di Riccardo Achilli
Bagnai e Rampini
all’alba
Per puro caso, alle 3 di mattina ho potuto vedere, su Sky, una interessante discussione fra
Alberto Bagnai e Federico Rampini, sul tema dell’euro, che
naturalmente viene trasmessa a quell’ora affinché nessun italiano
abbia contezza del dibattito su un tema così strategico. Come al
solito, ammiro, nel professor Bagnai, la chiarezza espositiva, la
civiltà con cui espone le sue tesi, ed anche una dose di modestia
personale. La sua
tesi fondamentale è che il prelievo forzoso imposto a Cipro, con il
connesso obbligo di restrizione ai movimenti di capitale, abbia di
fatto collocato tale Paese al di fuori dell’area-euro, creando un
euro di serie B, non liberamente circolante al di fuori del Paese,
quindi di minor valore rispetto agli euro che circolano negli altri
Paesi dell’area. Inoltre, sostiene che, con la dichiarazione del
capo dell’Eurogruppo, l’olandese (specializzato in allevamento di
suini) Jeroen Dijsselbloem, secondo cui il prelievo forzoso avrebbe
potuto essere esteso anche ad altri Paesi, in caso di crisi bancaria,
vengono meno due pilastri fondanti dell’area-euro, ovvero il
paradigma della libera mobilità dei capitali e quello della fiducia
nell’inviolabilità del risparmio bancario.
Sulla prima affermazione,
che peraltro riprende quanto sostenuto anche dalla Morgan Stanley,
occorre semplicemente tener presente che Cipro continua a stare
dentro all’eurosistema, la sua politica monetaria continua ad
essere dettata dalla Bce, e che quindi non sta più fuori dall’euro
di quanto non ci stesse fino ad oggi: fino ad oggi, infatti, il
sistema bancario cipriota, pur se formalmente “compliant” con
tutte le regole di vigilanza europee, era di fatto un buco nero che
si autogestiva con regole non proprio prudenziali (che hanno condotto
le due principali banche del Paese al fallimento). Sarebbe bene non
scambiare i propri desideri con la realtà.
Sul secondo punto, la
questione è molto più complessa. La dichiarazione di Dijsselbloem è
stata pesantemente criticata, da parte di tutti gli operatori dei
mercati finanziari, e dalle autorità politiche e di sorveglianza,
non perché non fosse condivisa nella sostanza, ma solo perché
inopportuna, in quanto induce i depositanti di Paesi il cui sistema
bancario è a rischio, o comunque sottoposti a procedure per
disavanzi eccessivi, a correre presso le proprie banche a ritirare il
proprio risparmio, prima che queste lo blocchino in vista di un
prelievo forzoso, come avvenuto a Cipro. Tale corsa allo sportello
rischierebbe evidentemente di portare al collasso l’intero sistema
bancario europeo, con effetti da cataclisma. Simili operazioni si
fanno di sorpresa, senza dire niente e senza che nessuno lo possa
nemmeno sospettare. Tra l’altro, l’indebolimento del tasso di
cambio dell’euro sul dollaro (-1,2% in un solo giorno, fra 25 e 26
marzo) susseguente alle dichiarazioni del capo dell’eurogruppo è
il sintomo che già si stanno verificando alcuni movimenti di
capitale in uscita, cioè che alcuni operatori stanno cercando di
alleggerirsi delle loro posizioni in attività finanziarie denominate
in euro, ed i cui rendimenti sono depositati presso conti di banche
europee, al fine di prevenire un possibile prelievo forzoso prossimo
venturo.
In realtà, l’idea di
risolvere le questioni del debito ricorrendo ai depositi bancari è
piuttosto diffusa nelle oligarchie finanziarie: di recente, il capo
economista di Kommerzbank (la seconda più importante banca tedesca),
Jorg Kramer, sulle pagine del quotidiano finanziario Handelsblatt, ha
dichiarato che “i patrimoni finanziari degli italiani corrispondono
al 173% del Pil. Sono molto superiori ai patrimoni dei tedeschi che
corrispondono al 124% (e ciò si lega peraltro alla recente
aggressiva campagna giornalistica condotta dal Frankfurter Allgemeine
basata sul confronto dei patrimoni privati dei cittadini dei Paesi
membri dell’esurozona, nda) . Per questo sarebbe utile
applicare in Italia una patrimoniale. Una tassa del 15% sui patrimoni
basterebbe ad abbassare il debito pubblico italiano sotto la soglia
critica del 100% del Pil".
L’ortodossia
liberista e monetarista che affossa l’Europa
L’idea della Germania e
dei Paesi del Nord è quella di evitare che l’ESM intervenga a
sostegno di crisi bancarie. Diversamente, di fronte al “buco” di sistemi bancari
in crisi come quello spagnolo (in cui il recentissimo downgrade del
rating di Bankia evidenzia come i 60 miliardi di risorse pubbliche
già iniettate non siano sufficienti, e probabilmente il sistema
necessiti di 100 miliardi complessivamente) o come quello sloveno
(che secondo alcune stime potrebbe aver bisogno di 7 miliardi di euro
per ricapitalizzarsi) l’attuale dotazione finanziaria dell’ESM
sarebbe insufficiente, e ciò renderebbe inevitabile la
concessione della licenza bancaria all’ESM, che la Germania
contesta in modo totale, perché di fatto diverrebbe un modo per
perdere il controllo sulla massa monetaria in circolazione (con la
licenza bancaria, l’ESM potrebbe emettere titoli da utilizzare come
collaterali per ottenere liquidità presso la Bce). In questa
eventualità risiede una evidente contraddizione radicale rispetto
all’ortodossia monetarista della Bundesbank, e più in generale
rispetto agli interessi economici della Germania, che in una
eventualità di ripresa dei fenomeni inflazionistici legati ad una
crescita eccessiva di moneta potrebbe subire un peggioramento della
sua competitività di prezzo con effetti, sui suoi conti con l’estero
ed in particolare con le economie euromediterranee, analoghi a quelli
di una svalutazione competitiva da parte dei suoi concorrenti
commerciali. Infatti, se è vero che un aumento della massa monetaria
tramite un potenziamento dell’operatività dell’ESM avrebbe
effetti inflazionistici su tutta l’area-euro, questi sarebbero però
più forti laddove la domanda è ancora in crescita, cioè nelle
economie nordiche – tedesca in primis – ancora relativamente al
riparo dagli effetti della recessione. Oggi infatti la Germania
(barra in colore rosso nella fig. 1) ha un differenziale
inflazionistico favorevole per circa 2,2 punti rispetto
all’area-euro, che arriva, rispetto ai Paesi sottoposti a piani di
rientro dal deficit fino a 4 punti (nel caso dell’Italia) 6 punti
(rispetto alla Spagna) o anche 9,1 punti (rispetto alla Grecia).
Tale maggiore lentezza
dell’inflazione tedesca, evidentemente, si riflette sui prezzi
relativi, e quindi sulla competitività di prezzo all’esportazione,
che contribuisce a spiegare i 76,9 milioni di euro di avanzo
commerciale registrato dalla Germania rispetto ai suoi partner
dell’euro nel 2012 (fonte: Destatis). In questo modo, la Germania
ottiene un differenziale di crescita economica rispetto alla media
dell’area-euro che, nel 2012, è pari a 1,3 punti, ma non esercita
affatto un effetto-locomotiva sugli altri Paesi. Al contrario, grazie
ad un differenziale inflazionistico che rimane favorevole anche in
virtù delle politiche monetarie che permangono caute (anche se non
si può dire che siano restrittive, atteso che, fra marzo 2012 e
gennaio 2013, la quantità di moneta M3 circolante nell’area-euro
aumenta dell’1,2% in termini reali), fa pagare agli altri partner,
specie a quelli dell’area sud dell’euro, la sua maggiore crescita
export-led.
Graf. 1 – Indici
armonizzati dei prezzi al consumo al 2012 (n.i. 2005 = 100)
Fonte: Eurostat
E d’altra parte c’è il solito problema politico di far digerire agli elettori tedeschi l’idea che con i loro soldi si finanzino sistemi bancari prossimi al tracollo (e nessun politico tedesco ha lo stomaco, stanti le imminenti elezioni, di spiegare all’elettore medio che il tracollo di uno qualsiasi degli anelli deboli del sistema bancario europeo comporterebbe immediatamente il crollo dello stesso sistema bancario tedesco, atteso che rispetto alla sola Spagna, le banche tedesche sono esposte per circa 46 miliardi di euro). Allora ecco che spunta dal cilindro magico l’idea di far pagare i salvataggi delle banche agli stessi cittadini che vi hanno riposto il loro risparmio.
Tutto questo ragionamento
poggia però su basi di teoria economica in larga misura pericolose. La base teorica con cui il monetarismo tedesco sta di
fatto conducendo l’Europa in un “cul de sac” parte dall’ovvio
concetto che un’area monetaria in cui manca una politica fiscale ed
industriale comune diviene insostenibile quando i differenziali di
competitività al suo interno crescono oltre un livello di soglia
massima, per il semplice motivo che ciò genera movimenti di capitale
e di fattori produttivi di entità ingovernabile e produce tensioni
speculative sul debito, pubblico e privato, delle economie meno
competitive, meno attrezzate per generare ricchezza in misura tale da
conferire sostenibilità al proprio debito.
La soluzione erronea è
rappresentata dall’idea che, al fine di armonizzare i livelli di
competitività fra i membri di tale area monetaria, evitando
differenziali troppo ampi, e non potendo più deflazionare tramite
svalutazioni competitive, la competitività di prezzo
all’esportazione debba ricostituirsi tramite una deflazione interna
dei costi di produzione, in particolare dei costi salariali, e quindi
dei prezzi. Ciò conduce a riforme del mercato del lavoro che lo
precarizzano, in modo da ridurre la forza negoziale sui salari da
parte dei lavoratori, ed a un progressivo smantellamento dei sistemi
pubblici di welfare, che riduca il costo fiscale e contributivo, e
che tagli l’inflazione da domanda. Naturalmente, il salvataggio di
sistemi bancari pericolanti tramite l’apporto di soci,
obbligazionisti e risparmiatori, anziché tramite maxi prestiti che
prima o poi finiscono per comportare espansione di massa monetaria, e
quindi tensioni inflazionistiche nei Paesi “aiutati”, rientrano
perfettamente in questo schema dominato dall’ossessione per la
competitività-prezzo.
Quand’anche tale
paradigma fosse vero (e non lo è, come vedremo a breve) esso impone
sacrifici sociali assolutamente insostenibili, ed eccessivamente
protratti nel tempo. In un recente articolo sul quotidiano spagnolo
El Pais, il capo-economista dell’IFO, Hans-Werner Sinn, calcola
che, per ridiventare competitive con questo metodo, la Spagna
dovrebbe deflazionare del 30% e l’Italia del 10%. Ciò significa,
per il primo Paese, la prosecuzione della fase di recessione e
austerità punitiva per almeno altri 10 anni, e per altri 3-4 anni
per l’Italia. Chiaramente non è pensabile, politicamente e
socialmente, che tali Paesi rimangano ancora per così tanto tempo
all’interno del tunnel dell’austerità: già oggi, il PIL pro
capite italiano e spagnolo sono tornati ai livelli del 2006, quello
greco addirittura ai livelli del 2004. Ma quand’anche fosse
socialmente sostenibile un simile percorso per ancora molti anni,
esso comporterebbe l’impossibilità di riattivare una ripresa…per
via della distruzione definitiva del tessuto produttivo, dopo una
simile cura da cavallo. L’indice di produzione industriale italiano
nel 2012 è sui livelli di fine anni Ottanta-primi anni Novanta. Lo
stesso avviene per la Spagna e per il Portogallo. Con qualche altro
anno di “cura dimagrante” da austerità non avremo più un
tessuto produttivo su cui basare una ripresa.
Il problema che mina alla
radice tale impostazione teorica è che la competitività non è
basata esclusivamente su costi e prezzi, ma sui costi dei fattori
rispetto alla loro produttività, cioè al loro apporto, in termini
di ricchezza aggiuntiva prodotta. Se anche costi e prezzi sono alti,
ma la produttività è più elevata, l’economia sta producendo più
di quanto spende, e quindi sta generando ricchezza aggiuntiva utile,
peraltro, anche a ripagare il suo debito. In questi termini, è utile
analizzare la tabella seguente, che mette in relazione costo e
produttività del lavoro di diverse economie PIIGS, nonché della
Francia (la cui economia sembra candidata ad andare rapidamente verso
il tunnel dell’austerità) rispetto alla Germania.
Come appare evidente, i
Paesi PIIGS non hanno, rispetto alla Germania, un problema di costo.
Non devono cioè deflazionare, poiché il costo del lavoro è
inferiore al valore tedesco. Hanno un problema di produttività.
Devono cioè valorizzare meglio il loro lavoro, mettendolo in
condizione di produrre di più, non abbassarne il costo. Soltanto la
Francia ha un problema di costo del lavoro molto alto, nonostante una
produttività anch’essa più elevata della media tedesca. Quindi,
un modello di austerità mirato a deflazionare costi e prezzi può
applicarsi, al limite, solo per la Francia. Non certo per i Paesi
PIIGS.
Il problema di un tasso
di inflazione più alto fra i PIIGS rispetto alla Germania, come si è
visto in precedenza con il graf. 1, non dipende dal costo del
fattore-lavoro, ma da oneri accessori che gravano sul prezzo finale
dei prodotti: il peso di un’amministrazione pubblica elefantiaca
(aprire un’impresa in Italia costa 3,3 volte di più che in
Germania, l’Italia è in trentacinquesima posizione, sulle 55
principali economie mondiali, per livello di corruzione pubblica,
costo della corruzione che ovviamente impatta sui costi e sui prezzi
finali, mentre la Germania è solo diciottesima), il costo
dell’energia (le utenze elettriche industriali italiane pagano,
rispetto alla media dell’area euro, dal 5,3% al 21,8% in più, a
seconda della fascia di consumo annuo- dati Eurostat 2012), il costo
dei trasporti di materie prime e prodotti finiti (in Italia, il 91%
delle merci viene movimentato su gomma, contro il 67% tedesco; il
costo chilometrico per trasporto su gomma, in Italia, è dell’11%
superiore a quello tedesco – dati Albo Nazionale Autotrasportatori
2010), il costo di una catena distributiva molto lunga, che
ovviamente incide direttamente sul prezzo finale, ecc.
Cosa occorrerebbe fare
(e soprattutto che la Germania facesse) per salvare l’euro
Il problema non è quindi
quello di deflazionare i costi con una austerità punitiva, ma di
ridurre i costi accessori generati dall’ambiente in cui operano le
imprese, quindi è un problema di riforma del sistema-Paese, e di
aumento della produttività, ancora una volta con azioni di sistema
che consentano di recuperare il gap in materia di istruzione e
formazione del capitale umano, di capacità innovativa (in Italia la
quota di imprese innovative è pari al 47% del dato tedesco), di
dimensione media di impresa (in Italia, la quota di imprese con meno
di 10 addetti è pari al 94,6% del totale, contro il 51,9% della
Germania – un eccesso di micro imprese non consente la diffusione
di quei fattori di efficienza nel processo produttivo tali da
massimizzare la produttività di sistema).
Tutto ciò non si
affronta con l’austerità, ma al contrario con una corretta
programmazione economica, e con gli adeguati investimenti, anche
pubblici (mirati in particolare alle riforme di sistema) necessari
per creare quell’ambiente che abbatta i costi accessori di
produzione, ed al contempo innalzi la produttività. Tra l’altro, qualora esistesse una politica fiscale, industriale e di bilancio
comune, il problema di armonizzare i livelli di competitività degli
Stati membri non si porrebbe nemmeno nei termini tragici in cui si
pone oggi: anche gli USA sono un’area valutaria comune, però i
grandi differenziali di competitività fra gli Stati che compongono
l’Unione non generano il pericolo di un tracollo della credibilità
del dollaro, e delle attività finanziarie denominate in dollari, sui
mercati valutari e finanziari globali, perché esiste una
centralizzazione delle politiche fiscali, di bilancio ed industriali
tale da gestire i differenziali di competitività interna. Ma, sempre
nella citata intervista al Pais, il nostro ineffabile Sinn dichiara
che una centralizzazione europea nella gestione dei debiti sovrani,
simile a quella progressivamente condotta dagli USA a partire da
Hamilton, produrrebbe una guerra di secessione come avvenuto negli
USA. D’altra parte, sempre secondo Sinn, il vero portavoce
dell’approccio della destra tedesca alle questioni europee, i Paesi
che non vogliono sottoporsi a questa dura ricetta di svalutazione
interna, possono sempre decidere di uscire dall’euro, ed anzi la
Grecia (oramai spremuta come un limone e che non può più dare
niente, in termini di rimborso dei crediti erogati da banche estere,
tedesche in primis) sarebbe bene che uscisse subito (lo stesso Sinn
si è anche fatto portavoce di una raccolta di firme fra accademici e
di una mozione in tal senso).
Evidentemente,
l’interesse della Germania non è quello di produrre realmente
un’unificazione politica ed economica europea. L’interesse è
quello di:
- ridurre il debito pubblico e privato aggregato a livello di intera area-euro, per ricostituire la fiducia dei mercati finanziari globali nei confronti della piazza finanziaria europea e ricominciare ad attrarre investimenti finanziari (il saldo netto degli investimenti diretti esteri destinati all’area Ue, quindi ad un’area più ampia rispetto a quella-euro, è diminuito del 3,6% fra 2009 e 2011 – dato FMI),
- spremere i Paesi debitori per far loro restituire il massimo possibile dei crediti erogati dalle istituzioni creditizie straniere (con le banche tedesche in prima fila), considerando che le banche dell’area euro, a fine 2012, hanno ancora circa 900 miliardi di esposizione verso i Paesi PIIGS,
- impedire il collasso del sistema bancario europeo, che partirebbe dalla crisi dei sistemi bancari di Paesi come la Spagna, Cipro, il Lussemburgo o la Slovenia.
Il
tutto deve avvenire salvaguardando, per quanto possibile, l’economia
tedesca, quindi scaricando il peso di tale ristrutturazione
finanziaria il più possibile sui Paesi mediterranei. Tutta questa
operazione deve poi essere condotta con un approccio che minimizzi
ogni possibile ripresa dell’inflazione, e che quindi sia improntato
a canoni monetaristi e neoliberisti, al prezzo di sacrificare
qualsiasi possibilità di ripresa della crescita e del mercato del
lavoro. Tale approccio monetarista e deflattivo serve alla Germania
per evitare di perdere il già rammentato vantaggio competitivo in
termini di prezzi relativi, e per impedire che i concorrenti
mediterranei si concentrino su investimenti pubblici atti a
ricostituire la propria competitività strutturale (cioè quella che
passa per la produttività, e non per il costo dei fattori
produttivi).
Su
tale base deflattiva, dunque, i policy makers tedeschi hanno trovato
una alleanza con i poteri finanziari globali, anche loro interessati
ad un riordino del debito complessivo dell’area euro, oramai
divenuto pericoloso per i loro stessi interessi, ed anche loro
terrorizzati dall’idea che le turbolenze finanziarie dell’area
euro conducano ad una ripresa dell’inflazione, che come noto è un
fattore di rischio rilevante negli investimenti finanziari di tipo
speculativo, ed inoltre riduce il valore reale delle attività
finanziarie acquisite e detenute in portafoglio.
Non
questa è la strada maestra per salvaguardare l’unione monetaria e
per rilanciare quella politica. D’altra parte, che l’obiettivo di
una reale integrazione politica europea non sia la priorità, lo dice
anche un recente documento della Commissione Europea, chiamato
“Blueprint for a deep and genuine economic and monetary union”,
elaborato a febbraio 2013, e che colloca l’unificazione delle
politiche fiscali, del lavoro e di bilancio, e la completa
unificazione politica, soltanto fra il medio ed il lungo termine
(comunque ben oltre un orizzonte temporale di 18 mesi, e con una
conclusione di tale processo che si realizzerà soltanto dopo 5 anni)
mentre nel breve termine, le misure “di urgenza” riguardano
solamente la prosecuzione dell’austerità. In questo modo, si
ribalta l’ordine delle priorità: anziché costruire subito
strumenti comuni in grado di difendere meglio, in modo più unitario
e compatto, le economie e le società europee dall’ondata
distruttrice della crisi, si pensa di poter proseguire nell’austerità
che approfondisce ed aggrava la crisi, illudendosi poi di poter
costruire percorsi di unificazione sulle macerie di comunità
nazionali distrutte. Chiaramente, il disegno è troppo stupido per
non essere semplicemente il frutto di una mancanza di volontà reale,
da parte delle oligarchie dirigenti globali, di andare verso
l’unificazione europea1.
E’ chiaro che la Germania non sta facendo assolutamente niente di
ciò che le competerebbe, in qualità di economia egemone, per
promuovere una riduzione degli squilibri interni di competitività
che mettono a rischio l’unione monetaria nei confronti della
speculazione finanziaria. Il primo compito sarebbe quello di
stimolare la domanda interna, per ridurre i differenziali di bilancia
dei pagamenti fra Stati membri, fra la Germania che nei primi 9 mesi
del 2012 ha un avanzo medio delle partite correnti pari a circa 40
Meuro, a fronte di Paesi come l’Italia o la Spagna, con un
disavanzo medio fra i 4 ed i 5 Meuro. E’ evidente che tali
squilibri, alla lunga, finiscono per distruggere un’area monetaria
comune priva di gestione centralizzata delle politiche fiscali e di
bilancio, perché si traducono in differenziali di crescita che
rendono insostenibile la gestione nazionale del debito pubblico da
parte dei Paesi in disavanzo. E perché comportano flussi di capitale
e lavoro in uscita dai Paesi deficitari, verso quelli in surplus, che
aggravano i differenziali di crescita e creano tensioni sempre più
gravi sul versante del pagamento del debito pubblico (quindi sul
versante del famigerato spread) mentre d’altra parte generano
tensioni inflazionistiche nei Paesi in avanzo, che ricevono tali
flussi in entrata. Infatti, sempre nei primi 9 mesi del 2012, il
conto finanziario della bilancia dei pagamenti tedesca segnala un
incremento di investimenti e prestiti all’estero (quindi un surplus
di capitale attivo) pari a 176 Meuro, alimentati da quasi 35 Meuro di
investimenti di portafoglio. Evidentemente, in Paesi come l’Italia
si verifica il contrario, ovvero un deficit di capitale attivo, che
ovviamente si riflette sul rendimento dei titoli del debito pubblico.
Più in generale, secondo stime del FMI, i flussi di capitale legati
ad investimenti di portafoglio, nei Paesi “core” dell’area euro
(Germania ed altri Paesi nordici) passano dall’1,8% al 7,3% del PIL
fra aprile 2011 e marzo 2012, mentre sul periodo fra giugno 2011 e
marzo 2012, diminuiscono di più di 13 punti di PIL nei Paesi
“periferici” dell’area-euro (ovvero nei PIIGS). Una simile
redistribuzione dei flussi di capitale ed investimento non potrà che
produrre una duplice catastrofe: ridurre la capacità di investimento
e di sostegno al proprio debito pubblico nei PIIGS (con un effetto a
palla di neve sui rendimenti del debito stesso) e produrre inflazione
in Germania e nelle economie “core”, riducendone la competitività
di prezzo2.
Una sorta di gioco a somma negativa, che solo un riequilibrio della
bilancia dei pagamenti, mediato da un potenziamento della domanda
interna tedesca, può evitare.
Tra
l’altro, l’esigenza di incentivare la domanda interna serve anche
per ridurre il gap inflazionistico favorevole alla Germania, e quindi
per chiudere il differenziale di competitività-costo che, come si è
visto, per esplicita ammissione della Bundesbank e dei monetaristi, è
la principale fonte degli squilibri interni all’area euro. Solo che
in questo caso la chiusura del gap non avverrebbe costringendo le
economie più indebitate ad una disastrosa deflazione, ma
inflazionando l’economia più virtuosa, quindi con un paradigma
impostato sulla crescita, e non sulla recessione.
Tuttavia,
nonostante l’esigenza di riequilibrare i differenziali di bilancia
dei pagamenti e di inflazione, la Germania non sta facendo
praticamente niente per stimolare la sua domanda interna. La domanda
domestica tedesca, nel 2012/2013, dovrebbe essere sostanzialmente
stagnante, con una lievissima crescita pari allo 0,3%, alimentata da
un incremento reale dei salari pari ad appena lo 0,6% nel 2012. E
peraltro, il centrodestra tedesco pensa di attuare un massiccio
programma di austerità dopo il voto autunnale, che naturalmente
comprimerà la già magrissima crescita della domanda interna, fino
probabilmente a portarla in territorio negativo. Tale incremento dello 0,3% è
soltanto il frutto di automatismi che intervengono sui salari quando
il ciclo macroeconomico è ancora positivo, e quindi non è il frutto
di alcuna politica economica mirata all’espansione della domanda.
Depurato dal ciclo, già oggi l’andamento strutturale della domanda
interna tedesca sarebbe negativo per circa un punto percentuale.
Il
tutto mentre, a livello europeo, la Germania non stimola in nessun
modo il dibattito su un parametro comune di incremento salariale
legato all’andamento della produttività, che renderebbe omogeneo
il trend del CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) in tutta
l’area, omogeneizzando i differenziali di competitività interna,
e, nonostante il modesto progresso in tal senso realizzato con la
presentazione del Two-Pack, ed al netto di una generica indicazione
riferita agli investimenti nei settori dell’istruzione e della
sanità, ancora non sono stati stabiliti i tipi di investimento
pubblico che potrebbero essere scomputati dal calcolo del deficit per
l’obiettivo di pareggio del bilancio, poiché si attende una
comunicazione in tal senso, da parte della Commissione, entro luglio
di quest’ anno (con conseguenze, in termini di scelte di politica
economica, che potrebbero slittare a dopo le elezioni politiche
tedesche, quando oramai il quadro macroeconomico sarebbe talmente
compromesso da non consentire agli investimenti scomputati dal
calcolo del disavanzo strutturale di generare effetti positivi). E
qualsiasi ipotesi di messa in comune dei debiti pubblici, foss’anche
la più inefficace e parziale (come ad esempio il Redemption Fund)
viene addirittura spostata alle calende greche di uno studio di
fattibilità da realizzarsi niente po’ po’ di meno che entro la
primavera del 2014!
Un
piano B per l’uscita dall’euro (il meno doloroso possibile)
In
queste condizioni, cosa resta da dire? Che di fronte ad una simile
timidezza (per non dire totale inanità) nel cercare di mettere in
atto politiche utili per far cambiare rotta alla disastrosa
ortodossia dell’austerità imposta dalla destra economica tedesca,
in accordo con il mondo della finanza globale, l’architettura
dell’euro corre seri rischi di disintegrazione nei prossimi sei
mesi, rischi che sono economici ma anche politici (basti vedere il rapido progresso
di movimenti politici euroscettici, in Italia ma anche nella stessa
Germania).
L’ipotesi
di una disintegrazione rapida dell’area euro, per autocombustione,
non è quindi più un tabù. Occorre quantomeno affrontare
l’eventualità che ciò avvenga, iniziando a ragionare su un piano
di fuoriuscita ordinata, che minimizzi l’impatto macroeconomico
conseguente, soprattutto sui Paesi finanziariamente più fragili,
come il nostro, che correrebbero i maggiori rischi di svalutazione
selvaggia del tasso di cambio, di fuga dei capitali, di attacco
speculativo al proprio debito pubblico.
Se
le elezioni autunnali nella nazione egemone, ovvero in Germania, non
dovessero configurare un cambiamento significativo della linea
politica tedesca, cioè se la Spd non avesse una capacità reale di
incidere sulla prosecuzione del merkellismo, occorre pensare ad un
piano B, magari attingendo a ciò che alcuni economisti prestigiosi,
come Bruno Amoroso, hanno già anticipato.
Il
mio piano "B" è quello di creare un euro del Sud, fra i
PIIGS mediterranei (escludendo l'Irlanda, che ha preso un percorso
diverso, che la vede agganciata strutturalmente alla sterlina
britannica) che abbia una parità centrale con l'euro, entro un
intervallo di oscillazione che consenta una svalutazione fino al
20-30%, con una Banca centrale euromediterranea controllata dai
governi, che nella fase della fuoriuscita faccia politiche monetarie
accomodanti, immettendo liquidità tramite l'acquisto dei titoli del
debito pubblico rimasti invenduti alle singole aste (impegnandosi
quindi ad acquistare in modo illimitato i titoli del debito pubblico
rimasti invenduti, al fine di prevenire attacchi speculativi, un po’
come faceva la Banca d’Italia prima del divorzio con il Tesoro),
con una prima fase di controllo amministrativo rigido nei movimenti
di capitale, mantenendo però politiche commerciali coordinate a
livello dei singoli Paesi e preservando il principio della libertà
di scambio di merci e fattori produttivi con l'area dell'euro del
Nord (cioè impegnandosi a ripristinare i movimenti di merci e
capitali a livello di mercato comune, smantellando non appena
possibile le restrizioni amministrative alla fuoriuscita di
capitali).
Andrebbero
immediatamente introdotte normative, valide per l’intera area
dell’euro del Sud, volte a scoraggiare la speculazione finanziaria
(introducendo una Tobin tax per le compravendite di titoli ed
attività finanziarie denominate nell’euro del Sud, introducendo
una separazione operativa netta fra banche commerciali e di
investimento ed un divieto assoluto, per le compagnie assicurative
euromediterranee, di investire parte della raccolta premi sui mercati
finanziari).
Il
debito pubblico di quest'area euromediterranea dovrebbe essere messo
rapidamente in comune, garantendo priorità per il rimborso ai
creditori esterni all'area, e finanziato, per la sua parte interna,
da forme di prestito forzoso a carico dei cittadini e delle banche,
progressive in base alla ricchezza individuale ed allo stato di
salute finanziario e patrimoniale delle banche. In cambio del
privilegio per il rimborso prioritario dei propri crediti, i Paesi
dell'euro del Nord dovrebbero mantenere forme di garanzia pubblica,
decrescenti nel tempo, a favore del debito euromediterraneo, utili
per renderlo appetibile agli investitori extraeuropei (cinesi in
primis).
Superata
la prima fase di emergenza finanziaria, in cui necessariamente si
manterrebbero politiche di austerità "flessibile" del
bilancio, i Paesi dell'euro del Sud dovrebbero infine adottare
politiche fiscali nazionali coordinate da una regola comune di "stop
and go": espansive sulla domanda aggregata in fasi recessive, e
di austerità nelle fasi espansive, con precisi indicatori statistici
che determinino il grado di espansione/restrizione in base
all'andamento del ciclo, momento per momento. Ciò che andrebbe
evitato a tutti i costi è un processo di fuoriuscita individuale,
Paese per Paese. Ogni Paese uscente sarebbe piccionato dalla
speculazione finanziaria, che lo attenderebbe al varco.
1
Per maggiori dettagli, cfr.
http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2012/12/una-risposta-inadeguatadi-riccardo.html
2
Riporto testualmente il commento del FMI a tale situazione: “la
crisi dell’area-euro è passata da uno stop improvviso a una fase
di fuga dei capitali, nonostante interventi significativi di policy,
poiché il capitale transnazionale privato è stato rimpatriato
dalla periferia verso l’area “core” dell’unione monetaria.
Poiché è impossibile una svalutazione della moneta domestica
all’interno di una unione monetaria, i maggiori rischi si sono
tramutati in un aumento dello spread a carico dei debitori sovrani e
bancari dei Paesi periferici”.
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