Una sintesi del
documento di Barca
Il documento “Un
partito nuovo per un buon Governo”, presentato dal Ministro della
Coesione Territoriale Fabrizio Barca, rappresenta la sua
dichiarazione di discesa definitiva nella politica. Il documento in
questione è focalizzato principalmente sulla idea di rifondazione
della politica e della pubblica amministrazione, che nel pensiero di
Barca passa tramite una decisa e profonda riforma del ruolo e del
funzionamento dei partiti politici. Rispetto al focus sulla riforma
dei partiti, le questioni programmatiche più generali sono, per così
dire, lasciate sullo sfondo, anche se sufficientemente articolate da
lasciar intravedere con chiarezza un orientamento politico generale
imperniato su posizioni socialiste liberaldemocratiche moderate,
equidistanti sia dal pensiero liberista più radicale (da lui
chiamato “minimalismo”), sia dal pensiero socialdemocratico più
ortodosso. Una sorta di riproposizione, in versione più moderna, di
suggestioni da “terza via”, nel rifiuto di seguire un modello
laburista radicale, incolpato di sostanziale fallimento nel dare
risposte ad una richiesta sempre più personalizzata di servizi
pubblici, di promozione di una cultura dell’assistenzialismo nei
cittadini e nelle imprese, di distorsione “da sussidi eccessivi”
dei segnali e delle aspettative imprenditoriali in materia di
investimento privato, di soffocamento di una crescente tendenza della
società verso l’individualismo (il che, a mio avviso, è un bene e
non un male, peraltro). Emergono quindi alcuni elementi centrali del
pensiero di un socialismo liberale e moderato: l’attenzione
all’efficace funzionamento dei mercati, assegnando al soggetto
pubblico il ruolo di produrre quei beni pubblici di contesto utili
per realizzare esternalità favorevoli alla competizione (P.A.
efficiente, dotazione infrastrutturale migliorata, più efficienti
strumenti di separazione fra proprietà e controllo, ecc.), una
visione di un nuovo welfare basato più sull’apprendimento
permanente e l’adattabilità che sulla mera assistenza (cioè
sostanzialmente ciò che Blair chiamava “workfare”), il tentativo
di trovare un nuovo punto di equilibrio fra austerità e crescita,
che recupera anche suggestioni di politiche di spesa di tipo “stop
and go”, ecc.
Però, come detto, le
questioni di programma politico generale sono lasciate sullo sfondo,
e il perno del documento è una nuova idea di partito come elemento
focale di rilancio sia della politica che del funzionamento dello
Stato. L’analisi parte dal fallimento della tradizionale forma di
partito-massa e di partito-Stato, un modello sempre più incapace di
collegare in forma efficace i vertici del partito con le istanze ed i
fabbisogni espressi dalla società, con peraltro la conseguenza di
una degenerazione antidemocratica, leaderistica e
oligarchico/tecnocratica, e sempre più commisto con le istituzioni
statuali e la macchina amministrativa pubblica, in un connubio
giudicato da Barca intrinsecamente patologico (arriva a parlare di
“fratellanza siamese” e “catoblepismo” nel definire il
rapporto sempre più coessenziale fra partiti, Stato e pubblica
amministrazione) e peraltro progressivamente degenerante, producendo
occupazione partitica di istituzioni ed enti pubblici, corruzione,
consociativismo e voto di scambio.
La soluzione proposta da
Barca rifugge da qualsiasi suggestione “”grillina” di
eliminazione del ruolo dei partiti politici, per sostituirli con una
politica orizzontale basata sulla Rete. In forma condivisibile, Barca
vede in una politica basata sulla Rete una potenzialità enorme di
mobilitazione e condivisione, ma anche un pericolo di appiattimento,
banalizzazione ed eccessiva semplificazione della complessità dei
temi, che può essere affrontata solo con il “confronto acceso ed
aperto sui territori”, per usare la terminologia del documento.
Solo i partiti possono quindi, se opportunamente rilanciati e
riformati, ridare linfa alla politica democratica e sanare i vizi
tradizionali della vita pubblica ed amministrativa del nostro Paese.
E fondamentalmente, l’idea di riforma dei partiti che ha in mente
Barca ruota attorno a due perni:
- Un profondo processo di riscoperta della democrazia interna, ovvero l’adozione sistematica del metodo dello sperimentalismo democratico: muovendo da alcuni “convincimenti generali” peraltro estremamente generici, perché coincidenti di fatto con i principi generali della prima parte della nostra Costituzione, tale metodo promuove ed anima, su base territoriale, un ampio processo di coinvolgimento dal basso dei cittadini, stimolando una larga e partecipata discussione/confronto, mobilitando conoscenze individuali necessariamente parziali e frazionate, al fine di amalgamarle e sintetizzarle in proposte politiche, grazie all’azione di coordinamento, moderazione e gestione del confronto messa in campo dai funzionari professionali del partito. I funzionari di partito, quindi, finiscono per assumere un ruolo di facilitatori/gestori/moderatori del dibattito pubblico, abbandonando il ruolo tradizionale di catena di trasmissione nella linea di comando gerarchica del partito-massa novecentesco. Ai vertici del partito non resta altro che recepire le decisioni politiche nate dal confronto democratico e partecipato dal basso, trasmetterle, sotto forma di stimolo e di proposta politica, ai rappresentanti delle istituzioni, ed esercitare un’azione di controllo all’interno dell’organizzazione partitica, per eliminare sacche di resistenza al metodo dello sperimentalismo democratico, o forme di cooptazione di quadri e dirigenti non svolte con metodo democratico e trasparente. Tale metodo è in fondo radicato nei principi di fondo delle tecniche di ricerca sociale di tipo qualitativo e partecipato, che ovviamente Barca, con il suo passato professionale di valutatore, conosce molto bene, ed il cui paradigma è che la conoscenza, da cui deriva la capacità decisionale, non è un fattore radicato ex-ante in alcuni individui particolarmente “formati”, o in ristrette élites intellettuali o tecnocratiche, ma è un bene che si produce ex-post dal confronto, che produce sintesi, fra più individui portatori ciascuno di conoscenze parziali, limitate o frammentarie. E rappresenta una fondamentale “apertura di credito” verso la capacità “politica” intrinseca in ognuno di noi, se collocato in un contesto stimolante il confronto ed il dibattito (idea a ben vedere, oltre che molto libertaria, anche molto “protagorica”, nella misura in cui il filosofo greco Protagora riteneva che ogni uomo fosse dotato naturalmente di “politiké techne”, ovvero di “rispetto”, cioè di capacità di riconoscere il proprio interlocutore, di senso di giustizia di base e di autonomia decisionale, cioè di una soggettività propria);
- Un distacco radicale del partito dalle istituzioni dello Stato e dalla macchina amministrativa pubblica, spezzando quel “legame siamese” nefasto a giudizio di Barca. Tale distacco deve avvenire sia sul versante finanziario, riducendo il finanziamento pubblico ai partiti e modificandone i meccanismi, da non associare più meccanicamente al numero di voti conseguiti, e affidandosi sempre più ai contributi volontari degli iscritti, sia sul versante del personale, distinguendo i ruoli fra il personale del partito, che ha un ruolo di stimolo della mobilitazione cognitiva dal basso e di sollecitazione agli organi istituzionali sulle soluzioni prodotte da tale mobilitazione, di controllo dell’attuazione dei provvedimenti sul territorio e di fornitura di strumenti per la loro valutazione ed interpretazione da parte dei cittadini, e personale eletto negli organi istituzionali e insediato nelle funzioni chiave della macchina amministrativa pubblica, che ha il compito di operare nell’interesse generale, e non in quello di parte del singolo movimento politico, rifuggendo da meccanismi consociativi, di scambio o di cooptazione di personale partitocratico in ruoli tecnico/amministrativi.
Tre osservazioni
Evidentemente, ed al
netto delle posizioni politiche e programmatiche generali che
emergono sullo sfondo del documento, personalmente condivido quasi
tutto ciò che Barca propone sulla riforma dei partiti. Che la
forma-partito sia tutt’altro che superata, e che anzi rimanga al
centro dei processi collettivi di partecipazione democratica e di
formazione e selezione delle classi dirigenti, che tali partiti
debbano però abbandonare approcci leaderistici, personalistici,
oligarchici e tecnocratici, ed aprirsi ad un ampio confronto
democratico dal basso, che i partiti debbano mollare la presa sulla
macchina amministrativa pubblica, che va riportata a principi di
selezione meritocratica di riempimento delle sue piante organiche e
di neutralità e stretta aderenza a criteri di efficienza ed
efficacia tecnico/finanziaria e alla normativa nel suo operare,
estendendo e generalizzando i processi di valutazione dell’efficacia
e dell’impatto dei programmi pubblici, sono principi fondamentali
assolutamente e pienamente condivisibili. Che Fabrizio Barca abbia
deciso di aprire il dibattito sul tema della riforma della politica e
della pubblica amministrazione con una proposta articolata e
rigorosa, superando gli approcci demagogici, livorosi o basati sulla
furia del “cupio dissolvi” che si sentono circolare, è un
elemento di grande rilevanza per lo stesso futuro democratico del
Paese, cui occorre essere grati all’economista torinese. E ritengo
che la sua decisione di entrare nel PD non potrà che apportare
grandi benefici culturali al dibattito interno, invero piuttosto
incartato, di quel partito.
Rimangono però tre
elementi di fondo sui quali, personalmente, mi sento di avanzare
perplessità rispetto all’approccio di Barca, e che offro non
certo come critiche al suo documento, riconoscendo di non avere gli
strumenti per costruire una critica vera e propria, ma come spunti di
ulteriore riflessione, eventualmente per meglio articolare ed
arricchire il ragionamento barchiano. Questi tre elementi si
riconducono, in estrema sintesi, ad una critica “platonica”
all’approccio “protagorico” su cui Barca fonda il suo
ragionamento sull’estensione della democrazia dal basso nei
partiti. Come è noto, Platone contestava a Protagora l’implicita
accettazione di una sostanziale uguaglianza di partenza fra gli
esseri umani, tutti quanti dotati del dono naturale di una “tecnica
politica” intrinseca. Per Platone, invece, gli uomini non erano
affatto uguali fra loro, ma anzi possedevano qualità e “vocazioni
professionali” differenziate, a seconda di quale componente della
loro anima prevalesse in loro: quella logico/razionale, dominante in
chi è chiamato a svolgere ruoli direttivi nella politica e
nell’amministrazione, quella irascibile/volitiva, tipica della
classe dei guerrieri, quella concupiscibile, tipica dei commercianti,
degli artigiani e degli imprenditori.
La fiducia nella
capacità di elaborazione di una linea politica complessiva in grado
di governare una realtà sociale ed economica complessa tramite
meccanismi di partecipazione democratica dal basso implica una
concezione non platonica della libertà individuale. Però la
libertà, quando non è strettamente connessa con la responsabilità,
degrada a mera “licenziosità”, e genera sottoprodotti molto
pericolosi per la collettività, poiché rappresenta la base sia per
derive demagogiche, che per soluzioni autoritarie volte a “riportare
ordine”. Anche la libertà di dibattere e confrontarsi su temi di
rilevanza politica va associata alla responsabilità di filtrare il
confronto, per evitare soluzioni complessive inefficienti (in termini
di interesse collettivo) o addirittura dannose. Ad esempio, non è
libertà responsabile, ma pericolosa licenziosità, organizzare
elezioni telematiche per far scegliere dal basso nominativi per
Presidenti della Repubblica, che nel corretto funzionamento di una
democrazia parlamentare devono essere esclusivo appannaggio della
mediazione delle Camere. Perché introduce nel modo più pericolo,
cioè in un modo surrettizio e non trasparente, elementi di
cambiamento radicale nel nostro sistema costituzionale e politico,
che dovrebbero invece essere sottoposti ad una discussione pubblica e
trasparente.
Ciò significa che il
libero dibattito democratico dal basso deve trovare, ad un certo
punto, un “filtro”, che non sia di tipo censorio, e che
rielabori le proposte dal basso, in una forma che sia, al contempo,
rispettosa dello spirito originario della proposta stessa, ma anche
di considerazioni sulla preservazione degli equilibri di fondo, non
modificabili a meno di pericolose derive, dell’assetto sistemico,
nonché dell’identità politica fondamentale del partito, che non
può ricondursi alla genericità eccessiva dei “convincimenti
generali” evocati nel documento di Barca. Il tema è delicatissimo:
se il filtro è troppo chiuso, si traduce in censura, e riconduce
dritti dritti ad un partito tradizionale, oligarchico e verticistico
che “detta la linea” alle masse. Se il filtro è troppo aperto,
conduce al supermarket della politica, in cui ciascuna pericolosa
deriva diviene giustificata perché “benedetta” dal popolo
sovrano. Affinché vi sia un filtro, non basta il funzionario di
partito ricondotto al ruolo di moderatore di un focus group o di
coordinatore di una interazione di gruppo, come sembra emergere dalla
proposta di Barca. Perché, come ben sa Barca, per avere utilizzato
tali tecniche nella sua professione di ricercatore sociale e
valutatore, il confronto di gruppo è viziato da effetti distorsivi,
come ad esempio effetti di gerarchia interni al gruppo, effetti di
emulazione/prevaricazione, asimmetrie informative e cognitive fra i
componenti del gruppo, mai del tutto eliminabili anche dal più abile
moderatore/gestore del confronto. E quindi un confronto libero, che
non abbia un momento di sintesi superiore, realizzato cioè al di
sopra ed al di fuori del gruppo, in realtà spesso finisce per
fallire nel suo obiettivo di realizzazione di soluzioni ampiamente
condivise, facendo emergere posizioni settarie/lobbistiche, imposte
da chi, conoscendo bene le dinamiche di confronto di gruppo, o
godendo di vantaggi cognitivi, riesce meglio ad orientarle. E non è
nemmeno sufficiente, come prevede il documento di Barca, affiancare
al flusso informativo che dal basso va verso l’alto il flusso
inverso che dall’alto procede verso il basso, portando
l’informazione sulle soluzioni politiche e normative elaborate a
livello governativo. Perché tale flusso finisce per ritrovarsi in
una posizione di subordinazione rispetto ad un flusso “benedetto”
dal consenso della base, oppure semplicemente, nel dibattito che si
svolge alla base, viene trascurato e/o negato.
Il punto fondamentale
risiede dunque nel comprendere in cosa risieda questo filtro, che
consente di tutelare lo spirito dei risultati del confronto
democratico, adattandoli ad una soluzione efficiente ed utile in
termini di interesse collettivo. Questo filtro, ed in ciò risiede il
mio secondo, e forse più importante dubbio sul documento di Barca,
deve necessariamente risiedere in una base ideologica identitaria
condivisa, relativamente stabile e dettagliata, sulla quale deve
poggiare la stessa ragion d’essere del partito, se vuole essere un
partito “vero”, e non liquido o informatico. Non basta
l’accettazione di “convincimenti generali” che, nel documento
di Barca, spaziano da generici richiami alla democrazia,
all’uguaglianza dei diritti/doveri civili, al ripudio della guerra,
alla tutela del patrimonio ambientale, storico ed artistico, per
finire con i soliti beni pubblici e con la solita eliminazione delle
diseguaglianze territoriali di sviluppo. Per il semplice motivo che
una simile piattaforma di “convincimenti generali” potrebbe
essere condivisa, senza colpo ferire, da almeno sette degli otto/nove
movimenti politici presenti attualmente in Parlamento. E quindi non
definisce una piattaforma ideologica identitaria, originale, dentro
la quale possano riconoscersi spezzoni specifici della società.
L’idea sociale di fondo dalla quale parte Barca, ed in fondo parte
lo stesso PD, è quella di una società interclassista, dove non
convivano più interessi di classe strutturalmente contrapposti fra
loro, ma solo specifiche rivendicazioni su temi ben delimitati,
rispetto alle quali sia possibile costruire una composizione
complessiva, che realizzi un compromesso sociale di tipo win-win.
Tuttavia, se è vero
che la lotta di classe tradizionale è per larghi aspetti superata
dalla progressiva convergenza fra proletariato cognitivo emergente
del “general intellect” e strati proletarizzati della piccola
borghesia urbana, dal frazionamento dell’unitarietà del capitale
in almeno due capitali, segnati spesso da relazioni antagonistiche
fra loro (il capitale produttivo e quello finanziario) e
dall’emergere di un fondamentale interesse comune fra lavoro e
capitale produttivo nel preservare condizioni di competitività e
crescita tali da invertire il processo di distruzione contemporanea
di lavoro e capitale produttivo che l’attuale crisi di origine
finanziaria sta realizzando, è anche vero che non è possibile
autoraffigurarsi una società in cui il conflitto sociale è così
tenue da poter essere risolto dal confronto governato fra i portatori
di tale interesse. Al contrario, emergono nuovi, radicali conflitti
sociali, del tutto inediti rispetto a vent’anni fa, ad esempio
all’interno del lavoro, fra segmento stabile e garantito e segmento
precarizzato. Senza parlare del confronto generazionale, certamente
in larga misura artificiosamente creato, ma comunque percepito, fra
chi ha avuto accesso a diritti in precedenza ritenuti
universalistici, e chi vede la possibilità di accedere a tali
diritti (non solo la pensione, ma anche un lavoro stabile e
retribuito decentemente) sfumare ogni giorno di più.
E simili conflitti non
si possono risolvere dal basso, promuovendo un confronto fra i
portatori di queste contraddizioni, per il semplice motivo che
ineriscono ad aspetti strutturali generali di funzionamento del
capitalismo, che non possono essere visti nella loro interezza “dal
basso”, ma solo con una visione “dall’alto”, in grado di
tenere conto di tutte le implicazioni, che peraltro non ineriscono
certo al solo funzionamento dei meccanismi capitalistici su base
locale (ad es. al funzionamento del mercato del lavoro del singolo
territorio) percepiti dagli stakeholders che si confrontano su scala
territoriale, come vorrebbe Barca. Tali conflitti hanno infatti
riflessi, cause e ricadute a livello dell’intero funzionamento
globale dell’economia mondiale. Riflessi e cause rispetto ai quali
i prodotti dei confronti fra cittadini organizzati a livello
territoriale impallidiscono, e nel migliore dei casi si risolvono in
sperimentazioni locali dall’efficacia limitata, non sempre,
peraltro, trasferibili come “best practice” a contesti diversi.
Tutto ciò significa
che il “nuovo” partito non può basarsi su generici convincimenti
generali, o su linee politiche continuamente cangianti in base ai
risultati dell’elaborazione della partecipazione dal basso, ma che
deve avere una piattaforma ideologica relativamente stabile, entro
certi limiti non negoziabile, che certo sia sufficientemente generale
da consentire alla democrazia dal basso di avere gli adeguati margini
di libertà per formulare proposte e soluzioni, ma al contempo
sufficientemente dettagliata da evitare utopie di compromesso sociale
generale che conducano ad illusori stati di ottimo paretiano. Una
piattaforma che indichi cioè, per usare la terminologia
dell’economia del benessere, la via per raggiungere uno stato
sociale di “second best”, nel quale, pur trovando una soluzione
generale con elementi di positività potenzialmente a favore di tutti
i soggetti, privilegi le ricadute sociali positive a beneficio di
alcuni rispetto a quelle attribuibili agli altri. Altrimenti, il
rischio è quello dell’indeterminatezza, del calderone in cui tutti
i gatti sono grigi. Perché se un partito di sinistra come quello
immaginato da Barca utilizza il metodo della partecipazione
democratica dal basso non solo per determinare soluzioni o per
proporre problematiche, ma anche per determinare la linea politica
strategica, la “piattaforma ideologica” (mi si perdonerà se
continuo ad utilizzare questo termine così “vintage” come
l’ideologia, ma io sono affezionato alle cose vecchie, vado in giro
con un’auto vecchia di vent’anni) allora i risultati finali non
saranno molto diversi, paradossalmente, da quelli ottenibili da un
partito di destra, avente anch’esso una base popolare sulla quale
applicare gli stessi metodi di partecipazione dal basso. Alla fine,
se il PD e la Fiamma Tricolore andranno a costruire la loro
piattaforma strategica e la loro stessa identità politica di fondo
andando ad interrogare la stessa base sociale di cittadini, finiranno
per rassomigliare fra loro in modo inquietante….Peccato però che
la democrazia viva di diversità, non di omogeneizzazione che, anzi,
apre la strada alla massificazione, e quest’ultima apre la strada a
dittature terribili.
Veniamo poi alla terza osservazione Siamo sicuri che la separazione chirurgica
fra partito e Stato, al di là ovviamente dell’eliminazione di
fenomeni patologici come la corruzione, il voto di scambio, il
consociativismo o l’occupazione partitocratica di cariche
amministrative, sia la soluzione definitiva per ristabilire uno Stato
efficiente e giusto? Direi, in prima approssimazione, che la
subordinazione per certi versi servile della macchina amministrativa
pubblica italiana ad interessi partitocratici spesso opachi e spesso
illegittimi, o comunque socialmente inefficienti, è il frutto di
processi storici complessi, che risalgono allo stesso modo in cui si
è formato il nostro Stato unitario, e che quindi sono ben più
generali e radicati rispetto al solo tema della commistione fra
partiti e macchina dello Stato. L’amministrazione pubblica italiana
nasce in una condizione di subordinazione funzionale e organizzativa
già dallo Statuto albertino, che assegna al Re il potere di nominare
ed entro certi limiti revocare Ministri, magistrati e alti dirigenti
pubblici, ed il potere di sanzionare nel merito i disegni di legge.
Tra l’altro, l’avversione delle popolazioni degli Stati
pre-unitari poi conquistati dai sabaudi nei confronti di una macchina
statuale percepita come espressione di un padrone esterno piuttosto
severo (percezione molto forte soprattutto fra le popolazioni
meridionali del precedente Regno delle Due Sicilie) genera un
atteggiamento, tutto italiano, di disprezzo della cosa pubblica,
vista come una mucca da mungere per i benefici che può erogare o
per i posti di lavoro che può garantire, e come un nemico da cui
fuggire quando invece richiede il compimento dei diritti civici anche
elementari. La subordinazione della P.A. diviene poi totale con il
fascismo, che, per le sue caratteristiche autoritarie, riduce la
macchina pubblica a mero strumento passivo nelle mani del regime,
normalizzandola anche rispetto al requisito della fedeltà politica
dei funzionari. Con la nascita della Repubblica, l’intero apparato
burocratico fascista, con esattamente le stesse persone che sotto il
fascismo avevano servito in una amministrazione pubblica prona alla
politica ed abituata al criterio della preminenza della fedeltà
politica sul merito professionale, transita dentro la nuova P.A.
post-bellica, portandosi dietro tutti i vizi, le debolezze e le
cattive abitudini createsi in precedenza.
Il problema del
cattivo funzionamento e della subordinazione in forme perverse1
alla politica della nostra pubblica amministrazione è dunque per
molti versi strutturale, complesso, non certo legato soltanto al
malfunzionamento dei partiti. Infatti, la forma di partito-Stato che
Barca lamenta, attribuendole la causa principale del deterioramento
dell’efficienza ed anche della moralità pubblica, in realtà non è
peculiare alla sola Italia, poiché è stata tipica di tutti i
capitalismi europei nella fase socialdemocratica e keynesiana della
seconda metà del Novecento. Tuttavia, negli altri capitalismi,
questa forma, peraltro ancora persistente in larga misura (basti
pensare alle procedure di nomina politica al vertice di imprese ed
enti pubblici operate ancora oggi in un Paese come la Francia) non
ha dato vita a degenerazioni ampie e strutturali come quelle che si
sono create in Italia. Proprio perché negli altri Paesi esiste una
cultura amministrativa e della cosa pubblica molto più avanzata di
quella italiana, che paga lo scotto delle forme non proprio virtuose
con le quali si è costruito lo Stato unitario.
Il rilancio
dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa e
della moralità dello Stato, quindi, non è una questione risolvibile
semplicemente mediante l’espulsione dei partiti dalla cosa
pubblica, per quanto sia indiscutibilmente vero che i partiti hanno
colpe enormi nella situazione di degrado in cui si versa attualmente.
Non è una questione risolvibile con normative rigide sull’accesso
al pubblico impiego o alle posizioni apicali della P.A., o mediante
normative sul conflitto di interesse. Il sistema pubblico italiano è
forse il più normato del mondo. Eppure è fra i più inefficienti e
corrotti. La riduzione, o addirittura l’abolizione del
finanziamento pubblico ai partiti, non c’entra assolutamente niente
con il rilancio dello Stato e della P.A. Una riduzione o una
abrogazione di tale finanziamento non fa altro che favorire la
conquista dei partiti da parte di lobby private economicamente
potenti, che poi, una volta conquistato il controllo dei partiti, non
fanno altro che piegare il funzionamento delle istituzioni e della
P.A. ai loro interessi di parte, senza alcun rispetto per quello
generale. Tra l’altro, anche storicamente, il livello di corruzione
e di occupazione partitocratica della cosa pubblica in Italia era
elevatissimo anche prima dell’approvazione della legge-Piccoli che
istituì l’attuale meccanismo di finanziamento pubblico dei
partiti.
Il problema,
sul versante del finanziamento pubblico dei partiti, ma anche su
quello del corretto ed efficiente funzionamento della macchina
pubblica, a mio parere non risiede
in suggestioni di “epurazione” dei partiti dalla cosa pubblica.
Risiede in un termine anglosassone: l’accountability.
Ovvero la trasparenza, il rendere conto. Che non si risolve con una
legge che impone ai Presidenti di Regione ed ai Sindaci di redigere
il bilancio di fine mandato. Che si risolve invece con l’utilizzo
sistematico e continuo e la messa a disposizione delle comunità di
indagini di customer satisfaction nell’erogazione di servizi
pubblici e di analisi valutative sull’impatto di provvedimenti di
spesa, le cui attività siano svolte da valutatori effettivamente
indipendenti e terzi, le cui raccomandazioni per il miglioramento
siano effettivamente implementate e non rimangano sulla carta. Che si
risolve con l’obbligo, per gli amministratori, locali e nazionali,
di venire sistematicamente a rendere conto del proprio operato in
assemblee di cittadini e portatori di interesse. Che si risolve con
l’elaborazione di sistemi standardizzati di indicatori di
realizzazione, risultato ed impatto che misurino l’efficienza
quantomeno delle attività routinarie ed altamente standardizzabili
della P.A. che si risolve istituendo un sistema realmente funzionante
di premio/sanzione per i dirigenti cui vanno assegnati obiettivi
gestionali misurabili, tramite un sistema di valutazione che non può
essere gestito dalla singola amministrazione, ma da un’autorità
esterna e realmente indipendente. Che, sul versante del finanziamento
pubblico dei partiti, si risolve con un sistema di controllo e
rendicontazione dei bilanci dei partiti efficace e gestito da
soggetti terzi, preferibilmente magistrati contabili, che possa
rendere conto in modo trasparente e comprensibile ai cittadini
dell’uso dei soldi pubblici assegnati, e che dia la possibilità di
sanzionare utilizzi impropri.
Tutto il resto, ivi
compresa la riduzione del finanziamento pubblico ai partiti e la loro
espulsione dalla cosa pubblica, è solo un modo di inseguire il
grillismo, che a quanto pare sta anche iniziando a segnalare i primi
sintomi di indebolimento e declino, perché gli italiani iniziano a
rendersi conto del vuoto che sta dietro simili posizioni.
Conclusioni
Il
manifesto di Barca non solo è ampiamente condivisibile in molti dei
suoi punti fondamentali, ma rappresenta finalmente anche una boccata
d’aria nel teatrino di una politica che sembra incapace di
autoriformarsi, di fronte alla caduta di fiducia, molto pericolosa
perché foriera di catastrofi democratiche, da parte del Paese. I tre
dubbi che sollevo, al netto delle posizioni politiche generali che il
documento di Barca pone sullo sfondo, riguardano:
- la necessità di trovare un punto di equilibrio fra democrazia interna e capacità di sintesi strategica nei partiti (anche ricorrendo, sul modello di Paesi come l’Uruguay, a veri e propri obblighi costituzionalmente sanciti di garantire processi di democrazia interna nelle nomine e nelle scelte di linea politica dei partiti);
- la necessità di aggregare i partiti attorno a piattaforme ideologico/identitarie sufficientemente stabili e precise, evitando di ricorrere a “convincimenti generali” eccessivamente generici, e quindi accettabili sia per partiti di sinistra che per partiti di destra, e quindi incapaci di rappresentare, agli occhi dell’opinione pubblica, quale blocco di interessi sociali il partito si propone prioritariamente di tutelare (lo stesso termine “partito” indica che si rappresentano interessi di parte, diversamente, se non esiste una identità programmatica ed ideologica stabile, originale e chiara, si cade nel pericolo del partito-liquido, che lo stesso documento di Barca afferma di voler evitare);
- una rivisitazione analitica più ampia della crisi del nostro Stato e del nostro apparato pubblico, che inquadri la problematica nelle sue dimensioni storiche e culturali, e non attribuisca semplicisticamente (ed oserei dire “grillianamente”) tutta la colpa ai partiti (che ovviamente però di colpe ne hanno moltissime) e che veda nel criterio dell’accountability e della valutazione la vera soluzione, evitando passaggi semplificatori e demagogici, come quelli legati ad epurazioni dei partiti che aprirebbero la strada a ben altre degenerazioni.
Questi elementi non vanno
letti come critiche al documento, che non ho né gli strumenti né la
voglia di fare, ma come contributi ad un suo approfondimento ed
arricchimento, nella convinzione che il Manifesto di Barca
rappresenti una ottima base di partenza per una riflessione su un
tema strategico per il nostro futuro di Paese.
1
Ovviamente
esiste una subordinazione fisiologica della P.A. alla politica, nella
misura in cui la prima è chiamata ad attuare sotto forma
amministrativa le direttive della seconda, ma conservando una elevata
competenza tecnico/professionale, derivante dall’assenza di
meccanismi partitocratici e non meritocratici di costruzione della
sua pianta organica, ed una autonoma capacità di “incardinare”
le direttive politiche entro un quadro normativamente corretto e
tecnicamente e finanziariamente fattibile ed efficiente.
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