E SE NICHI SI RITIRASSE?
di
Norberto Fragiacomo
Il dilemma ruota intorno a Mario Monti:
di nuovo premier (come vorrebbero Napolitano e Casini) o prossimo Presidente della Repubblica (come preferirebbe Pierluigi Bersani)?
Le due ipotesi, su cui si stanno accapigliando i principali partiti montiani, sono egualmente indigeste per il Paese: nel primo caso, il professore in loden avrebbe tutto il tempo per portare a compimento, senza affidarsi a delegati, il sacco d’Italia; nel secondo, vigilerebbe sul puntuale rispetto dell’agenda scritta dai poteri finanziari col nostro sangue. In sostanza, il risultato è identico: l’unica, minima differenza riguarda il ruolo da assegnare al PD a partire dal 2013. Semplice comparsa, se passa la linea Napolitano-Casini (-Monti: secondo Francesco Bei di Repubblica, Super Mario non sarebbe affatto “entusiasta” di “traslocare al Quirinale”), attore non protagonista se la spunta l’uomo della pompa di benzina, che vorrebbe togliersi lo sfizio di presiedere il Consiglio dei Ministri.
La lite sulla legge elettorale costringe i “nostri eroi” a venire allo scoperto: Bersani, dimenticata a casa la maschera di sinistra, pretende il suo momento di gloria (?), ma i garanti della speculazione internazionale non si fidano abbastanza – delle sue doti di efficienza, più che della fedeltà a tutta prova – e preferiscono far da sé.
Inutile spendere parole sulla condotta di Giorgio Napolitano: dovrebbe occuparsene il Parlamento in seduta comune, ma sappiamo bene che non lo farà.
La domanda da porsi è questa: quale sarà la reazione di Nichi Vendola e di SeL alla situazione che si va profilando? Il “terzo (in)comodo” alle primarie ha costantemente avversato le politiche di questo esecutivo, e considera – a ragione – il montismo un danno per il Paese. Un danno, aggiungiamo noi, gravissimo oggi, domani irreparabile. L’entrata di SeL nel futuribile “centro-sinistra” è coincisa con una teatrale rottura tra Bersani e Casini; a sua volta Vendola, dopo una criticatissima apertura iniziale, che non sembrava affatto un lapsus, ha escluso in più occasioni un’alleanza con l’UDC, che gli avrebbe fatto perdere, se non i quadri, certamente la base elettorale (comunque in via di rarefazione, stando ai sondaggi) del partito.
Per lui, l’adozione della legge elettorale “truffa” con premio irraggiungibile è un problema secondario: quello autentico è l’outing del segretario piddino che, esauriti i salamelecchi, è tornato ad agire da centrista qual è. La proposta di far “traslocare” Monti al Quirinale vale come interpretazione autentica dell’ambigua Carta d’intenti: nessuna lotta per modificare i trattati-capestro, nessun cambiamento di rotta; rigore, iniquità, controriforme e svendite anche negli anni a venire. Sarà stato sorpreso, Vendola, dalla piega presa dagli eventi? Sapendolo uomo intelligente, opiniamo di no; e pensiamo anche che, negli ultimi giorni, ormai libero dal peso di una richiesta di condanna, abbia iniziato a interrogarsi sulla bontà delle sue scelte recenti. Che sia stato tentato, addirittura, di tornare sui suoi passi? Può darsi, non è da escludere: il recente aut aut a Bersani (o me o Casini!) potrebbe preludere ad uno sganciamento, e ad un clamoroso, quanto opportuno, ritiro dalle primarie e dall’alleanza. Per giustificare il dietrofront, però, non basterebbe affermare “Pierluigi e il suo partito non sono di sinistra” (la cosa era universalmente nota già in agosto!); occorre un “fidanzamento” semiufficiale tra PD e UDC che, vista la maretta di questi giorni, potrebbe richiedere tempi lunghi. Certo, se l’innamoramento scoppiasse il 26 novembre o il 3 dicembre - a seconda degli esiti delle primarie -, sarebbe agevole concludere che la polemica di questi giorni è stata l’ennesima sceneggiata.
In realtà, non sappiamo cosa passi per la testa di Pierluigi Bersani: lo scontro sul dopoPorcellum ne ha offuscato non poco la posticcia aureola di sinistra – utile per vincere le primarie – ma, al contempo, gli ha consentito di rinviare la risposta a Vendola. Un “mai con Casini!” avrebbe compattato gli elettori di sinistra, ma creato molti malumori dentro e fuori dal PD, anche in ambienti assai altolocati; tuttavia, dire la verità (come ha fatto l’ex ministro Damiano, notoriamente più “a sinistra” di lui, secondo il quale “il PD deve percorrere la sua strada e puntare a costruire una coalizione riformista e di governo, organizzare il campo progressista, come è stato fatto con la Carta d’intenti sottoscritta da Berlusconi, Vendola e Nencini, e guardare all’UDC per costruire una salda alleanza di governo”) alla vigilia della consultazione avrebbe potuto avere un effetto dirompente, lanciando Renzi verso il successo. Non tanto l’addio di Vendola – comunque un concorrente – spaventa il segretario, quanto l’abbandono di migliaia e migliaia di potenziali elettori orientati a sinistra, ingenui fin che si vuole ma non ciechi.
Fatto sta che Nichi ha due possibilità: rassegnarsi ad una batosta pressoché sicura (il 10-12% di cui è accreditato sono un epitaffio sulla sua carriera politica) o provare a reagire.
Per smarcarsi in tempo utile – ammesso che lo desideri - il leader di SeL ha necessità di andare all’attacco: chiudere alla prospettiva di Monti al Quirinale o altrove, incalzare Bersani sul punto e pretendere un’immediata rinuncia a Casini. Un ultimatum, insomma, che metterebbe inevitabilmente in crisi l’interlocutore – e, in prospettiva, l’intero PD. Potrebbe accadere questo: Bersani non cede; Vendola si chiama fuori (“non ci sono più le condizioni per un’alleanza”) e ritorna a sinistra, gettando le basi di una nuova coalizione. L’ex popolo di Botteghe Oscure resta a casa il 25, e Matteo Renzi vince le primarie. Il PD si spacca, e molti suoi elettori trasmigrano verso la “cosa rossa”.
Un film di fantapolitica, certo… con comica finale: le smanie del professor Diliberto (PdCI) che, dopo aver inseguito il miraggio di una svolta “socialdemocratica” del PD, si risveglia in pieno centro, senza saper più dove andare.
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