 anni, quasi tre medici
su quattro sono over 45!).
◇ Meno burocrazia. Occorre
“sburocratizzare” le procedure per avviare un’impresa o un’attività commerciale,
creando una
rete di sostegno alle nuove imprese.
◆ Più sgravi fiscali. Serve
favorire l’assunzione dei giovani nel mercato del lavoro, abbattendo quel cuneo
fiscale che rende alle imprese diseconomico assumere e ai lavoratori troppo leggera
la busta paga.
◇ Crediti agevolati. Necessita
sostenere i giovani che vogliano intraprendere un’attività d’ingegno o d’impresa,
in quanto i più penalizzati dal sistema bancario: secondo le stime della
Banca Mondiale, il tasso di esclusione
dal credito in Italia è del 25%, uno dei più elevati dell’Unione Europea.
- PRECARIETÀ
La precarietà è divenuta una
drammatica “condizione esistenziale” per molti giovani.
Come combatterla efficacemente?
Ecco alcuni prioritari interventi:
◆ Riforma
degli stage. Occorre incentivare i tirocini “curriculari”
(introducendo quantomeno il diritto del tirocinante ad un rimborso spese) e vietare
gli stage “extracurriculari” (chi termina gli studi e svolge un’attività
presso un’azienda deve essere regolarmente assunto e retribuito, ad esempio con
contratto di apprendistato).
◇ Riforma del lavoro. Serve ridurre le
molteplici forme contrattuali esistenti (prevedendone solo quattro per i
lavoratori dipendenti: contratto di apprendistato, part-time, a termine e
indeterminato) e rendere più conveniente
assumere a tempo indeterminato.
◆ Riforma del welfare. Necessita unificare il
sistema dei diritti e delle tutele di tutti i lavoratori (superando
l’attuale divisione tra un mercato del lavoro di serie A “super tutelato” ed
uno di serie B) ed introdurre un’indennità
di disoccupazione (o reddito minimo garantito).
◇ Piano
casa per i giovani. Si rende opportuno concedere ai giovani “mutui
agevolati” per l’acquisto della prima casa, ed esentare dall’Imu le prime case
per i redditi più bassi e le seconde qualora destinate in dote ai figli.
-
GERONTOCRAZIA
Quel giorno in cui anche l’Italia
potrà vantare un ministro del Lavoro “under 40”, forse la politica eviterà certe “gaffe” ed avrà una maggiore consapevolezza delle reali problematiche delle
ultime generazioni.
Per obbligarla ad aprirsi di più ai giovani in un paese sempre più “a
misura di pensionato”, perché non
riconoscere in Costituzione il diritto di voto già a 17 anni?
In conclusione, non esistono
riforme “a costo zero”, salvo dovute eccezioni (come in tema di liberalizzazioni,
dove a mancare non sono tanto le risorse quanto il “coraggio politico” di
contrastare forti lobby).
Ogni azione qui proposta ha un
costo, che sarebbe più
facilmente sostenibile se l’Italia disponesse di una maggiore “salute
finanziaria”.
L’arte della politica, però,
implica sempre delle scelte.
Bastano alcuni dati: il bilancio delle
Regioni ammonta a “208 miliardi” (dato 2010), il gettito delle entrate
tributarie statali a “411 miliardi” (dato 2011), il bilancio generale dello
Stato a “780 miliardi” (dato 2012).
Se si è convinti che la
“questione giovanile” sia un’emergenza nazionale, le
risorse vanno “ad ogni costo” trovate!
è
compito della politica stabilire “quanti” sprechi tagliare, “come”
razionalizzare la spesa pubblica improduttiva e “dove” prioritariamente
investire.
E, nell’attesa che un Parlamento
di ultracinquantenni si accorga che il Paese è composto anche da giovani, è
consigliabile a quest’ultimi di fare affidamento solo su se stessi…
Il
professore: “Lei promette bene, voglio darle un
consiglio: ha una qualche ambizione?(…). Se ne vada dall’Italia! Lasci l’Italia
finché è in tempo! Qualsiasi cosa decida, vada a studiare a Londra, a Parigi,
vada in America, se ha le possibilità, ma lasci questo Paese. L’Italia è un
Paese da distruggere: un posto bello e inutile, destinato a morire(...). Qui
rimane tutto immobile, uguale, in mano ai dinosauri. Dia retta, vada via…”
Lo studente: “E lei, allora, perché rimane?”
Il professore: “Come perché? Mio caro, io sono uno dei dinosauri da distruggere!”
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