E’ il titolo eloquente di un interessante contributo di Lorenzo Mortara, da cui prendiamo spunto per svolgere alcune considerazioni sui più recenti sviluppi della vicenda sindacal-politica italiana, dove è per noi chiaro che le vittorie elettorali del centro-sinistra, al pari di quelle giudiziarie della Fiom, lasciano inalterati i rapporti di forza tra capitalismo e proletariato che, nella realtà sociale e nei posti di lavoro, sono attualmente molto sfavorevoli alla nostra classe, con tendenza al peggioramento.
Nelle elezioni amministrative, a dispetto di “trionfi” destinati a evaporare, vediamo riflesso questo quadro reale sfavorevole nella misura in cui, secondo il copione della più moderna democrazia, del tutto assente vi è stato ogni barlume di riferimento (figuriamoci il resto...) alla questione di classe, presentandosi il centro-sinistra, in linea con tutta la sua azione precedente e in ogni sua componente (soprattutto in quelle supposte “estremiste” che hanno conquistato la poltrona di sindaco a Milano e a Napoli), per quel che esso effettivamente si propone di essere, ovvero una diversa opzione offerta essenzialmente alla borghesia “progressista” che vuole infine sbarazzarsi dell’ingombrante uomo di Arcore.
Più che mai opportuno ci sembra, quindi, richiamare l’articolo di Mortara. La sua analisi conferma una volta di più la necessità di dare battaglia a fondo contro l’ “opposizione” del centro-sinistra (bancarottiera per gli interessi della nostra classe) come unica strada percorribile per quanti vogliano contribuire alla ripresa di un vero movimento di lotta che sia esso a mandare a casa il governo Berlusconi, a contrastare realmente la generale offensiva antiproletaria del capitalismo. Lo abbiamo detto nel modo più netto sin dall’inizio di questa legislatura a maggioranza centro-destra, articolando il nostro intervento sui meriti conseguenti e deprecando lo spettacolo di quanti “rivoluzionari, per prendersi in carico il pericolo che incomberebbe sulla democrazia e sulla costituzione “antifascista...”, hanno lasciato cadere o hanno attenuato la denuncia dell’accozzaglia centro-sinistra per accodarsi all’union sacré antiberlusconiana.
Cosa scrive Mortara?
Dopo aver fatto la conta delle nove sentenze favorevoli alla Fiom, che è andata per vie legali contro l’accordo separato di rinnovo del CCNL metalmeccanico, e dell’unica sfavorevole, egli conclude che tutta questa guerra di carte non ha cambiato proprio niente “né dove si è vinto né dove si è perso”. Né può escludersi, aggiunge, che gli sviluppi ulteriori della contesa giuridica ribaltino gli esiti iniziali, essendo il codice “interpetrabile più o meno come la Smorfia napoletana” (ben detto! per un potere di classe che è istituzionalmente preservato e giammai contraddetto dalla costituzione “bellissima”, dalle leggi “uguali per tutti”, dalla “neutrale” magistratura, dove peraltro è per noi davvero assodato che un Guariniello non fa primavera).
Soprattutto, egli scrive, le vittorie legali a nulla servono se i padroni possono farsene un baffo “davanti all’impotenza calabrache di sindacalisti Fiom modello ex-Bertone”, quando i trionfi tribunalizi si accompagnano a sonore sconfitte in fabbrica. I padroni possono incassare tranquillamente le sentenze a loro avverse, se al tempo stesso possono vincere contro i lavoratori nelle aziende.
La tesi di una sofisticata “mossa del cavallo” concertata (per “mettere spalle al muro” la Fiat “obbligandola all’investimento”) tra una dirigenza Fiom tutta d’un pezzo che non firmerà l’accordo... per andare avanti con le cause, e i delegati della RSU che avrebbero dato indicazione per il SI in esecuzione di questo comune disegno, viene sbugiardata da Mortara per quel che merita.
Spalle al muro sono purtroppo i lavoratori e non la Fiat. Mentre la sintonia tra i dirigenti nazionali e gli RSU va colta non sul piano di geniali ed efficaci “strategie”, bensì su quello della comune debolezza.
La realtà è che la Fiom non ha mai messo in campo alcuna difesa reale per i lavoratori, sicché quelli registrati alla ex-Bertone (e ancora a Melfi, dove i delegati Fiom hanno chiesto pur essi al proprio sindacato nazionale di firmare gli “accordi” capestro della Fiat) sono gli esiti conseguenti e inevitabili. “Dietro la capitolazione dei delegati della ex-Bertone (leggiamo ancora da Mortara e condividiamo) ci sta la sostanziale accettazione di una sconfitta da parte dei dirigenti Fiom”.
La Fiom, lo abbiamo scritto in precedenti note, ha preteso rispondere all’attacco durissimo di Chrysler-Fiat “con argomenti che non offrono una alternativa ai lavoratori”. Se questa verità, a pochi giorni dal primo referendum di Pomigliano, gli veniva rinfacciata da un centinaio di operai campani che, insufflati dai sindacati firmatari, scrivevano al Giornale per criticare la Fiom che “con il suo NO si salva l’anima ma non aiuta in niente i lavoratori nella difficoltà estrema...”, adesso toni e contenuti analoghi li vediamo emergere direttamente in casa Fiom, sia nella pantomima della ex-Bertone e sia nei pronunciamenti dei delegati di Melfi.
Ai suoi NO (reali NI, come abbiamo chiarito fin dal primo intervento e come ha rimarcato un nostro lettore sia pur con argomenti a nostro avviso non decisivi) la Fiom non ha fatto seguire alcuna credibile prospettiva nella cui visione affrontare lo scontro imposto dal padronato. Questo deficit d’origine ci consegna oggi una sequela di sentenze che nulla dirimono, mentre la realtà dello scontro fa velocemente il suo corso e, dopo i primi due referendum persi con onore, ora, alla ex-Bertone e a Melfi, sono direttamente quelli del NO a votare in massa SI e a chiedere che si firmi ciò che la Fiat pretende.
Intanto il padronato accenna qua e là a voler passare all’incasso generale. Abbiamo letto sul Manifesto del 24/05/2011 della Festa Srl (call center romani che lavorano in concessione dello Stato per scommesse e giochi) che impone ai lavoratori la rinuncia al CCNL a favore di fantomatici contratti in deroga (sottoscritti da Fistel Cisl) pena il “trasferimento a Lucca” o l’accettazione di “volontarie” dimissioni.
I fatti dimostrano che la politica della Cgil e quella della stessa Fiom sono votate, pur con diverse accentuazioni, alla bancarotta dei lavoratori, i quali, fintanto ad esse daranno credito o lasceranno spazio, sono destinati a restare con le mani legate di fronte all’aggressione del capitalismo. E’ ora di iniziare a reagire. Solo la battaglia a fondo contro la visione e i contenuti della complessiva opposizione portata avanti con mortifera costanza dal fronte sindacal-politico centro –“sinistro” (con certe ruote “rivoluzionarie” al seguito: cosa non si fa in nome della democrazia “da salvare”!) può fungere da propedeutico e corroborante per risalire la china. Ciò sarà dato solo abbandonando finzioni e illusioni sulla “democrazia super partes” che dovrebbe proteggerci contro padroni “anticostituzionali e reazionari”, solo impedendo che si trasfiguri in questa pantomima della “democrazia in pericolo” la sostanza evidentissimamente antiproletaria dell’attacco in corso, solo ricominciando a prendere in carico seriamente e con l’indispensabile ri-orientamento verso il programma di classe i problemi che l’attacco del capitalismo in crisi ci pone.
In sostanza noi imputiamo al vertice Fiom di aver voluto opporre una difesa grettamente nazionale (e nazional-corporativa) contro un attacco la cui portata e il cui campo di riferimento è palesemente mondiale. Gli imputiamo di aver voluto eludere lo scontro di classe, quando è questa l’indiscutibile sostanza dell’attacco di Chrysler-Fiat, per rispondere sul crinale evanescente della “democrazia italiana violata”, delle cause legali, dell’unità di tutti “per la difesa della costituzione” (in piena alleanza, e anzi al seguito, di un Fassino – tanto per dire – favorevole ai piani Fiat e ora supervotato sindaco di Torino...).
Cosa si deve fare quando una borghesia imprenditoriale italo-americana, supportata fino a ieri dallo Stato italiano e ora dai governi americano e canadese, sferra attacchi decisivi contro gli operai statunitensi, imponendo ad essi con ricatti diecimila volte maggiori accordi capestro a fronte dei quali i nuovi contratti separati di fabbrica-Italia sono rose profumate e ghirlande di fiori? Cosa si deve fare quando, assestato l’attacco nella nuova casa madre, si passa a ricattare i lavoratori italiani (tuttora più tutelati rispetto ad altri) e si mettono in concorrenza spietata tutti gli stabilimenti Chrysler-Fiat dei diversi paesi? Quali difese efficaci possono e devono apprestare i lavoratori che vedono le proprie vite appese al calcolo delle migliori attese di profitto di ristretti circoli imprenditoriali, finanziari, statuali, i quali dominano un gioco (che, beninteso, è effettivamente di sopravvivenza tra squali di pari appetito) dove il profitto è tutto e le vite di decine di migliaia di lavoratori nulla?
Qui non ci sono ricette facili e siamo i primi a dire che non vale declinare a pappardella i principi di un astratto internazionalismo, perché occorre invece esser pronti (volendolo fare, però!) a contrastare tutti i contraccolpi, a voler superare tutti gli ostacoli che ci provengono dalla rimozione pluridecennale di ogni idea di solidarismo verso i lavoratori degli altri paesi (di fatto identificati come “concorrenti” insieme ai loro padroni e ai rispettivi capitalismi), di ogni concreto collegamento e prima ancora di qualsivoglia educazione ed orientamento classisti e internazionalisti, non solo di dirigenze sindacali sostanzialmente integrate nei rispettivi borghesissimi Stati, ma nella stessa massa operaia dimentica di se stessa e per lungo tratto ancora lanciata a muoversi contro i suoi stessi interessi.
Della Fiom, che con i suoi avvocati ha promosso decine di cause davanti ai tribunali italiani, mai si è letto che nei mesi passati abbia inteso promuovere una iniziativa comune dei lavoratori Chrysler-Fiat dei diversi paesi, una riunione internazionale che non fosse la replica di riti stantii e inutili (e comunque neanche di questo genere di incontri si è sentito parlare), che non risultasse sterilizzata e preclusa dalle consegne di allineamento agli interessi competitivi della propria “economia nazionale” da parte di burocrazie sindacali che in realtà si pongono come ulteriore ostacolo a un effettivo passsaggio in questa direzione.
Sappiamo benissimo che i coordinamenti europei e internazionali dei gruppi multinazionali e le varie confederazioni sindacali mondiali presenti sulla scena traducono i livelli più squallidamente “istituzionali” di apparati tanto interessati al “prestigio di ruoli internazionali” (e relative trasferte “tutto pagato”) quanto inservibili al fine in questione dieci volte di più di quanto già non lo siano per la difesa immediata dei lavoratori alle rispettive scale nazionali. Ci vengono in mente certi resoconti deprimenti di Rinaldini (finalizzati a escludere una volta di più ogni proposito di solidarietà internazionalista e a riproporre la visione di una lotta centrata sulla “specificità italiana”...) su quel che si registra in consessi del genere, con “rappresentanti dei lavoratori” (del calibro di un Rinaldini, appunto, sicchè il “risultato è garantito”...) che, invece di collegare e unire l’organizzazione e le lotte, rilanciano la competizione tra lavoratori nella misura in cui anche i “migliori” non sanno far altro che spendere gli argomenti corrispondenti agli interessi del proprio capitalismo nazionale e a quelli (suppostamente tali) dei “propri” lavoratori in quanto subordinati ai primi.
Mai ci siamo sognati di pensare che il proletariato che si risvegli ai suoi compiti debba riconquistare istanze del genere alle proprie necessità, perché sappiamo da tempo che dovrà dotarsi di propri efficaci strumenti di collegamento e di organizzazione delle proprie forze presenti in tutto il mondo scontrandosi anche contro questa impalcatura, non solo inservibile ma estranea e nemica.
Dunque non di questo si tratta. Più semplicemente si vuol chiedere ai molti che con i Landini e i Cremaschi si sono spesi per la resistenza dei lavoratori metalmeccanici, per la lotta contro i ricatti “di Marchionne”, in critica inoltre alla linea camussiana sulla Fiat, sugli accordi separati, sui tentativi di ricucire con Confindustria e con Cisl-Uil, etc. etc., se l’attacco Chrysler-Fiat, che ha colpito i lavoratori americani, italiani, polacchi, serbi, etc., con l’obiettivo, finora centrato, di metterli gli uni contro gli altri o comunque di tenerli ben separati e gli uni agli altri indifferenti se non – preferibilmente – ostili, non meritasse almeno il tentativo di un’interlocuzione in questa direzione.
Chiediamo ai lavoratori di ragionare assieme e discutere se l’incontro e il collegamento con i lavoratori Fiat degli altri paesi (tanto per cominciare da dove il capitalismo ci impone un passaggio obbligato e finora eluso alla grande, non solo dalle leadership...) siano necessari o se si tratti di optional di cui poter fare a meno. Quindi poi se i contenuti portati avanti dalla Fiom nella sua piattaforma e negli appelli contro “i ricatti di Marchionne” siano di quelli che predispongono l’incontro e la comune iniziativa, o non piuttosto ignorano i lavoratori degli altri paesi, considerandoli come soggetti estranei alla propria partita e disconoscendoli come parte di un unico fronte sotto attacco le cui forze avvicinare e unificare per resistergli.
Ecco il senso della nostra critica alla Fiom. Chrysler-Fiat, con una terna di Stati e relativi governi (e buona parte di opposizioni) iper-capitalisti al seguito, parte all’attacco di qualche centinaia di migliaia di lavoratori sparsi in tutto il mondo con effetti a cascata certo non circoscritti ai dipendenti di quel gruppo, e voi, signori dirigenti della Fiom, cosa avete da dire e cosa avete detto?
Che il ricatto “di Marchionne” ha violato la costituzione dell’Italia, che Marchionne vuole tenere fuori dalle fabbriche-Italia la nostra costituzione, la nostra democrazia, che accordi e referendum del genere non sono votabili (e pur adesso li avete votati e votati per il SI...).
Cosa significa questo lo abbiamo già scritto. Significa che non vi siete mai sognati di pensare all’offensiva antioperaia di Chrysler-Fiat come a un problema unitario che colpisce i lavoratori di tutto il gruppo, le cui forze quindi tendere a collegare e unificare per poter respingere insieme un attacco comune. Significa che non vi siete mai disposti a considerare questo più ampio scenario, non avete mai né cercato né usato argomenti idonei a promuovere fosse anche un solo piccolo passo iniziale in questa direzione. Avete semplicemente detto: “negli Stati Uniti, in Serbia e in Polonia accada quel che deve accadere, ma qui in Italia queste cose non si possono fare, a noi lavoratori italiani ci dovete preservare i diritti garantitici dalla nostra costituzione”. Argine di fango, illusione destinata – come merita – a cadere, lasciando i lavoratori nudi di ogni difesa! “Noi non siamo polacchi” ha gridato in assemblea un operaio di Pomigliano, che evidentemente ha inteso per il verso giusto i vostri appelli.
Ma su queste basi viene negata ogni prospettiva internazionalista di classe (le due cose viaggiano assieme e la vostra pseudo –“resistenza” ne dà la conferma in negativo) e ci si getta anima e cuore in una battaglia dai richiami e dai contenuti nazional-corporativi, in nome della “nostra democrazia da difendere” (come avete piagnucolato in decine di stucchevoli “appelli unitari”), dell’alleanza antiberlusconiana “da Vendola a Fini”, dell’interclassismo a tinte tricolori con inni di Mameli a suggello, del CLN di salvezza nazionale contro i reazionari Berlusconi-Marchionne che sparuti drappelli finora senza masse (ma il peggio, di questo passo, non possiamo escluderlo...) pretendono di incalzare cantandogli contro “Fratelli d’Italia” (dalla pena... al vomito!).
E non dite che una diversa prospettiva era preclusa dalle decisioni dei sindacati statunitensi dell’auto (con tutto il male che giustamente di essi può e deve dirsi) e dai lavoratori da essi rappresentati, perché invero non vi abbiamo mai visti prendere in carico i problemi di quei lavoratori quando la Chrysler rischiava di chiudere insieme ad altri colossi multinazionali spazzati via dalla crisi, non vi abbiamo mai visti interessarvi alle vicende che avvenivano oltre Atlantico e che vi illudevate che mai ci avrebbero riguardato. E, d’altra parte, non avete forse allo stesso modo declinato nel disinteresse più totale le poche, ma non per questo insignificanti, parole di altro segno che vi/ci sono provenute in questi anni (invero anche di recente come abbiamo potuto registrare sul nostro sito) da rappresentanti sindacali e da sia pur ristretti nuclei di lavoratori degli stabilimenti Fiat in Polonia e in Serbia, parole che richiamano la necessità di un collegamento tra lavoratori dei diversi paesi e non certo inneggiano, come le vostre, alla difesa separata e nazional-corporativa?
I fatti ci danno conferma. Come scrive Mortara, oggi la Fiom, mentre “festeggia le sue nove vittorie di carta”, intanto “si appella a Fim e Uilm e a Federmeccanica per definire regole cogenti sulla rappresentanza e sulla democrazia capaci di impedire la pratica degli accordi separati...” (“è come chiedere al lupo, che si è divorato Cappuccetto Rosso, di restituirlo!”). Quindi: cause a tutto spiano da un lato, ma sostanziale marcia indietro alla ex-Bertone e a Melfi, come anche nelle proposte di composizione del disaccordo con Confindustria e Cisl-Uil a partire dalle “regole sulla rappresetanza”.
Un decorso che, con tutta la (non irriducibile) distanza tra maggioranza e minoranza della Cgil, tra segreteria camussiana e Fiom, di fatto le accomuna: sia l’una che l’altra stanno procedendo in modo più o meno dichiarato verso la sostanziale accettazione degli accordi inzialmente rifiutati e questo è il dato centrale della loro azione, deleteria per la nostra classe che peraltro, e anche questo va detto, poco o niente finora vi ha opposto.
La Cgil ha indetto lo sciopero soltanto il 6 maggio, data sufficientemente lontana dallo sciopero metalmeccanico del 28 gennaio e sufficientemente vicina alle elezioni amministrative, in prossimità delle quali sta bene riempire le piazze e creare aspettative con tutti gli argomenti antiberlusconiani possibili. Che lo sciopero del 6 maggio sia stato uno “sciopero elettorale” lo conferma non solo il fatto che esso ha individuato come sua esclusiva controparte il governo di centro-destra (che controparte, ma non certo esclusiva, lo è a pieno titolo), ma anche l’iniziativa della Camusso che proprio in quei giorni ha presentato a Confinudustria e Cisl-Uil una “proposta di riforma della contrattazione” che ricalca nell’essenziale (ovvero nello svilimento del CCNL, ammettendo recuperi al di sotto dell’inflazione e ampia possibilità di deroga a livello aziendale e locale) quanto già sottoscritto separatamente da quegli altri. Lo sciopero del 6 maggio non ha visto al centro né la denuncia di Confindustria (e della Fiat), né quella degli accordi separati che nelle varie categorie stanno sancendo condizioni sempre più deteriorate per i lavoratori. Tutti gli strali della Cgil sono stati indirizzati contro Berlusconi, mentre la Camusso proprio in quei giorni ha accentuato l’iniziativa volta a ricucire gli strappi con Confindustria.
Il tutto in vista e in prossimità della tornata elettorale, a suggello del fatto che questa politica, che si riempe la bocca di democrazia mentre arretra continuamente sugli interessi di classe, non sa far altro che eludere la presa in carico delle necessità dei lavoratori sul terreno della lotta per convergere, prima o poi, sulle istanze del fronte avverso, puntando a finalizzare gli accenni di mobilitazione che si sono dati e quelli che in forma ultra-controllata è stato utile chiamare in campo al mero scopo di una favorevole conta di voti, così certificando ancora una volta il proprio mestiere di sempre: quello di pompieri della lotta di classe, votati a spegnere nelle urne del potere borghese (così come nelle aule dei suoi tribunali) ogni (anche solo potenziale) energia di lotta della classe operaia e lavoratrice.
Una politica che è foriera di gravi ulteriori arretramenti “nelle fabbriche”, cioè nella realtà dei rappporti di forza tra capitale e classe lavoratrice, anche quando, a detta di costoro, “si vincerebbe”, nei tribunali e nelle urne.
Abbiamo letto su Liberazione del 21/05/11 l’articolo di Cremaschi (“Nei ballottaggi di Milano e Napoli la differenza la può fare il lavoro”) che si arrampica sugli specchi per affermare che nelle candidature di Pisapia e De Magistris sarebbe stata messa in primo piano la questione del lavoro. A Milano, in particolare, sarebbe stata la lotta della INNSE a dare il là alla riscossa operaia che ha portato sulla poltrona di sindaco il candidato del centro-sinistra.
Niente ci sembra più fasullo e francamente ridicolo. Le vittorie di Pisapia e De Magistris sono state possibili su terreni dove la questione di classe, lo abbiamo detto in apertura, oltre a non essere centrale, vi è stata e vi è francamente del tutto assente, se non esorcizzata. Chi ritiene che questo sia soltanto il portato di sapienti strategie elettorali avrà modo di ricredersi. Intanto vada a leggersi alcuni esplicativi editoriali della stampa borghese, uno per tutti quello di Piero Ostellino sul Corriere della Sera del 26/5/11, “Una città due borghesie”, dove si legge, tra altro, che “Letizia Moratti e Giuliano Pisapia hanno come grandi elettori le due borghesie nelle quali è (apparentemente) divisa la upper class nazionale. L’una di (centro)destra, si dichiara ’moderata’; l’altra, di (centro)sinistra, ’progressista’...”. O legga ancora sullo stesso numero Massimo Moratti, petroliere presidente dell’Inter, per il quale: “Giuliano mi sembra una persona perbene. Si rivolge a tutti e incarna i valori e la tradizione della borghesia milanese...”.
Chi sbaglia a fare i conti: Ostellino/Moratti o Cremaschi? Noi non abbiamo dubbi. Nella canditatura di Pisapia e nella sua campagna elettorale abbiamo visto riflesso l’ulteriore percorso compiuto da Federazione della Sinistra e SEL nella “ri-affondazione” definitiva di ogni velleità di “comunismo” ridotto a barzelletta dai suoi stessi ex-rappresentanti pur di poter essere riammessi nel gioco, almeno in quello delle amministrazioni locali.
Rispetto alle arrampicate sugli specchi di Cremaschi ci sembra molto più sensato e veritiero registrare una linea di continuità tra il SI espresso dagli operai alla ex-Bertone e la plebiscitaria elezione di Piero Fassino a Torino al primo turno. Nella elezione di Fassino, esponente del centro-sinistra notoriamente schierato con Marchionne e in generale contro le “rigidità” sindacali della Fiom e della stessa Cgil, vediamo riflessa “la questione del lavoro” di cui parla Cremaschi, ma non nel senso di inesistenti riscosse (poi tradotte in voti...), sì invece in quello di un reale arretramento della classe operaia che, deprivata (e deprivatasi) di ogni sua propria prospettiva – distinta e contrapposta a quelle di tutti i Fassino e della upper class nazionale in ogni suo fazione e componente –, si piega oggi al SI sui ricatti in fabbrica e vota in massa il candidato del centro-sinistra che quei ricatti giustifica e sostiene.
Da questa non confortante realtà si riparte. Questi i meriti su cui dare battaglia perché ripartenza e lotta contro il capitalismo possano darsi, superando in avanti le attuali indubbie e gravi difficoltà del nostro fronte.
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