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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 21 giugno 2011

Un tentativo di analisi oggettiva del mattatoio nella ex Iugoslavia, di Riccardo Achilli


Nel cuore di questa follia
al centro stesso dell'autodafé della civiltà occidentale
i fiori marciscono nel sangue
e la terra rimbomba delle urla dei morti


Premessa
In questo saggio, senza alcuna pretesa di esaustività né di conclusività circa una vicenda complessa, dolorosa, che affonda le sue radici nei secoli, cercherò di delineare alcuni tratti della vicenda della disgregazione nella ex Iugoslavia, nel tentativo di apportare il mio contributo, soprattutto, a smontare l'immagine fasulla e semplicistica data dai media occidentali, al servizio dell'imperialismo USA ed europeo, ovvero dei “cattivi serbi” e dei buoni “albanesi, croati e musulmani”, per cui l'intervento militare NATO contro la Federazione Iugoslavia, e la Serbia in particolare, anziché essere, come fu, un ato di aggressione imperialistico, sarebbe stato motivato dall'esigenza di proteggere le popolazioni civili da un presunto fascismo revanscista serbo.
Sono molti anni che ho il desiderio di scrivere qualcosa al proposito, e ringrazio in particolare il compagno Vincenzo Zamboni, che ha fornito molto materiale prezioso per rimettere a posto la vicenda delle guerre nella ex Iugoslavia, nonché il mio amico Fabio Bronzini. Naturalmente sono totalmente e personalmente responsabile di quanto scritto in questo saggio.
Una considerazioe preliminre: questo saggio non è affatto inteso a sostenere una tesi revisionista o filo-serba rispetto a quello che successe nella ex Iugoslavia. Non si possono negare i pesanti crimini di guerra commessi dai serbi durante le diverse fasi del conflitto. E' mirato soltanto a dare un contributo per una visione più oggettiva dei fatti, che porta a concludere che i serbi, non solo non furono gli unici responsabili del mattatoio balcanico (come invece i mass media occidentali vogliono far passare) e che, anzi, specie nelle fasi iniziali della vicenda, ebbero più ragioni che torti, mentre i veri mandanti di questo macello, ovvero i Paesi occidentali, nonché gli esecutori non serbi, in larga misura sono rimasti impuniti.
Non si capisce il tormento della ex Iugoslavia se non se ne capisce la storia. Ritengo pertanto indispensabile iniziare questo saggio da un brevissimo inquadramento storico di alcuni fatti fondamentali.

Alcuni fatti storici fondamentali
I musulmani di Bosnia derivano da una setta cattolica medievale, i bogomili, estremamente critica con le gerarchie ecclesiastiche ufficiali, e dunque emarginata e a volte anche vittima di repressioni, che con l'invasione turca trovò conveniente convertirsi all'Islam (la dominazione ottomana, contrariamente a quanto si pensa, fu spesso caratterizzata da un certo grado di tolleranza nei confronti dei popoli conquistati), ricevendone in cambio ampie concessioni di terre, strappate ai serbi, che rifiutarono la conversione.
Il Kosovo era poi, nel medioevo, terra a maggioranza serba. I protoserbi avevano infatti assimilato le precedenti popolazioni illiriche, per cui i primi documento affidabili, ovvero le registrazioni catastali turche relative alle tasse per censo (defter) del 1455, che prendono in considerazione la religione e la lingua dei soggetti interessati, comprovano una schiacciante maggioranza serba. Peraltro, l'ortodossia serba nacque fra i monasteri di Peč, Kosovska Mitrovica, Gračanica e Deçani e la composizione etnica del Kosovo fu stravolta dall'afflusso di grandi quantità di albanesi convertitisi all'islam, su terre requisite ai serbi, su impulso turco, nell'ambito della politica ottomana di leopardizzazione territoriale delle etnie soggiogate, fino a ridurre l'etnia serba a poco più del 10% della popolazione kosovara totale.
La popolazione della Croazia occupata dagli eserciti italo-tedeschi durante la seconda guerra mondiale ed affidata al regime-fantoccio degli ustascià di Ante Pavelic era per il 19% composta da serbi, che nelle regioni della Krajina e della Slavonia erano maggioritari. Gli ustascià di Pavelic fecero una pulizia etnica, a danno dei serbi. Secondo le più recenti stime di Zerjavic, furono uccisi dagli ustascià circa 374.000 serbi di Croazia, senza contare le migliaia di famiglie serbe costrette a fuggire, abbandonando le loro case e proprietà, oppure costrette ad abbracciare la religione cattolica, ed a “croatizzarsi”, per evitare la morte (anche se ovviamente massacri di croati vanno imputati ai cetnici serbi).
Quando il 4 Maggio 1980 morì Tito, in un Paese che già sperimentava una gravissima crisi economica da sovra-indebitamento estero, fatta di iper-inflazione, disoccupazione crescente, collasso del sistema bancario, colpito dalla rapidissima svalutazione dei debiti privati pregressi indotta dall'iper-inflazione, ed enormi disparità di sviluppo economico fra le diverse Repubbliche della Federazione, si dissolse la grande epopea del socialismo panslavo che aveva connotato la straordinaria esperienza iugoslava.
Come risposta alla susseguente gravissima crisi economica degli anni Ottanta, risorsero gli egoismi nazionalistici. Le Repubbliche più industrializzate e ricche (Slovenia, Croazia, alcune zone musulmane della Bosnia, la Provincia autonoma della Vojvodina, a forte componente etnica ungherese) iniziarono a rifiutare di svolgere il tradizionale ruolo di locomotiva a favore delle Repubbliche più povere. Vi furono ripetuti fenomeni di rifiuto, da parte delle Repubbliche più ricche, di versare all'erario federale la quota di imposte di loro spettanza. Vi furono casi di vero e proprio protezionismo, per cui le merci che viaggiavano da una Repubblica all'altra finivano per dover pagare un dazio interno, imposto dalla Repubblica di destinazione della merce. O casi che sfociarono nel ridicolo (gli autisti serbi di autobus di linea, quando superavano il confine croato, dovevano essere sostituiti da autisti croati). In alcuni casi, i singoli governi delle Repubbliche utilizzarono la Zecca federale per stampare denaro o mezzi di pagamento, al di fuori dei limiti all'emissione stabiliti dalla Banca centrale.
Questo nuovo egoismo economico naturalmente non poteva non avere un riflesso nella sovrastruttura culturale e politica. Le riforme costituzionali che introdussero una presidenza federale di tipo collegiale, a rotazione fra gli esponenti delle 6 Repubbliche, senza più nessuna figura prestigiosa, dopo la morte di Tito, che garantisse l'unità nazionale, introdussero un ulteriore elemento di ingovernabilità e disgregazione. Crebbe inoltre il nazionalismo etnico anche nell'agone politico, in linea con la progressiva dissoluzione della capacità di presa della Lega dei comunisti. Nel 1986, l'Accademia Serba delle Scienze emanò un memorandum, che fu spesso, nella stampa occidentale, mostrato come la “pistola fumante” del risorgere di un nazionalismo etnico serbo aggressivo. Le cose in raltà non stanno così. Il famigerato memorandum in realtà, non faceva che esprimere un dato storico, ovvero che Tito, che era un croato, quando disegnò i confini delle Repubbliche della Iugoslavia, fece in modo di dividere le popolazioni serbe in diverse entità, al fine di indebolire complessivamente l'influenza politica ed economica della Serbia all'interno della Federazione. Quindi, il memorandum denuncia fatti incontrovertibili, o esprime opinioni del tutto ragionevoli, stante la situazione, ovvero:
- le continue violenze cui i serbi del Kosovo vengono sottoposti dagli albanesi, con il complice silenzio delle autorità federali, ed il crescente pericolo corso dalle comunità serbe in Croazia;
- il drastico incremento della competizione economica interna, condotta con metodi sleali soprattutto da Slovenia e Croazia, ai danni dell'economia serba;
- la necessità di realizzare la piena unità culturale e politica dei serbi, se la Federazione iugoslava dovesse crollare. Tale affermazione è stata, esageratamente, considerata come una apertura al progetto di Grande Serbia, tradizionale cavallo di battaglia del nazionalismo cetnico. Tuttavia, tale considerazione non era altro che la naturale conclusione dell'analisi condotta precedentemente, riferita alla crescente discriminazione dei serbi, ed anche un ovvio ragionamento: se la Iugoslavia dovesse cadere, i serbi dovrebbero guardare al loro interesse. Si trattava semplicemente di un fatto di mera sopravvivenza, considerato che il crollo imminente della Federazione avrebbe scatenato prevedibili violenze etniche ai danni delle comunità serbe residenti al di fuori della Serbia. Quindi l'associazione del memorandum al progetto cetnico di Grande Serbia fu una mistificazione giornalistica e storica. Gli autori del memorandum richiamavano esclusivamente una esigenza di autodifesa, in un contesto che progressivamente diventava sempre più violento.
Il tracollo economico della Iugoslavia e la conseguente risorgenza dei nazionalismi etnici fu vista come un'opportunità di creare colonie economiche da parte delle cancellerie della Germania, della Gran Bretagna e della Francia, e come un'opportunità di colpire il comunismo dell'Europa dell'Est iniziando dal suo ventre molle, ovvero la Iugoslavia in dissoluzione, da parte degli USA. Una direttiva di sicurezza nazionale recentemente emersa dagli archivi della CIA, la NSDD 133 del 1984, richiama l'esigenza di “promuovere una rivoluzione pacifica per rovesciare il Governo comunista e per integrare il Paese nei meccanismi dell'economia di mercato”.
Pertanto, i leader nazionalisti vennero sostenuti e foraggiati dai Paesi occidentali. Milosevic inizia la sua carriera politica dopo esser stato direttore della sede di rappresentanza della Beogradska Banka a Washington, per anni. Nei suoi anni di permanenza a Washington, divenne amico dei Bush e di Reagan. E tornò a Belgrado con precisi progetti politici foraggiati dagli USA. Una volta preso il potere, con l'aiuto della CIA, iniziò una politica nazionalistica nel Kosovo, che però era una politica di difesa della minoranza serba sottoposta a gravissime discriminazioni, ed anche violenze, da parte degli albanesi. Il discorso di Milosevic del 1989, a Kosovo Polje, non è stato mai adeguatamente analizzato. Egli disse "mai più nessun serbo del Kosovo verrà aggredito". Che significa? Che non stava attaccando gli albanesi in quanto tali. Voleva soltanto difendere i serbi dalle violenze albanesi. Però i media occidentali si focalizzarono esclusivamente sull'aspetto per così dire più folkloristico di tale manifestazione, ovvero la riesumazione delle spoglie di Re Lazar Obradovic, l'ultimo sovrano serbo che si oppose all'invasione turca, morendo nella battaglia di Kosovo Polje. E diedero a tale atto folkloristico un valore simbolico, decisamente esagerato, di riesumazione del peggior nazionalismo etnico.
Naturalmente, da piccolo leader nazionalista foraggiato dalle potenze occidentali per contribuire alla disgregazione della Iugoslavia, Milosevic non mancò di compiere atti assolutamente condannabili, non rientranti nella logica della difesa dei serbi, quanto piuttosto nella logica di distruzione della Federazione che i suoi committenti stranieri gli avevano affidato: l'abolizione dello statuto autonomo della Vojvodina, la sostituzione “manu militari” con dei fedelissimi dell'intera dirigenza albanese della Lega dei comunisti. Così come vergognosa è la chiusura unilaterale dell'università albanese di Pristina, che privò gli albanesi kosovari della possibilità di coltivare la loro cultura nazionale. Tali atti verranno poi strumentalmente utilizzati ed esagerati dalle altre Repubbliche, per giustificare la loro volontà di secessione, altrettanto strumentalmente manovrata dagli stessi committenti occulti che manovravano Milosevic.
Nel Gennaio 1990, si svolse il drammatico 14-mo congresso straordinario della Lega dei comunisti iugoslavi, che sancì la fine dell'esperienza iugoslava. Sloveni e croati, imbeccati dalla CIA e dal Governo tedesco, bramoso di utilizzare Slovenia e Croazia, caratterizzate da bacini di manodopera competenti ed a basso costo, come aree di delocalizzazione delle proprie imprese, si presentarono con un progetto di riforma costituzionale che assegnava ulteriori poteri alle Repubbliche, già ampiamente autonome, e che avrebbe segnato una secessione “de facto”. Il resto del partito, ovviamente, nato sull'idea del panslavismo e del socialismo federativo, rigettò il progetto. Di conseguenza, le delegazioni slovena e croata, unilateralmente, dichiararono la loro fuoriuscita dalla Lega dei comunisti. Nei mesi successivi, in ogni Repubblica si tennero elezioni multipartitiche, veri e propri referendum sulla secesione dalla Federazione.
Nel frattempo, in Croazia prendeva il potere Franjo Tudjman, ex militare, ex dissidente nazionalista ed anticomunista, convinto ammiratore degli ustascià, fortemente appoggiato dalla Chiesa cattolica ed amico di Woytila. Per dare un'idea del personaggio, basta citare un passo del suo libro “Gli orrori della guerra”, scritto proprio nel 1989:
“Il genocidio è un fenomeno naturale, in armonia con la natura mitologicamente divina della società. Il genocidio non è solo permesso, è raccomandato, perfino ordinato dalla parola dell'Onnipotente, tutte le volte che sia utile per la sopravvivenza o il ripristino del dominio della nazione prescelta, oppure per la conservazione o la diffusione della sua unica e giusta fede”.
Credo che neanche nel Mein Kampf si facciano affermazioni così crude. Secondo lo storico Luciano Canfora "Tudjman non è soltanto "revisionista" sul piano "storiografico", è anche un antisemita in servizio permanente (...). Tudjman, che esalta Pavelic e condanna il cosiddetto "giudaismo internazionale" passa per il "moderato" della nuova Croazia. La Croazia (...) è ormai a tutti gli effetti una nuova "Croazia fascista", come ha efficacemente argomentato Simon Wiesenthal”. Questo delicato, tollerante e democratico signorino (che verrà condannato post mortem come criminale di guerra, per le stragi di serbi perpetrate nel 1995, a dimostrazione del fatto che, in fondo, il bistrattato memorandum dell'Accademia Serba delle Scienze, quando evidenziava la necessità per i serbi di organizzare la propria autodifesa, non sbagliava poi di molto) riuscì a promuovere la secessione della Croazia conquistando, grazie ad una legge elettorale scandalosa e “ad personam”, il 60% dei seggi parlamentari alle elezioni del 1990, anche se il suo partito aveva ottenuto appena il 33% dei voti, quindi anche se la maggioranza degli elettori croati (ivi compresi i serbi in Croazia, che allora rappresentavano l'11% della popolazione) non aveva votato a favore dell'indipendenza. Il Nostro, quindi, dichiarò unlateralmente la secessione della Croazia dalla Federazione, senza però considerare che in Croazia risiedeva una consistente minoranza serba, cui non era stato chiesto il parere sulla decisione di separarsi dalla Iugoslavia, e che quindi si ritrovava divisa dalla Patria-madre, nelle mani di un Governo nazionalista e filo-ustasceggiante. Basti pensare che Tudjman, il cui partito, l'HDZ, era foraggiato dalla NATO, senza alcuna consultazione popolare varò una costituzione in cui la Croazia era definita "lo Stato dei croati" (e i serbi residenti in Krajina e Slavonia? Evidentemente, sarebbero stati epurati da lì a poco).
In Bosnia, successe più o meno la stessa cosa. Nel 1990, alle elezioni, il partito secessionista musulmano di Izetbegovic prese il 37,8% dei voti (mentre i musulmani erano il 43,7% della popolazione). I partiti etnici dei serbi e dei croati, ostili alla secessione, presero, congiuntamente, il 41,2%, da aggiungersi ai voti dei comunisti e dei riformisti, anche loro ostili alla secessione (11%). Quindi un'ampia maggioranza di elettori bosniaci si espresse contro il progetto secessionista. Nonostante ciò, Alija Izetbegovic, un noto fondamentalista islamico, più volte incarcerato ai tempi della Iugoslavia comunista per le sue idee religiose, nel febbraio 1992 convocò un referendum nazionale sull'indipendenza della Bosnia. Ciò provocò le minacce dei membri serbi della presidenza che dissero che nel caso ci fosse stata l'indipendenza della Bosnia, le aree della Bosnia abitate da serbi si sarebbero scisse per rimanere con la Jugoslavia. Il che, per inciso, è un fatto del tutto ovvio e naturale: se i musulmani bosniaci avevano il diritto di secessione, perché mai i serbo bosniaci non avrebbero dovuto avere il diritto di riunirsi con la loro madrepatria? Izetbegovic però negò decisamente tale naturale diritto dei serbi, in ciò supportato dalla Comunità internazionale, che più volte si espresse per un'irragionevole ipotesi di Bosnia unitaria, e suddivisa in cantoni su base etnica.
Il referendum fu boicottato dai serbi, che lo considerarono incostituzionale, ma ebbe il 99,4% dei voti in favore, con un'affluenza del 67% (la maggior parte costituita da bosniaci e croati). Sulla partecipazione al voto dei croato-bosniaci, va aperta una parentesi. Il loro leader, Mate Boban, agì in tal senso dietro indicazione di Tudjman. L'obiettivo dei croato-bosniaci non era l'indipendenza di una Bosnia multietnica, quanto piuttosto ottenere il distacco della Bosnia dalla Iugoslavia, e quindi anche dal potentissimo Esercito Federale, per aprire un secondo fronte di guerra, che avrebbe alleggerito la situazione militare in Croazia, e per aggredire successivamente il più debole Esercito musulmano, al fine di ottenere il distacco dell'Erzegovina dalla Bosnia, e la sua riunificazione con la Croazia. Infatti, dopo una prima fase, nella quale i croati combetterono insieme ai musulmani contro l'esercito serbo, in seguito ad un accordo segreto Milosevic-Tudjman, questi passarono dall'altra parte, aggredendo a tradimento i loro ex alleati. Il parlamento bosniaco, già abbandonato dai serbo-bosniaci, dichiarò formalmente l'indipendenza dalla Jugoslavia il 29 febbraio e Izetbegović annunciò l'indipendenza della nazione il 3 marzo 1992, formando un governo composto esclusivamente da musulmani, tanto per far capire subito quale sarebbe stato il livello di tolleranza nei confronti dei serbi.

Scoppia la guerra: la Croazia
La guerra scoppia, contrariamente all'opinione comune (e distorta), su iniziativa dei croati e degli sloveni, e non dei serbi, rafforzando la convinzione che i serbi non fecero altro che difendersi. Ad agosto del 1990, infatti, il Governo croato tenta di sostituire la polizia della regione della Krajina, a maggioranza serba, con poliziotti croati. Ne segue una sommossa popolare, cui i poliziotti croati (in realtà membri della milizia) rispondono sparando. I civili serbi cercano rifugio nelle caserme dell'JNA (l'Armata popolare iugoslava) che inizialmente rimane passiva. Al contrario, l'JNA, in un estremo tentativo di evitare la guerra, inizia a disarmare le milizie croate e slovene. Ma per ogni arma sequestrata, altre 10 entrano illegalmente in Slovenia e Croazia, evidentemente tramite i Paesi occidentali e la CIA, interessati a far precipitare la situazione (se poi si fossero verificate migliai di morti innocenti, cosa importa ai nostri politici “democratici”?)
Il 26 Giugno 1991, il giorno dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza della Slovenia, la JNA inizia le operazioni militari di riconquista della Repubblica secessionista. Dopo 10 giorni di scontri senza significativi risultati per nessuno dei due contendenti, le parti concordano sul cessate il fuoco di Brioni, nel quale la JNA si impegnava ad evacuare Slovenia e Croazia, in cambio di una moratoria di 3 mesi della dichiarazione di indipendenza delle due repubbliche ribelli, al fine di trovare una soluzione condivisa. Tuttavia, mentre la JNA inizia le operazioni di ritiro delle sue forze, le due Repubbliche ribelli non rispettano gli accordi, utilizzando il tempo per riarmarsi in modo pesante. Nell'autunno del 1991, scoppia la guerra con la Croazia. Nellwe regioni croate a maggioranza serba, la popolazione civile cerca di resistere contro il tentativo (contrario agli accordi di Brioni) della milizia croata di aumentare la sua presenza militare. La JNA, quindi, risponde, in parte per difendere la popolazione serba, in parte per aiutarla a respingere l'invasione “occulta” dei territori a maggioranza serba da parte delle forze di sicurezza croate. Inizia l'invasione della Croazia. E gli episodi di largamente gonfiati dalla stampa occidentale massacri serbi di popolazione civile croata. In particolare, il massacro di Vukovar, che fu l'alibi per l'emanazione della risoluzione ONU 721 di Novembre 1991, che di fatto aprì la strada al primo intervento militare occidentale nella ex Iugoslavia.
La storia recente infatti descrive la battaglia di Vukovar come una strage ad opera della Guardia Volontaria serba, guidata da Zeliko Raznatovic, che perpetuò così atroci crimini contro la popolazione civile croata, facendo prigionieri di guerra, razzie e depredando l'intero villaggio. Le autorità ritrovano la più grande fosse comune in Croazia, in cui furono riesumati i corpi di 200 croati, soldati e civili uccisi dopo l'occupazione serba della città nell'autunno del 1991.
La pubblicazione del rapporto della Cia, che parla di migliaia di serbi trucidati dall'armata croata, certamente stravolge la storia che per molto tempo è stata divulgata dai media internazionali, e dalle Organizzazioni Internazionali, e sulla base della quale la Croazia ha rivendicato le proprietà dei serbi scacciandoli dalle loro terre.
Nei primi anni di guerra, la macchina mediatica dei proprietari delle tv e dei giornali avevano montato dei veri e propri casi, come il bombardamento di Lubiana, e il Manifesto che Médecins Sans Frontières pubblicava in tutto il mondo diffamando il popolo serbo, redatto dallo stesso giornalista che aveva sostenuto che in Kosovo furono uccisi più di 400 bambini. Per tornare a Vukovar, c'è un episodio agghiacciante sul quale nessuno ha mai condotto indagini accurate, e verrebbe da chiedersi il perché. Secondo quanto riporta il quotidiano La Repubblica del 2 Nobembre 1991, quarantuno bambini serbi sarebbero stati sgozzati dalla milizia croata in ritirata da Vukovar. Lo ha riferito un fotografo serbo, Goran Mikic, che collabora con l' agenzia di stampa inglese Reuter. I bambini, tutti tra i cinque e i sette anni, sarebbero stati trovati con la gola tagliata nello scantinato di una scuola a Borovo Naselje, un sobborgo di Vukovar abitato in gran parte da croati. I soldati serbi che hanno conquistato la cittadina hanno detto che responsabili del massacro sarebero miliziani ed Ustascia dei gruppi croati di estrema destra. "I nostri soldati piangevano mentre portavano fuori i cadaverini", ha detto il fotografo. Oltre ai corpi dei bambini, Mikic ha detto di aver visto i cadaveri di intere famiglie di serbi disseminati nelle strade e nei giardini del villaggio. Secondo il racconto dei testimoni, i miliziani croati avevano segnato con vernice tutte le case abitate da serbi, e prima di ritirarsi le hanno attaccate armati di coltelli e asce.
Mentre la comunità internazionale faceva fuoco e scintille sulle stragi commesse dall'JNA, nessuno ha mai indagato in modo completo sulle stragi commesse dai croati sui civili serbi. Un recente rapporto della CIA mette sotto accusa un ex-dirigente croato, Tomislav Mercep, per crimini di guerra commessi contro "migliaia di serbi" durante il conflitto serbo-croato tra il 1991 il 1995. Viene precisato infatti che le dichiarazioni sulle atrocità imputate a Mercep ed ai suoi uomini sono state verificate sulla base delle prove raccolte dalle organizzazioni internazionali per i diritti dell'uomo e dalle testimonianze di superstiti, tuttavia, il governo croato, temendo la reazione di quella fazione politica che sosteneva il generale, ha evitato di indagare su queste accuse. Il procuratore generale della Croazia ha ricevuto così nel 2006 dal Tribunale penale internazionale (TPI) per l'ex-Iugoslavia i documenti sui crimini commessi contro i serbi a Vukovar e nella regione di Pakrac, e li ha insabbiati. Lo stesso Tudjman morì sereno nel suo letto, e solo dopo la sua morte venne dichiarato criminale di guerra, per le stragi di serbi condotte nel 1995. E' chiaro che il criterio dei “due pesi e due misure” utilizzato dalla Comunità internazionale è strumentale a giustificare l'intervento militare imperialistico.
Ad ogni modo, entro la fine del 1991, sui territori conquistati, la Iugoslavia proclama la “Repubblica della Krajina Serba”. A gennaio 1992, viene proclamato un cessate il fuoco, che consente ai primi caschi blu dell'UNPROFOR di entrare nel Paese. Inizia così anche l'intervento militare occidentale nella ex Iugoslavia, che negli anni successivi sarebbe cresciuto di intensità.

La Bosnia
Ad Aprile 1992, scoppia la guerra bosniaca, a seguito della proclamazione d'indipendenzaa, e della parallela autoproclamazione della Repubblica Srpska, come evidente mossa di autodifesa dei serbo-bosniaci, esclusi da qualsiasi ruolo nel nuovo Stato che si era venuto creando, ed in pericolo di subire una pulizia etnica. Le forze serbo-bosniache attaccano la milizia musulmana, conquistando rapidamente territori, spesso però esclusivamente al fine di riunificare in un'unica aggregazione territoriale delle enclave serbe isolate e circondate dai musulmani, che avrebbero rischiato di essere distrutte completamente, proprio per il loro isolamento. I serbo-bosniaci, appoggiati militarmente e logisticamente dall'JNA (che fornì interi reparti di trupe di élite, soprattutto paracadutisti, genieri, incursori, nonché l'intera forza di artiglieria e corazzata), nonostante la mediocrità della conduzione militare di Mladic, riescono inizialmente a conquistare molti territori, anche grazie al tradimento dei croato-bosniaci, che, come già menzionato, passano dalla parte serba ed attaccano gli ex alleati musulmani alle spalle. Sarajevo viene assediata e sottoposta ad un intenso bombardamento di artiglieria. Un vero e proprio atto criminale, ingiustificato dal punto di vista militare, così come altrettanto ripugnante è stato il dispiegamento di “snipers” dentro la città che, per settimane, vigliaccamente nascosti nelle macerie degli edifici, spararono sui passanti innocenti. La “qualità” umana repellente di Mladic è tutta condensata nell'ordine dato via radio all'artiglieria serba che martellava i quartieri musulmani di Sarajevo “bombardateli fino a farli impazzire di terrore”.
E qui si verifica il secondo grande episodio, controverso, ovvero il massacro di Srebrenica del Luglio 1995, che servì come alibi per una intensificazione delle operazioni militari NATO contro la Serbia. Molti dubbi sono stati avanzati circa l'effettivo numero di morti civili, ufficialmente stabilito in 8.372 persone. Ma il problema non è questo, anche un solo morto innocente è un crimine, e non vi sono dubbi che i serbo-bosniaci si abbandonarono ad un crudele massacro. La vera questione è che già dal 1993, Srebrenica era stata dichiarata dall'ONU “area protetta”, e difesa da un reparto di caschi blu olandesi. Tuttavia, quando il 6 Luglio 1995 iniziò l'offensiva serba, i 600 caschi blu dell'ONU non intervennero: i motivi non sono ancora stati chiariti. La posizione ufficiale è che le truppe ONU fossero scarsamente armate e non potessero far fronte da sole alle forze di Mladić. Si sostiene, inoltre, che le vie di comunicazione tra Srebrenica, Sarajevo e Zagabria non fossero ottimali, causando ritardi e intoppi nelle decisioni. Tali giustificazioni sono ridicole. Anche se in inferiorità numerica, i caschi blu avrebbero avuto il DOVERE di intervenire per difendere la città. E poi, visto che Srebrenica era un'area strategicamente fondamentale, già oggetto di intensi scontri nel 1992-93, perché schierare a sua difesa soltanto 600 caschi blu armati in modo leggero?
I fatti furono i seguenti. Quando i serbi si avvicinarono all'enclave di Srebrenica, il colonnello Karremans, comandante UNPROFOR, diede l'allarme e chiese un intervento aereo di supporto il 6 e l'8 luglio 1995, oltre ad altre due volte nel fatidico 11 luglio. Le prime due volte il generale Nicolaï a Sarajevo rifiutò di inoltrare la richiesta al generale Janvier nel quartier generale dell'ONU a Zagabria, perché le richieste non erano conformi agli accordi sulle richieste di intervento aereo (???? La sola giustificazione di un intoppo burocratico come questo fa ridere, è semplicemente stupida). L'11 luglio, quando i carri armati serbi erano penetrati nella città, Nicolaï inoltrò la domanda di rinforzi a Janvier, che inizialmente rifiutò. La seconda richiesta dell'11 luglio fu onorata ma gli aerei (F-16) che stavano già circolando da ore in attesa dell'ordine di attaccare avevano nel frattempo ricevuto ordine di tornare alle loro basi in Italia per potersi rifornire di carburante (altro comportamento militarmente ingiustificabile). Alla fine, solo due F-16 olandesi procedettero ad un attacco aereo, praticamente senza alcun effetto. Un gruppo di aerei americani apparentemente non fu in grado di trovare la strada (altra stupidaggine, i radar a cosa servono?) Nel frattempo l'enclave era già caduta e l'attacco aereo fu cancellato per ordine dell'ONU, su richiesta del ministro Voorhoeve, perché i militari serbi minacciavano di massacrare i caschi blu dell'ONU.
Davanti alla minaccia ed allo spiegamento di forze di Mladić, i caschi blu decisero di collaborare alla separazione di uomini e donne per poter tenere la situazione sotto controllo, per quanto fosse possibile: contribuirono così al successivo massacro dei civili!
Naturalmente, anche le forze musulmane di difesa della città abbandonarono immediatamente, quasi senza combattere, la città al suo destino (ancora una volta.perché?). Però non furono così passive nelle settimane precedenti, quando in una serie di raid contro i civili serbi nella zona demilitarizzata attorno a Srebrenica, in violazione degli accordi del 1993 che ne facevano un'area protetta, provocarono i serbo bosniaci, al punto da indurre l'attacco a Srebrenica, che da molti osservatori è interpretato come una vendetta nei confronti dei precedenti raid musulmani. Ancora una volta, i fatti furono i seguenti: le milizie del generale musulmano Naser Oric, che se l'è cavata con 3 anni di carcere ed una totale riabilitazione in sede di processo di appello, attaccarono i villaggi di Bratunac, Kravica, Siljkovići, Bjelovac, Fakovići e Sikirić causando, secondo il neutrale Centro di Ricerca e Documentazione di Sarajevo, almeno 119 morti civili serbi nella sola municipalità di Bratunac. Altre fonti parlano di quasi 1.000 serbi uccisi inutilmente durante le scorribande delle squadracce di tagliagole di Oric.
L'impressione forte che si ricava da questi fatti è quella di una volontà precisa, da parte della NATO e dei musulmani, di provocare il massacro di Srebrenica, per poi poter far digerire all'opinione pubblica internazionale una intensificazione senza precedenti dei raid aerei contro la Iugoslavia, raid aerei che di fatto ne provocarono la sconfitta e l'accettazione degli accordi di Dayton, che concedevano l'indipendenza della Bosnia, e mettevano una pietra tombale sulla pur legittima aspirazione dei serbi di Bosnia di congiungersi con la loro madrepatria.

Il Kosovo
Per finire, la vicenda kosovara è stata un altro insieme di menzogne, esagerazioni e assurdità, utili per giustificare l'ennesimo intervento militare, atto a creare uno Stato indipendente, che non ha alcuna giustificazione storica o economica, a maggioranza musulmana, da giocarsi poi sullo scacchiere mondiale dei rapporti politico/militari fra Occidente e mondo arabo. A seguito della sconfitta in Bosnia ed in Croazia (infatti, durante la guerra in Bosnia, Tudjman, con la complicità della NATO, tradì ignomignosamente il trattato di pace con i serbi, li attaccò a sorpresa grazie ad un Esercito riarmato dalla NATO, li sconfisse e impose una pulizia etnica a danno delle popolazioni serbe della Krajina, mai completamente condannata dalla comunità internazionale) il governo di Milosevic era diventato sempre più fragile, e per rimanere al potere, alle elezioni del 1996 (vale la pena di ricordare che il governo di Milosevic fu sempre eletto in votazioni multipartitiche) dovette appoggiarsi sempre più sulle forze di destra più revansciste e sanguinarie, sull'estrema destra fascistoide di Seselj, che rappresentava le formazioni paramilitari responsabili di massacri di civili in Croazia e Bosnia, e sulle frazioni più reazionarie e feroci della Chiesa ortodossa, rappresentate dal partito di Vuk Draskovic. Quindi, dal 1996 si ebbe, oggettivamente, una svolta verso la destra guerrafondaia e revanscista nel panorama politico serbo.
D'altro canto, nella mai risolta questione kosovara esisteva una formazione paramilitare, l'UCK (esercito degli albanesi di kosovo), da tempo finanziata, armata e sostenuta dai "consiglieri militari" USA-NATO, nonché da Paesi arabi alleati dell'Occidente (Arabia Saudita e Kuwait) che ingaggiava scontri molto violenti con l'esercito federale regolare e con la polizia serba. Vi furono anche testimonianze di mujahiddin arabi e nordafricani che, infiltratisi in Kosovo, combattevano nelle file dell'UCK. Nel 1998 la dimensione di questi scontri armati raggiunse una intensità tale da indurre la comunità internazionale a riesaminare gli accordi di pace di Dayton.E la comunità internazionale che fece? Non potendo contrariare alleati strategici nello scacchiere arabo e mediorientale, come i sauditi, che erano dalla parte dell'UCK, appesantì le sanzioni economiche contro la Serbia. Siamo, cioè, di nuovo di fronte alla politica di guerra dei due pesi e due misure: da un lato l'UCK in Kosovo opea indisturbato, nonostante i sospetti (poi verificatisi) di attività illegali e di contatti con le mafie balcaniche e russe, dall'altra parte la Serbia sottoposta a sempre più aspre condizioni di blocco commerciale, atto di guerra terrorista (colpisce la popolazione, non i militari combattenti) contro la parte che difende la sopravvivenza della legittima Federazione.
Nel gennaio 1999 l'intensità del conflitto in Kosovo aumentò improvvisamente. Nel tentativo di riportare la situazione sotto controllo, venne convocata la conferenza di Rambouillet. Venne steso un accordo che non fu firmato dalla Repubblica Federale. Infatti, gli accordi di Rambouillet prevedevano, sic et simpliciter, una vera e propria indipendenza del Kosovo mascherata ipocritamente da autonomia, che ovviamente non è accettabile da chi, su quel territorio, ha più di una ragione storica e culturale per rivendicarne la sovranità.
Il 24 marzo 1999 l'Alleanza Atlantica prese atto del fallimento dei negoziati ed iniziò (senza un provvedimento in questo senso da parte dell'ONU, a causa del minacciato veto di Russia e Cina, quindi in modo illegale, secondo il diritto internazionale) alcune operazioni militari di dissuasione nella speranza di ottenere una replica di quanto già avvenne per i negoziati per il conflitto bosniaco, dove anche lì la delegazione serba abbandonò improvvisamente la trattativa riprendendo immediatamente le operazioni militari. In quella occasione poche operazioni militari di dissuasione sulle linee serbe convinsero il regime di Milošević a ritornare al tavolo delle trattative e a firmare (e rispettare) la fine del conflitto.
La Russia aveva iniziato un recupero della conflittualità con gli USA in chiave nazionalista, e inoltre tra Russi e Serbi esiste storicamente un legame particolare su base etnico-religiosa. La NATO iniziò quindi una escalation di bombardamenti aerei su tutto il paese che sono durati oltre due mesi (operazione Allied Force). I jet della NATO partivano soprattutto da basi militari italiane, come quella di Aviano, in Friuli Venezia Giulia.
Nel caso del Kosovo, la principale responsabilità nei massacri ricade sui paramilitari ed i poliziotti serbi (guidati dai partiti di estrema destra sempre più influenti nella conduzione politica a Belgrado) che seguivano, dalle retrovie, l'avanzata dell'esercito regolare, che al più, a quanto sembra, si rese responsabile di alcune operazioni di rastrellamento. Ad ogni modo, non ritengo condivisibile lo sfogo auto-assolutorio del generale Nebojsa Pavkovic, comandante in capo delle forze regolari in Kosovo, a fine guerra “il popolo sa che l'Esercito ha fatto il suo dovere”.
Il risultato, comunque, lo sappiamo tutti. In nome di alleanze geo-strategiche su scenari extra balcanici (in particolare, in quello arabo e medio orientale) i raid aerei occidentali contribuirono a creare uno Stato fantoccio, privo di qualsiasi giustificazione storica ed inconsistente, la cui economia si basa esclusivamente sul contrabbando e il traffico di armi e carne umana dai Paesi dell'Est verso l'Occidente, nonché l'assistenza finanziaria e materiale internazionale, i cui vertici istituzionali, a partire dal premier Hashim Tahci, sono stati riconosciuti colpevoli di peccati veniali, quali il riciclaggio, il contrabbando internazionale, il traffico di armi e prostitute, il narcotraffico, in connessione con le mafie albanesi e russe, l'estorsione, l'omicidio premeditato e le violenze private. Un Paese in cui l'UCK mantiene una forza paramilitare clandestina, con il compito di intimidire, ed eventualmente eliminare, gli avversari politici.

Conclusioni
Come è intuibile dall'analisi svolta, il massacro della ex Iugoslavia è stato pagato, a senso unico, dal solo popolo serbo, mentre i mandanti esteri, che hanno organizzato la disgregazione del Paese, e poi l'aggressione militare imperialistica contro di esso, sono rimasti impuniti, insieme agli esecutori non serbi di tale tragedia.
Questo il bilancio delle sofferenze inflitte al popolo serbo da interessi economici e geo politici esterni, e criminali. La sola guerra del Kosovo durò 78 giorni, 78 giorni e notti di bombardamenti, 38000 voli, dei quali oltre 10000 d'attacco, con il lancio di oltre 23.000 ordigni. Oltre alle postazioni militari serbe in Kosovo ed in Serbia, furono colpite altre installazioni nella Serbia centrale e nella Vojvodina. A Belgrado furono bombardati l'aeroporto militare di Batajnica, il trasmettitore radio sui monti Avala, il Centro congressi, edifici dell'Armata Jugoslava, la sede della televisione di stato (causando 17 morti tra giornalisti e tecnici), ministeri, ambasciate, a Novi Sad venne distrutto il ponte sul Danubio, con l’intento di isolare la provincia della Vojvodina.
Alla fine della campagna, secondo i calcoli più attendibili sono almeno 500 le vittime civili degli “effetti collaterali” dei bombardamenti (altre fonti indicano in 2000 il numero effettivo delle vittime, di cui il 30% bambini) e circa 8000 i feriti; sul fronte militare, le perdite umane “ufficiali” da parte serba sono 576, di cui 462 soldati e 114 poliziotti.
In realtà, l'offensiva, presentata come l'unico mezzo per evitare una catastrofe umanitaria, nelle prime due settimane del conflitto causò tra i kosovari più vittime di tutte quelle registrate negli scontri interetnici nel decennio 1989-1998.
Anche i danni ambientali e materiali alle infrastrutture della Repubblica Federale di Jugoslavia furono ingenti: sono stati distrutti 82 ponti, tutte le raffinerie di petrolio, 14 centrali termoelettriche, metà delle riserve militari di carburante, un quarto di quelle civili e molti centri industriali; inoltre, sono stati colpiti 28 centri agricoli, 420 scuole, 48 edifici sanitari, 54 chiese e monasteri, 15 musei, 13 aeroporti e 74 stazioni TV. L'opinione pubblica internazionale ed i circoli pacifisti ed ambientalisti, oltre alla liceità stessa dell'intervento, misero soprattutto all'indice l'utilizzo di armi non convenzionali come le bombe a frammentazione e le munizioni ad uranio impoverito: secondo il Times, almeno 14000 ordigni inesplosi (UXO) sono rimasti sul terreno, pronti ad esplodere come mine.
Il territorio del sud della Serbia e del Kosovo anche attualmente è cosparso di mine inesplose, comprese le famigerate bombe a grappolo ed il territorio contaminato dall'uranio impoverito, nonostante i tentativi di nascondere questi fatti da parte dei governi dei paesi NATO, Italia compresa. Gli USA hanno attaccato l’Iraq, con giustificazione della presenza di armi di distruzione di massa. Ma le armi di distruzione di massa sono quello che sono state usate contro la Serbia nel 1999!
Ancora una volta gli USA ed i suoi satelliti della NATO, sbandierando la favola della guerra giusta, della guerra per scopi umanitari hanno colpito una capitale europea, un paese europeo, a suo tempo definito “paese canaglia”, come furono definiti poi Iraq, Iran, Siria, Corea del Nord, esclusivamente per motivi strategici e politici. Non era mai successo dalla Seconda Guerra Mondiale che le forze "alleate" avessero condotto una campagna di guerra all'interno dell'Europa, un attacco ad una capitale europea.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

L'assedio di Sarajevo (che poi non fu un vero e proprio assedio in quanto si poteva evacuare la città senza problemi e una parte era serba), fu tatticamente giusto. Mladic non fu un comandante mediocre tutt'altro! Mladic intervenne nell'attacco a Serajevo per difendere i quartieri serbi della città dai continui attacchi da parte delle milizie musulmane. Su questa vicenda si sono dette una valanga di falsità. Infatti i serbi non occuparono mai la città in quanto ci hanno sempre vissuto. I musulmani invece (come nella maggior parte dei casi) seppe sfruttare l'occasione favorendo l'uccisione di civili (cosa non voluta dal comando serbo), tramite vari stratagemmi e seppe anche sfruttare l'occasione per fare soldi, facendosi pagare viveri e fuga con molti soldi estorti alla popolazione! Non dimentichiamoci cosa osarono fare i musulmani sulla loro stessa gente con la strage del mercato, della fila del pane, tiro dei cecchini nel cimitero, etc.. etc....
Riguardo a Srebrenica ancora oggi viene usata la storiella secondo la quale i serbi guidati dal diavolo Mladic (il sanguinario, il diavolo), uccise dei poveri innocenti che non avevano fatto nulla solo perchè erano musulmani. La realtà è ben diversa ed è ben spiegata in diversi libri, tra cui quello dedicato proprio al cosiddetto "genocidio" di Srebrenica ovvero: Il dossier nascosto del genocidio di Srebrenica (edito da La città del sole). In questo libro, con la prefazione di Philip Corwin (il più alto responsabile ONU sul terreno in quel periodo) e con l'avvallo di Louis Dalmas (Presidente dell'associazione Veritè et Justice), il Srebrenica Research Group (composto da statunitensi professori di università e ricercatori sul campo) ricostruisce la vicenda del cosi tanto acclamato"genocidio" (inconsistente) sempre esaltato (ancora oggi vedendo il caso Mladic) dalla propaganda di parte. Un paio di conclusioni in seguito alla ricerca:
1) l'affermazione che da 7.000 a 8.000 musulmani sono stati uccisi al momento della presa di Srebrenica nel luglio 1995 è senza fondamento: è stata una stima grossolana fatta inizialmente dalla Croce Rossa. Comprendeva 5.000 scomparsi di cui molte migliaia sono stati identificati in seguito-quelli che avevano potuto mettersi in salvo o morti combattendo contro l'esercito serbo-bosniaco. Il numero di corpi esumati nella regione del TPIY dell'Aja fino al 2001 era largamente inferiore (2,028) e molti fra questi non avevano alcun rapporto con il periodo in questione. Fra i 7.500 corpi assemblati a Tuzla, la commissione internazionale per le persone scomparse (ICMP) ne hanno identificate ad oggi solo 2.079 e i tentativi di utilizzare il DNA per associarli a Srebrenica sono stati un fallimento. L'organizzazione mondiale della sanità ha registrato 35.632 sopravvissuti in più dei circa 3.000 soldati di cui la Croce Rossa aveva constatato che avevano attraversato combattendo il territorio serbo e avevano raggiunto Tuzla per essere immediatamente spiegati di nuovo. Questo implica almeno 38.000 sopravvissuti musulmani bosniaci, una cifra che non differisce sensibilmente da quella della popolazione prima della caduta della città, stimata almeno intorno alle 40.000 persone della principali organizzazioni umanitarie (il TPIY stesso ha reso pubblica una cifra di 37.00 persone). Facendo il conto delle cifre rilasciate dal tribunale il totale delle persone a Srebrenica ammontava a 47.000, ovvero la cifra non torna.

Continua....

Anonimo ha detto...

2) L'affermazione secondo cui tutte le perdite musulmane sono state vittime di esecuzioni serbe è senza fondamento, infatti le dichiarazioni raccolte dimostrano che una percentuale sostanziale di queste perdite erano dovute ai combattimenti – il tentativo di sortita che ha causato anche 450 morti tra le truppe serbe bosniache. Massimo di esecuzioni che potrebbero essere avvenute è intorno al centinaio, non di più. Osservatori competenti sul terreno, includendo gli ufficiali olandesi, l'ex vice capo dei controlli dell'ONU in Bosnia C.M. Branco e l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell'uomo Henry Wieland, hanno nettamente dichiarato che non avevano trovato alcuna prova di esecuzioni di massa o di atrocità.

3) La vicenda non può essere considerata fuori dal contesto degli avvenimenti tra il 1992 e il 1995, in particolare l'affermazione secondo la quale Srebrenica era una zona protetta dall'ONU che sottintendeva che vi si trovassero solo civili disarmati è falsa. Ibfatti c'era la presenza della 28° divisione di 5.500 uomini fortemente armati dell'esercito musulmano è stata costante e sotto il comando di Naser Oric, incolpato di crimini, questa unità ha preceduto senza arresto a raid e massacri contro i civili serbi nelle zone circostanti, seppur la zona doveva essere smilitarizzata. Secondo il capo dei negoziati ONU, Lord David Owen, “ la principale debolezza del concetto di zona di sicurezza, dal punto di vista dei militari è stato che il consiglio di sicurezza dell'ONU permettesse ai Musulmani di schivare tutte le clausole della demilitarizzazione. Cosa che toglieva ogni solidità al concetto”. Prima di ciò del maggio del 1992 all'aprile del 1993, le forze di Oric hanno perpetrato alcune delle peggiori atrocità della guerra, massacrando dai 1.200 a 2.500 serbo nel settore di Srebrenica (civili NON militari). Il numero totale delle vittime serbe intorno a Srebrenica durante la guerra (è stata pubblicata una lista di 3,287 nomi) non è inferiore, probabilmente superiore, a quello delle vittime musulmane (soldati!). Lo stesso Oric mostrò dei filmati a dei reporter occidentali che mostravano alcune delle sue vittime decapitate è si è vantato dei suoi assassinii. Senza contare la sorte dei serbi che vivevano all'interno di Srebrenica.

Continua...

Anonimo ha detto...

4) Gli avvenimenti del luglio 1995 non possono essere considerati imparzialmente al di fuori del contesto più argo delle guerre civili jugoslave dal 1991 al 1995 e più particolarmente della fase finale dell'estate 1995. La realtà è che il ritiro dei musulmani da Srebrenica non rispondeva ad alcuna necessità militare, ma era un'operazione strategica, che avrebbe causato perdite di personale considerato come un sacrificio giustificato per una causa superiore (molti soldati furono uccisi durante la ritirata quando avvennero molti scontri tra gli eserciti). La 28° divisione musulmana, forte di 5.500 uomini, non ha fatto nulla per difendere Srebrenica contro 200 serbi e cinque carri armati. I leader musulmani bosniaci, compreso Ibran Mustafic, originario di Srebrenica e fondatore del partito SDA al potere, hanno dichiarato che la presidenza e l'alto comando militare musulmano bosniaco avevano deliberatamente sacrificato la città per incitare la NATO ad intervenire. Gonfiando le perdite musulmane, il governo di Clinton ha stornato l'attenzione degli attacchi croati più importanti e più micidiali, sostenuti dagli USA, a zone protette (UNPA) di popolazione serba in Slavonia occidentale (operazione Lampo) e in Krajina (operazione Tempesta), rispettivamente in maggio e agosto.

5) L'affermazione di genocidio è senza fondamento. Il TPIY ha annunciato delle imputazioni di genocidio due settimane dopo la presa di Srebrenica – prima che la minima inchiesta potesse avere luogo. Il numero e la natura delle perdite, il fatto che l'esercito bosniaco avesse aiutato l'evacuazione della popolazione civile in direzione di Tuzla, questa traferimento fu coordinato da Mladic con il comandante olandese per evacuare al meglio la città (se voglio compiere un genocidio porto in territorio nemico i civili catturati? Basta un po' di logica a capire la montatura del termine), come altre prove, smentiscono questa affermazione. Parallelamente il fatto che il TPIY non avesse qualificato genocidio le peggiori atrocità perpetrate nello stesso momento dai Croati sui civili serbi della UNPA, rende ancora meno credibile la sua imparzialità. L'ex comandante in capo della NATO, il generale e Charles Boyd, ha riassunto la situazione: “la pulizia etnica è condannata solo quando è perpetrata dai serbi, non quando è perpetrata contro altri”. Mladic entrato in città disse ai soldati musulmani che avevano 24 ore per consegnare le armi. I criminali di guerra sarebbero stati trattati secondo la convenzione di Ginevra se consegnavano le loro armi. Lo stesso Mladic apri un corridoi per permettere l'evacuazione dei soldati, tra cui c'erano criminali di guerra che poi ne fecero ancora di cotte e di crude. Molti dissero addirittura che la presenza di Mladic scoraggiava l'esercito dal farsi giustizia personale in quanto avevano visto come Mladic puniva quelli che ci provavano o quelli che volevano derubare le case vuote. Mladic era un uomo troppo duro e troppo per la disciplina per permettere certi atti.

Speriamo che la gente inizi ad aprire gli occhi verso la politica imperialista e mistificatoria della storia delle guerre jugoslave!

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