di Alberto Belcamino
Un’altra figura del marxismo novecentesco che s’affaccia sulla cultura europea, dopo gli anni di riflusso rivoluzionario posteriori alla Prima Guerra mondiale, è quella di György Lukács (1885-1971) che, durante l’emigrazione viennese, pubblicò uno dei libri più importanti del marxismo del XX Secolo, Storia e Coscienza di classe (1923). Un’opera che, più avanti, egli rinnegherà per la presenza in essa di influenze e suggestioni dell’idealismo hegeliano che pone al primo posto il predominio della categoria della “totalità”, come “principio rivoluzionario nella scienza”, al posto del predominio della sfera economica nella spiegazione della Storia. Tale opera venne redatta, nel 1922, in un contesto in cui, nonostante le sconfitte della rivoluzione in Ungheria, Finlandia (e ancora: del biennio rosso in Italia e l’azione di marzo, dopo il putsch di Kapp del 1921), primeggiava la convinzione di una imminente rivoluzione mondiale nell’ambito di un atteggiamento settario da parte dell’autore finalizzato al raggiungimento di scopi di tipo utopistico-messianico. Nella rivista Kommunismus, Lukács, quale membro del collettivo interno, contribuiva ad alimentare questo settarismo messianico che prendeva le forme della lotta più radicale contro le istituzioni borghesi: il parlamento in primo luogo. Dopo la critica di Lenin, con L’estremismo, che criticava la posizione settaria della non partecipazione tattica in questa istituzione borghese, finché non venisse superata, dal punto di vista storico-universale, dalla creazione dei soviet durante il processo rivoluzionario, Lukács operò una svolta nel suo modo di pensare influenzato dal messianismo rivoluzionario. Trovandosi ad occupare posizioni di responsabilità, sia pure dall'opposizione, nel partito ungherese guidato da Bèla Kun, seguace di Zinoviev, egli fu costretto a confrontarsi coi fatti, in situazioni transitorie, per cui si rendeva necessario elaborare degli obiettivi intermedi e progressisti che avvicinassero la realtà quotidiana a quella della prospettiva rivoluzionaria attraverso mediazioni anti-settarie ed anti-utopistiche. In questo clima teorico e pratico-politico venne concepita l’opera Storia e Coscienza di classe che, in parte consisteva in rielaborazioni di testi precedenti, che serviva a completare lo sviluppo del suo autore, a partire dagli ultimi anni di guerra, verso una maggiore chiarezza! In realtà tale opera si presenta come un attacco all’ontologia marxista, come quando si sforza di interpretare il marxismo come “filosofia del sociale”, respingendo o ignorando la concezione materialistica della natura con l’affermazione che “soltanto la conoscenza della società e degli uomini che vivono in essa sarebbe filosoficamente rilevante”. In questo modo, come riconoscerà lo stesso Lukács, nella sua autocritica del 1967 (vedi la prefazione all’edizione italiana dell’opera), viene ridotta la sfera economica, “essendo sottratta ad essa la sua categoria fondamentale: il lavoro come mediatore del ricambio organico della società con la natura”. In altri termini, l’oggettività della società, quindi della scienza sociale, sparisce in questa visione, dato che lo sviluppo delle forze produttive ci fornisce lo stato dei rapporti reciproci tra società e natura, essendo determinati “in ogni fase storica dal livello tecnologico dell’uomo, dai suoi strumenti e dalle sue armi, dalle sue capacità e dai suoi metodi di lotta con la natura”. È questo il fine in sé, secondo cui, sviluppandosi illimitatamente le forze produttive umane, si sviluppa anche la ricchezza della natura umana”. Si colloca qui l’essere sociale: nel movimento delle forze produttive umane. L’essenza, invece, sta nei rapporti di classe storico-sociali; mentre il concetto, come concetto cieco, che non pensa, è rappresentato dalle categorie economiche che diventano l’oggetto di analisi dello spirito cosciente, cioè: del concetto in sé e per sé, in quanto atto dell'intelletto conscio di sé (il partito). Da qui, subiva una distorsione teorica anche il concetto di praxis nel marxismo, a causa del suo mancato radicamento nella praxis reale, nel lavoro! Questo sradicamento dalla prassi sensibile del concetto di praxis, condusse il filosofo ungherese a concepire la coscienza autentica di classe del proletariato come un risultato immediato di una contemplazione idealistica. La coscienza di classe viene “attribuita di diritto”, per il solo fatto che il proletariato viene inserito nel processo di produzione, da subito, come soggetto, e non come capitale merce produttivo, come mezzo di produzione “vivo” tra mezzi di produzione (capitale morto), come “cosa”, “merce”, oggetto tra oggetti, che diventa soggetto a partire dalla contraddizione tra la sua essenza umana e le condizioni di esistenza dentro il processo di lavorazione. Ma neanche questo basta. Occorre anche che la coscienza, il concetto in sé e per sé, intervengano dall'esterno, per diventare concetto universale, attraversando tutte le determinazioni essenziali che sono in riferimento al suo nemico principale (il capitale); e che si affacci anche la negazione dello stesso proletariato, come totalità determinante, per il superamento del rapporto sistemico e la sua assunzione a nuova “totalità universale”. Lukács, per sua stessa ammissione, si accusa di avere inclinato il materialismo di Marx sull’idealismo di Hegel e di avere pensato in termini troppo “umanisti” il ruolo del proletariato inteso come “soggetto” della Storia. Il valore conoscitivo dell’esperimento che, come affermava Engels, trasforma l’essere, “la cosa in sé” inconoscibile di natura kantiana, in “cosa per noi”, in Lukács, diventava un “negare la praxis nell’industria”, quella oggettiva, sensibile, per focalizzarsi solo sul soggetto delle leggi sociali. In questo modo, restava scorretto il rapporto tra teoria e prassi, tra soggetto ed oggetto, così come viene trattato nel marxismo, che era visto, invece, sotto l’ottica hegeliana dell’estraneazione equivalente all’oggettività, che non fuoriesce dall’ambito dello Spirito assoluto (l’Idealismo). Sempre in quest’opera viene affrontato il problema dell’estraneazione (Entausserung). Lukács pone questo tema muovendosi nello spirito di Hegel. Questi, difatti, indica il superamento dell’estraneazione (alienazione) mediante la razionalità e la realizzazione del soggetto alienato in soggetto-oggetto identico che si incarna nell’autoconoscenza, nel Sapere assoluto, fino al punto da togliere al termine del processo di dis-alienazione la stessa oggettività, cioè: la realtà in generale! Lukács, seguendo Hegel su questo terreno, nell’indicare il proletariato come soggetto-oggetto identico della Storia dell’umanità, culmina nella prospettiva di una realizzazione dentro la coscienza, non materialistica! Compiendo l’errore di equiparare, alla maniera di Hegel, l’estraneazione con l’oggettivazione, Lukács trasferisce l’autoconoscenza del proletariato nella prassi stessa, rinviando la realizzazione socialista nella storia e persino la prassi politica della conquista statale, ossia: dileguando la realizzazione materialistica del processo di dis-alienazione, il suo congiungimento vero tra soggetto ed oggetto.
Essendo l’oggettivazione nel marxismo, costituita dai prodotti del lavoro sotto le forme di “potenze feticistiche”, come la merce, il denaro, il capitale, il salario etc., il marxismo non toglie l’oggettività, come avviene nell’idealismo hegeliano, bensì solo le sue forme oggettivate in categorie storiche-determinate dentro una formazione economico-storica, nel senso che le spazza via praticamente, lasciando trasparire l’oggettività autentica, nel rapporto uomo-natura mediante il controllo cosciente della pratica lavorativa degli uomini e di quella spirituale-culturale nella civiltà comunista. E qui entra in gioco un altro dei temi fondamentali trattati in Storia e coscienza di classe, quello del rispecchiamento della praxis nella teoria, che Lukács negava in questo periodo, schierandosi per la prassi in quanto soddisfaceva la sua profonda avversione per il fatalismo meccanicistico a cui opponeva la sua visione utopistico-messianica degli anni ’20. Resta il nucleo centrale di quest’opera che assimila il “metodo dialettico” al “punto di vista della totalità”. In questo ambito, il filosofo ungherese riflette il pensiero di Hegel e, quindi, è merito di quest’ultimo il fatto di avere trattato la categoria della “mediazione” come superamento della mera immediatezza dell’empiria, come una connessione interna agli oggetti indagati, e non accontentandosi di esprimere su di essi un giudizio di valore o un dover essere; epperò egli (Lukács) non critica l’oggettivismo di Hegel e i suoi limiti idealistici che gli impediscono di trovare l’essenza dentro la struttura degli oggetti determinati (le determinazioni oggettive), e le connessioni tra essi sulla base di tale struttura essenziale, anziché dentro il pensiero logico-formale, anche se dialettico! In questo modo, Lukács non denuncia il modo formalistico di fare scienza da parte di Hegel nella ricerca della sostanza, rispetto alla quale il determinismo positivistico del Sec. XIX aveva almeno il merito di scoprire le cause; né di denunciare i limiti di quest’ultimo mediante l’apparizione del concetto in sé e per sé (il partito) che, portando la “negatività” (il proletariato) sino a negare se stessa, raggiunge il carattere di universalità, dando l’avvio al processo di de-feticizzazione che realizza, nella pratica storica, l’uscita dal sistema dominante, la libertà comunista! Il punto di vista della Totalità non si afferma solo assumendo nel pensiero il metodo dialettico, ma abbisogna, nel marxismo, della traduzione di quest’ultimo nella prassi storica sensibile in cui s’incontrano, per congiungersi ed identificarsi, il concetto soggettivo, incarnato dal partito, con quello oggettivo, inserito già nel processo del pensiero, incarnato dal proletariato, su cui interviene, nella fase di sperimentazione, con atti pedagogici ed organizzativi, nel corso della lotta, l’intelletto conscio di sé: cioè il partito rivoluzionario.
Il periodo successivo al 1924, rivelò un rallentamento nel processo rivoluzionario per cui la parola d’ordine della dittatura proletaria assumeva il carattere di una donchisciottesca formula che indicava una “fuga in avanti”. Bisognò occuparsi di come elaborare una strategia adeguata al periodo di transizione che avanzava, rivendicando parole d’ordine politico di tipo democratico, sulla falsariga di quanto aveva avanzato Lenin, nel 1905, con la “dittatura democratica degli operai e dei contadini”. Ma occorreva anche risolvere il problema politico dell’alleanza con le forze socialdemocratiche per contrastare l’offensiva dei governi reazionari fascisti, in Italia, e di quelle forze del nazismo hitleriano che già si apprestavano a dare l’assalto al potere statale in Germania. C’era da scegliere tra la tattica del Fronte unico di classe e quella del Fronte popolare, la quale ultima implicava un’alleanza interclassista con le forze politiche della borghesia “democratica”. Lukács si arrestò a metà strada tra queste due opzioni e non prese alcuna decisione, appartandosi dalla politica interna ed internazionale. Per timore di essere espulso dal partito di Bela Kun, come “liquidazionista”, data la sua reticenza a prendere posizione a favore della politica di Stalin sul social-fascismo, nel 1929, egli si ritirò, dopo una pubblica “autocritica”, dall’attività politica e tornò a concentrarsi su quella teorica. Fu nel 1930, quando Lukács divenne collaboratore scientifico del’Istituto Marx-Engels di Mosca, che venne inteso, come una “illuminazione”, il limite idealistico dell’opera Storia e Coscienza di classe, imbattendosi nella scoperta, presso l’Istituto, dei “Manoscritti economico-filosofici”, che non avevano mai visto la luce. Qui egli comprese il significato del concetto di “oggettività”, in Marx, “come proprietà materiale primaria di tutte le cose e di tutte le relazioni” e come “modo naturale di dominio umano del mondo” che si differenzia da quel modo particolare di oggettivazione che si realizza in determinate circostanzi sociali. Lukács, così, scopriva le basi materiali dell’autoconoscenza e del pensiero teorico, costituite dal lavoro e dalla sfera economica. A questo punto si rese conto che “Storia e coscienza di classe” aveva imboccato una via sbagliata. Bisognava ricominciare daccapo!
Prima di questa svolta, nel corso degli anni ’20, aveva tracciato delle linee fondamentali di ricerca intorno alla personalità di Lenin che egli delineava nell’ambito della sua visione idealistica hegeliana. Egli giudica Lenin né come un teorico né come un geniale pragmatico “politico realistico”, ma come “un profondo pensatore della praxis (!)”, un uomo che converte la teoria nella praxis, concentrato sul punto in cui “la teoria trapassa nella praxis e la praxis nella teoria”. In generale, questo è vero, in quanto Lenin è colui che trova il "giusto rapporto tra teoria e prassi, tra soggetto ed oggetto”, ma come fa ad affermarlo Lukács che ancora ignora come si formi una teoria (il concetto in sé e per sé nel pensiero), dal momento che non prende a base della sua costruzione né la sfera economica, né il lavoro, ma soltanto l’immediatezza della esistenza teorica del soggetto operaio con l’oggetto non ancora indagato, né penetrato dal soggetto e che, quindi, si trova come un che di esteriore, di estraneo rispetto al soggetto? Da qui discende tutto il formalismo metodologico di Lukács, in questo periodo; e la sua errata convinzione che il metodo dialettico consista nella conquista della “totalità” che la classe operaia da sola non potrà mai raggiungere, se non con l’aiuto proveniente dall’esterno di un intelletto cosciente di sé (il partito). Quindi, la classe operaia non diventa “soggetto storico” finché non si fonde e si salda (la sua parte pensante) col partito, quale intellettualità cosciente di sé, di cui, durante questo processo d’identificazione, essa ha il ruolo di un “essere posto” che progredisce verso la rappresentatività, (l’essenza nel pensiero), e infine approda alla totalità e all’universalità del concetto in sé e per sé (di spirito conscio di sé), identificandosi nel partito! Ora Lenin, nell’applicazione della teoria alla pratica storico-politica, non solo analizzava le classi fondamentali in lotta tra loro e il terreno su cui una tale lotta si estrinsecava, ma lavorava dentro il movimento operaio rivoluzionario analizzando, quale era il suo grado di coscienza e di organizzazione nelle situazioni pre/o rivoluzionarie mediante obiettivi intermedi capaci di rivelare,nella pratica, attraverso parole d’ordine immediate e semplici, le relazioni antagonistiche, contraddittorie e non, e per il passaggio a fasi successive e progressive nella prospettiva del rovesciamento politico della classe capitalistica dominante. Lenin non fu, dunque, un teorico della prassi in generale, bensì della “prassi rivoluzionaria”, di quella prassi che conduce al potere la classe operaia ed i suoi alleati, indicando forme e modi per la conquista del potere statale e per la realizzazione, successivamente, del socialismo nella società civile, nella prospettiva della rivoluzione mondiale! E tutto questo veniva apparecchiato, a partire dall’analisi delle situazioni politiche e sociali e del dispiegamento e sviluppo dei rapporti di forza, politico-militari dei movimenti di massa rivoluzionari e delle contromisure governative per scacciare il movimento di emancipazione, in combinazione con le misure organizzative coscienti di lotta, nell’intento di incanalare l’energia spontanea delle masse in fermento verso forme organizzative guidate da elementi coscienti del partito che si adoperano per affermare gli obiettivi transitori del programma politico fino al conseguimento di quelli massimi.
Durante questo periodo, Lukács lavorò attorno a delle recensioni degli scritti di Moses Hess, nel tentativo di stabilire una più “precisa determinazione del rapporto tra economia e dialettica”, cioè: tra scienza e filosofia. Ma Lukács è ancora prigioniero dell’identità hegeliana tra oggettivazione ed estraneazione, anche se quest’ultima viene ora definita come “forma d’esistenza immediatamente data dal presente come momento di transizione al suo auto-superamento nel processo storico”. Anche qui, con questa nuova formulazione, Lukács non fa che compiere un altro passo in avanti al movimento delle cose, dell’oggetto, in rapporto con il movimento del pensiero, la dialettica: aggiunge alla determinazione dell’immediatezza (dell’intuizione) quella della riflessione (della mediazione), senza con questo far uscire dalla sua singolarità il concetto, che, al massimo, diventa particolare, ma non raggiunge ancora il carattere dell’universalità e, quindi, del movimento verso la sua realizzazione, in quanto manca l’atto dello spirito conscio di sé (il partito) che, dall’esterno, interviene per superare l’alienazione e la reificazione del mondo presente dal processo storico, fondendosi con la totalità negativa, la classe portatrice della negatività che, questa volta, fa riferimento a se stessa (momento della “negazione della negazione”, cioè: della realizzazione del concetto in sé e per sé). Dopo la svolta antimeccanicistica degli anni ’30, durante il suo soggiorno a Mosca, Lukács comprese di doversi dirigere verso un nuovo tipo di critica che lumeggiasse le connessioni filosofiche tra l’economia e la dialettica. Ossia: tra scienza e filosofia. La cosa prese l'avvio con l’opera sul “Giovane Hegel e i problemi della società capitalistica”, pubblicata nel Dopoguerra (1948), quando l’autore si era già trasferito a Budapest, ma di cui la prima stesura era già compiuta nel 1937. E continuò con le sue elaborazioni personali sul realismo in arte (lontanissime dal “realismo socialista”) con cui critica le tendenze naturalistiche e quelle della teoria del “rispecchiamento” fotografico della realtà, rifiutandosi di ridurre (come voleva il diamat stalinista) i piani sovra-strutturali del reale a epifenomeni della struttura economica, sempre lungo la linea di ricerca tesa a trovare la giusta relazione tra la dialettica e l’ontologia dell’essere sociale, a cui lavorò sino alla fine. Alla stessa stregua di un Althusser che ricercava l’elaborazione della filosofia marxista come ultima spiaggia per salvare il marxismo dalla bancarotta, nel XX Sec., Lukács, negli anni ’30, aveva individuato il fondamento ontologico della coscienza, (in seguito alla lettura dei Manoscritti filosofici di Marx), cioè: l’economia, ma senza uscire dalla visione umanistica e soggettiva della filosofia marxista, come, invece, avrebbe fatto, più avanti, Althusser, inaugurando la nuova postazione avanzata della “filosofia del concetto” verso la metà degli anni ’60. D’altronde, la genesi del marxismo, ci rivela come il principio del “rovesciamento” non coinvolse solo il fondamento (conversione dall’idealismo al materialismo), ma anche le relazioni intrinseche, i rapporti di classe in processo sia nella sfera strutturale che sovrastrutturale. Ciò che viene mostrato come riflesso del mondo oggettivo nel mondo dei concetti non si limita ad affermare il principio assoluto del materialismo, ma, in specie, il suo contenuto principale, ossia le relazioni, le contraddizioni, l’essenza dentro l’oggetto materiale sensibile (indipendente dalla coscienza) che, in processo, si riflettono come in uno specchio (in quanto alla forma) nelle categorie logiche. Nel prologo alla seconda edizione del “Capitale”, Marx lo mette in evidenza, scrivendo: “Il mio metodo dialettico, in quanto al suo fondamento, non solo è differente da quello hegeliano, ma è il suo contrario diretto...”. Dove per “fondamento” si deve intendere la base ontologica; mentre “il contrario diretto” si riferisce alle relazioni reciproche (le contraddizioni, l’essenza, i rapporti di produzione reali, il movimento, ecc.) tra essere materiale e concetto (di ragione). Questa distinzione (tra essere e concetto) risulta più chiara, se citiamo un famoso passo di Lenin dai Quaderni Filosofici: «...la totalità di tutti gli aspetti del fenomeno, della realtà e delle sue relazioni (reciproche), di questo è composta la verità. Le relazioni (transizioni=contraddizioni) dei concetti= il contenuto principale della logica, mediante cui questi concetti (e le loro relazioni, transizioni, contraddizioni) si manifestano come riflesso del mondo oggettivo. La dialettica delle cose produce la dialettica delle idee, e non viceversa». Il risultato negativo del marxismo olistico-formale consisterebbe nel fatto che la coscienza non indaga l’essere, l’oggetto, le sue leggi peculiari per comprendere la verità in quanto mero oggetto, ma si sposta subito al momento dell’essenza, cioè alla “relazione della coscienza come verità con l’oggetto della conoscenza”. Così, invece che sulla causa efficiente, la ricerca viene focalizzata sulla causa finale, ricavata arbitrariamente dal principio organicistico di superamento della divisione e dell’alienazione come una meta a cui si tende, non per “essenza”, contenuta e ricavata dall’oggetto nella sua necessità, ma per “concetto”, avulso dalla realtà, il quale ha solo la parvenza dell’universalità (e anche del concetto). Questa visione soggettiva ed utopistica resterà presente anche nelle sue ultime opere, dedicate alla “Ontologia dell’essere sociale” ed agli altri scritti sulla democrazia borghese e sullo stalinismo. Difatti, egli scrive che “la più profonda verità del marxismo consiste nel divenir-uomo dell’uomo come contenuto del processo storico, che si realizza – assai variamente – in ogni singolo corso di vita umana” (Vedi Il pensiero vissuto – IX Paragrafo). Dove risalta il momento del processo storico in cui “il singolo uomo”, divenuto “per sé”, mediante una conoscenza olistica e finalistica (avulsa dalla comprensione delle leggi di funzionamento dell’essere, dell’oggetto d’indagine), decide di intervenire nella società civile per realizzare le forze generiche dell’uomo. Quest’assunto che dovrebbe essere l’anima del marxismo nulla ci dice però sul “come si acquisisce la conoscenza critica”, se non ricorrendo escatologicamente al concetto organicistico di Gemeinwesen, la “comunità organica di vita”, il comunismo, sotto le forme di categorie filosofiche prive di scienza! Per Lenin invece l’anima del marxismo è “l' analisi concreta di situazioni concrete” che subordina il movimento dei concetti logici (la filosofia) al movimento di ricerca scientifica, che, in quanto pratica teorica, sottopone a sperimentazione l’apparato logico-formale e dialettico, che esiste come “presupposto-posto” nel soggetto indagante, e lo arricchisce, mediante nuove e più approfondite relazioni ricavate dalla realtà storica. In sintesi, Lukács fallisce nello sforzo di chiarire i rapporti tra scienza e filosofia, tra “Critica dell’economia politica e Dialettica”, tra “Sostanza e Concetto”, mentre riesce meglio nelle indagini che mettono in relazioni contrapposte il metodo del razionalismo oggettivo rispetto a quello dell’irrazionalismo esistenzialistico o dell’intuizionismo intellettuale alla Schelling, dell’Illuminismo contro l’Anti-illuminismo. Un esempio di questo è dato dalla sua opera intitolata La distruzione della ragione (1954), in cui le due parti (I – Da Schelling a Nietzsche; II – Da Dilthey a Toynbee) “costituiscono un’inchiesta approfondita sugli antecedenti ideologici del nazional-socialismo, fra i quali sono denunciati il sistema di Spengler, l’esistenzialismo heideggeriano e tutte le forme di vitalismo o d’irrazionalismo filosofico”.
Nel 1956, all’epoca della insurrezione antisovietica (in realtà, antiburocratica), a Budapest, egli vi prende parte attivamente svolgendo le funzioni di ministro della Cultura nel governo diretto dal premier Imre Nagy. Allorché la rivolta è repressa dalla cosiddetta “Armata sovietica”, egli è costretto a rifugiarsi presso l’ambasciata jugoslava e, poi, a prendere la via dell’esilio, ma questa volta, dopo l’autorizzazione al rientro, rifiutandosi di sottoporsi ad una ennesima autocritica. Tale opposizione non significava una denunzia radicale del carattere reazionario del regime “comunista burocratico” dell’URSS, ma soltanto un suo schieramento a fianco delle forze riformiste all’interno del “comunismo stalinista”, che, di lì a pochi decenni più tardi, doveva imboccare la strada dell’assimilazione al regime capital-imperialistico occidentale, determinando la fine della menzogna sull’esistenza di “Stati operai”, ancora in circolazione, nell’Est europeo e in Asia, dopo l’esito “democraticistico e reazionario” degli eventi che avevano caratterizzato le lotte antifasciste, in Europa, incanalandole dentro gli argini controrivoluzionari delle due Potenze uscite vincitrici nel Dopoguerra: USA e URSS!
La lotta tra “razionalismo ed irrazionalismo” non conduce a soluzione il problema strategico della nascita di una teoria rivoluzionaria, ma può solo rappresentare una misura tattica, anche oggi, dopo che, io e Giotto, abbiamo esaminato (in un'ottica pratico-filosofica), il percorso filosofico-reazionario dell’intellettualità mondiale dal 1975 ad oggi. La vera lotta, sul terreno della coscienza, è invece quella tra lo spirito critico della scienza e la filosofia marxista, nella prospettiva di sottoporre a indagine scientifica la lotta delle masse sfruttate nel mondo verso il sistema sfruttatore, ossia la scienza della prassi rivoluzionaria che si cali nell’azione viva delle lotte politiche per realizzare il progetto di indicare obiettivi transitori nelle situazioni intermedie e passare a forme organizzative di lotta ex novo che le conducano verso la conquista del potere politico e la realizzazione socialista nella società civile, su scala interna ed internazionale!
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