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martedì 7 giugno 2011

Il cambiamento di pelle del mercato del lavoro italiano negli ultimi dieci anni, di Riccardo Achilli



La metà del 2008 segna, nelle tendenze di medio periodo del mercato del lavoro italiano, un vero e proprio spartiacque. Negli anni dal 1997 al 2008, infatti, le riforme strutturali progressivamente introdotte nei meccanismi di ingresso sul mercato del lavoro, a partire dalla c.d. “legge Treu” del 1997, e con la legge Biagi del 2003, hanno comportato, almeno sotto il profilo statistico, un incremento dello stock di occupazione, ed un corrispondente decremento del bacino dei disoccupati. Infatti, gli occupati passano da 20,3 milioni nel 1996 a 23,4 milioni nel 2008, mentre lo stock di disoccupazione si riduce di circa 900.000 unità.

Tale tendenza è a prima vista sconcertante, più si riflette sul fatto che, a partire dal 2001, il tasso di crescita dell’economia nazionale è stato pressoché stagnante (fra 2001 e 2008, infatti, il Pil cresce complessivamente del 4,9% in termini reali, a fronte di una crescita dell’11,9% nel periodo 1995-2001). Di fatto, tali risultati sono stati resi possibili da un ampliamento notevole della platea di lavoratori con contratti precari, che vengono assunti anche in fasi di crescita economica debole, sia perché costano generalmente meno in termini contributivi (un collaboratore a progetto ha un’aliquota contributiva pari a circa un terzo rispetto a quella del dipendente) sia perché lo stock di tali lavoratori può essere più facilmente espulso qualora si verifichino fasi cicliche negative, o di rallentamento della domanda e quindi della produzione. In altri termini, tramite l’espansione della flessibilità in entrata, le imprese hanno realizzato l’obiettivo di rendere variabile un costo, come quello del lavoro, che tradizionalmente era considerato fisso, utilizzandolo per sostituire il più rigido capitale. Ciò ha reso obsoleta la vecchia legge di Okun (1962) secondo cui occorrevano almeno due punti di aumento del Pil per generare un punto di incremento occupazionale. Per aumentare l’occupazione tramite la precarietà basta un incremento del Pil notevolmente inferiore, anche prossimo alla stagnazione.

Va infatti considerato che la quota di lavoratori flessibili cresce molto fra 2004 e 2007: le posizioni lavorative flessibili (sommatoria di co.co.co, lavoratori e tempo determinato, prestatori d’opera occasionali, lavoratori autonomi – la categoria dei lavoratori autonomi dell’Istat è composta essenzialmente da partite Iva che in molti casi celano in realtà un lavoro alle dipendenze, non di rado di monocommittenza, e per di più assolutamente precario) assumono un peso sull’occupazione totale che passa dal 27% nel 2004 al 27,5% nel 2007.

Tali categorie professionali, però, così come sono particolarmente elastiche al ciclo, e quindi aumentano anche quando l’economia cresce poco o è quasi stagnante, sono però le prime ad accusare gli effetti della recessione. Già nel 2008, infatti, mentre l’occupazione totale ha ancora una lieve crescita sull’anno precedente, pari al 7,8%, grazie all’andamento ancora favorevole dei primi due trimestri dell’anno, l’occupazione precaria diminuisce immediatamente, riducendo la sua incidenza sull’occupazione totale di tre decimi di punto (giungendo così al 27,2%. Al 2010, la situazione è ancora peggiore: rispetto al 2008, l’occupazione precaria scende ancora, fino al 26,6% sull’occupazione totale. Di fatto, fra 2008 e 2010, l’occupazione flessibile si riduce ad un tasso (-4,8%) che è due volte più rapido rispetto al decremento, sul medesimo periodo, dell’occupazione totale (-2,3%).

D'altro canto, è stupefacente notare come, nonostante una pubblicistica priva di fondamenti oggettivi e pelosamente interessata voglia farci credere, non è affatto vero che la classe operaia si stia estinguendo. Nel 2000, gli operai rappresentavano il 33,9% dell'occupazione complessiva. Nel 2004, sono passati al 34,1%. Nel 2007, giungono ad assorbire il 34,6%. Quando poi esplode la recessioneeconomica, il numero di operai ovviamente si riduce, ma molto meno rispetto al complesso degli occupati, per cui nel 2010 l'incidenza degli operai sul totale dell'occupazione è ulteriormente aumentata, arrivando al 35%. In dieci anni (2000-2010) gli operai sono cresciuti del 18,5%.

Viceversa, il numero degli imprenditori risente notevolmente della recessione. Gli imprenditori, che prima della recessione, fra 2004 e 2007, erano cresciuti numericamente del 7,5%, arrivando a rappresentare il 4,9% degli occupati totali del 2007, al 2010, per effetto della recessione, si sono ridotti del 20,1% (cioè la classe imprenditoriale ha perso un quinto dei suoi componenti nel giro di soli 3 anni!) e al 2010 rapresentano appena il 4% del totale degli occupati.

Cosa ci insegnano questi dati? alcune cose di fondo ,secondo me, sono le seguenti:

- una recessione economica accelera, anziché ridurre, la tendenza della concorrenza capitalistica a elliminare dal mercato le imrpese più piccole, accelerandola concentrazione del capitale in un numero sempre più ristretto di mani. Un fenomeno che Marx aveva previsto esattamente, e che alla lunga finisce per ridurre il tassodi crescita degli investimenti, e quindi dell'accumulazione, precipitando il capitalismo nelle sue contraddizioni più distruttive;

- la classe operaia cresce costantemente in rapporto all'occupazione complessiva. Certo, l'operaio di oggi non è più quello analizzato da Marx ed Engels, è più un operatore di macchine utensili complesse, una sorta di tecnico, che un lavoratore manuale, i processi di outsourcing e di destrutturazione del fordismo ne hanno profondamente cambiato il rapporto con i suoi compagni e con il ciclo produttivo, la riorganizzazione della produzione con criteri toyotisti, la flessibilità crescente dei processi produttivi cui appartiene, ne hanno destrutturato il complesso dei diritti e delle tutele costruiti durante la fase keynesiana del fordismo, e ne hanno modificato anche il rapporto con il padronato, peraltro mettendo in seria crisi il sindacalismo tradizionale. Però l'operaio è ben lungi dallo scomparire dalle nostre società, come la destra vuol farci credere! Numericamente è sempre più centrale sul mercato del lavoro. Va compreso ed approcciato in modo diverso, per ricostruirne una coscienza di classe adatta ai grandi cambiamenti che ha subito, ma è lui la classe centrale, lo è, nuericamente, sempre di più!

- d'altra parte la recessione provoca una destrutturazione delle altre classi sociali: i lavoratori precari, come si è visto, tendono ad estinguersi molto rapidamente, non riuscendo quindi a maturare, tramite il contatto con i processi produttivi, una coscienza di classe definita. Impiegati e tecnici perdono peso: tale gruppo sociale si riduce del 4,1% fra 2007 e 2010, passando da una incidenza del 32,3% sul totale dell'occupaizone, ad una del 31,4% nel 2010. Anche prima della recesisone, impiegati e tecnici raprpesentavano una quota sull'occupazione totale inferiore a quella degli operai (rispettivamente, il 32,3% ed il 34,6%). Altro che terziarizzazione dell'economia e prevalenza dei colletti bianchi sui colletti blu, altro mito privo di fondamenti oggettivi;

- la destrutturazione indotta dalla recessione colpisce quindi le classi non operaie in misura maggiore rispetto alla classe operaia, e il fruttodi questa destrutturazione è la crescita dello stock di disoccupazione, che la ripresa produttiva in atto non riesce a riassorbire. Infatti, nel 2010, nonostante una ripresa del PIL valutabile attorno all'1%, la disoccupazione è cresciuta di un ulteriore 8,1%, dopo il +15% registrato nel 2009. Le imprese, infatti, di fronte a prospettive di ripresa dei mercati di consumo finali ancora incerte, preferiscono aumentare la produttività dell'occupazione esistente, piuttosto che incrementarla con nuove assunzioni. Va però considerato che anche per i prossimi due anni, le previsioni macroeconomiche scontano un PIL in crescita per non più dell'1,1-1,3%. Quindi, se tanto mi dà tanto, l'aumento della disoccupazione proseguirà almeno fino al 2013. Nel frattempo, avrà creato una miscela di impoverimento e disperazione (che colpirà in primo luogo, come si è visto, le classi che più sono colpite dalla destrutturazione: impiegati, ceto medio, gente culturalmente disabituata alla prospettiva della povertà e del regresso nel tenore di vita). Questa miscela avrà effetti politici oggi imprevedeibili, ma potenzialmente potrebbe costituire il brodo di coltura di una svolta antagonista, su cii sarà necessario innestare l'azione dell'unica classe che tiene ancora, la classe centrale, quella operaia.

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