di Riccardo Achilli
La
firma dell'accordo sulla parziale detassazione del cosiddetto salario
di produttività, o di secondo livello, cui la CGIL non ha aderito,
rappresenta l’ennesima Caporetto della storica organizzazione
sindacale. Intendiamoci: quell’accordo, dal punto di vista
macroeconomico, non serve a niente. Si tratta di un incentivo fiscale
(peraltro parziale, perché è comunque prevista una tassazione
forfettaria sostitutiva di quella ordinaria) sui salari di secondo
livello, sostanzialmente sugli incrementi salariali, negoziati in
sede di contratto aziendale o accordi territoriali, connessi a
straordinario, lavoro supplementare nel part‐time, lavoro notturno,
lavoro festivo, indennità di turno o comunque le maggiorazioni
retributive corrisposte per lavoro normalmente prestato in base a un
orario articolato su turni, sempre a condizione che le stesse siano
correlate ad incrementi di produttività, competitività e
redditività.
È del tutto evidente che un incentivo fiscale di questo genere, con
una disoccupazione elevata e crescente, è addirittura
controproducente perché, per dirla con Marx, un incentivo
all’estrazione di maggior plusvalore relativo rende superflua
l’estrazione di maggior plusvalore assoluto, quindi contrasta con
l’obiettivo di aumentare l’occupazione. E non è che la fuffa
sulla cosiddetta “staffetta giovani-anziani”, prevista
dall’accordo stesso, possa cambiare molto tale situazione. Anche
come intervento di sostegno ai redditi ed ai consumi, tale
provvedimento appare molto inadeguato. Stime fatte dalla CGIL
conducono a ritenere che la contrattazione di secondo livello copra
fra il 40% ed il 50% circa degli occupati di industria e servizi.
Secondo il rapporto Ocsel della Cisl, poi, solo il 55% degli accordi
di secondo livello riguarda il salario. Quindi sostanzialmente i
lavoratori interessati dalla detassazione parziale del salario di
produttività sono una minoranza, forse il 20-30% dell’intera
platea occupazionale extragricola. Ed anche rispetto a chi è
incluso, il beneficio in termini di maggior salario netto scatta,
evidentemente, al raggiungimento degli obiettivi di produttività.
Quindi l’effetto reale di tale accordo sulla domanda aggregata, e
dunque sul potenziale di crescita dell’economia, è quasi nullo.
Ricordiamo infatti che ci troviamo in un contesto in cui, in termini
reali, la produttività del lavoro, seppur poco dinamica, è
cresciuta molto più rapidamente del salario, negli ultimi dieci
anni, quindi il problema vero è quello di una domanda catatonica,
perché se non si può vendere sul mercato la maggior produzione
ottenuta con l’incremento di produttività, è tutto inutile. La
realtà è che l’unica vera finalità della detassazione del
salario di produttività è quella di fornire un ulteriore incentivo
alla demolizione del contratto collettivo nazionale ed allo
spostamento della “ciccia”, cioè del salario, dalla
contrattazione collettiva a quella aziendale/territoriale,
contribuendo alla balcanizzazione in atto del mercato del lavoro.
Balcanizzazione che, cela va sans dire, penalizza i lavoratori più
deboli, le imprese meno sindacalizzate, ecc.
Il problema però è che per la CGIL l’accordo sulla detassazione
della produttività era una vera e propria trappola, dalla quale non
poteva che uscire sconfitta, quale che fosse la sua decisione, se
firmare o meno. La Camusso ha scelto la strada meno dolorosa,
evitando di firmare, ma è evidente che la sconfitta sia comunque
grave, e lo stesso isolamento dell’organizzazione dimostra in modo
plastico la sua sconfitta. E non può essere imputata agli avversari,
che hanno fatto il loro gioco, ma soltanto ed esclusivamente
all’inesistenza di una strategia da parte del più grande
sindacato. La Camusso non può più, dopo aver firmato l'accordo
interconfederale del 28 giugno 2011, dire che la CGIL è contraria ad
un accordo che consente di travasare quote degli aumenti salariali
decisi a livello nazionale sul livello aziendale e che rafforza tale
livello di contrattazione a scapito di quella collettiva. Aver aperto
la porta all’indebolimento del CCNL in cambio di un accordo sulla
rappresentanza sindacale (che fra l’altro deve ancora essere
ufficializzato e definito normativamente) fa sì che oggi la Camusso
non possa dire “non abbiamo firmato perché la defiscalizzazione
della produttività, e la possibilità di far transitare quote di
aumenti collettivi sui contratti aziendali, rafforza un modello di
balcanizzazione contrattuale e di competizione fra i lavoratori, a
tutto vantaggio delle imprese”. Allora si rifugia in formule vaghe,
del tipo “questo accordo penalizza i più deboli”, che i Ministri
del governo Monti possono facilmente smontare, con conferenze-stampa
in cui illustrano i benefici salariali per i (pochi) lavoratori che
ne avranno diritto, oppure in rivendicazioni francamente ridicole,
come la defiscalizzazione delle tredicesime, che si sapeva già non
far parte dell'accordo.
Non è rifiutando la firma di un accordo nazionale, per poi
accettarlo “de facto” in migliaia di contrattazioni aziendali a
livello di Rsu/Rsa, che la CGIL uscirà dalla processione di continue
sconfitte che sta subendo. Uscirà quando comprenderà che non si può
essere massimalisti a giorni alterni, e si darà una strategia
coerente, da seguire in modo univoco.
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