di Norberto Fragiacomo
Nel solo 2011, in Grecia, si sono svolti otto scioperi generali (oltre a quelli aziendali e di categoria, spesso “selvaggi”, che non si contano), alcuni dei quali della durata di 48 ore. Sono scese in piazza centinaia di migliaia – se non milioni - di persone, la perdita di ore lavorate è incalcolabile, le cronache registrano occupazioni prolungate di edifici governativi, scontri e “battaglie campali” nelle principali città, con azioni di guerriglia, lanci di bombe molotov e dure risposte poliziesche. Il 2012 è iniziato alla stessa maniera, con manifestazioni imponenti ad Atene e negli altri centri del Paese (Salonicco, Volos ecc.).
Il risultato? Zero assoluto.
La volontà popolare, espressa in modo inequivocabile, non ha minimamente influenzato le decisioni prese dal governo ellenico sotto dettatura della troika FMI-BCE-UE; l’unico sussulto “democratico” – la proposta di referendum lanciata, in autunno, dall’allora premier Papandreou – ha provocato una fulminea censura internazionale, e l’esautoramento, nel giro di poche ore, di primo ministro, esecutivo e maggioranza parlamentare.
La protesta (tendenzialmente) pacifica, dunque, non è servita a niente, e la democrazia – già morta da un pezzo – è stata austeramente sepolta. A governare, oggi, sono i mercanti (banche d’affari, multinazionali, fondi di investimento), attraverso istituzioni infestate da loro fiduciari oppure direttamente, in prima persona, a colpi di… decreti [1].
Ovunque, in Europa, le regole del gioco politico sono state clamorosamente sovvertite (rectius: l’imbroglio, che in precedenza veniva tacitamente consentito, è assurto a regola indiscussa), e chi fa mostra di non accorgersene è uno sciocco o un venduto.
Non sono certo nuove elezioni il toccasana, come qualcuno, in Grecia e in Italia, dice di ritenere (ingenuamente o strumentalmente? Nel caso di specie, in dubio contra reum): se, per assurdo, il KKE stalinista trionfasse alle consultazioni di primavera, l’esito verrebbe prontamente invalidato con qualche pietosa scusa, ed anche un successo della “sinistra” nostrana, nel 2013, potrebbe venir consentito solo a condizioni “veltroniane”. Gli interrogativi, peraltro, non si incentrano tanto sul fondatore del PD – un liberale filoamericano, cioè di destra – quanto su personaggi come Di Pietro e Vendola che, pur rilasciando, a giorni alterni, vaghe dichiarazioni antisistema, nutrono evidenti ambizioni governiste, concretizzabili, rebus sic stantibus, solo nell’ambito di una coalizione “moderata” (vale a dire lettianamente prona ai diktat della finanza internazionale).
A differenza che in Grecia (colà i tecnocrati sono già all’opera per sterilizzarne gli effetti), da noi le elezioni politiche si terranno tuttavia in un lontano futuro; molto più prossima è la conclusione dell’offensiva – avviata dal Governo Monti-Napolitano per conto terzi – contro le tutele previste dal nostro ordinamento a favore dei prestatori di lavoro.
Al pari di dieci anni orsono, l’obiettivo dichiarato è quello di cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori – ma le circostanze sono diverse, ed oggi assai più penalizzanti per la classe lavoratrice. Come si può leggere su Wikipedia, “Il 23 marzo del 2002, nella più grande manifestazione di massa della storia del nostro Paese, tre milioni di persone – tutto il popolo della CGIL – erano a Roma per difendere un diritto fondamentale”. Guidate dal carismatico Sergio Cofferati (ora all’opposizione nel PD), riuscirono nel loro intento: il Governo Berlusconi fu costretto ad una stizzosa marcia indietro, e la norma non fu toccata.
La storia non si ripeterà: neppure una dimostrazione oceanica potrebbe far cambiare idea a Mario Monti – per il semplice fatto che, di questi tempi, le “riforme” (tutte peggiorative, sia chiaro) non sono affidate alla buona volontà dei governi, ma vengono pianificate e imposte dall’alto. Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare: l’articolo 18 – più per il suo significato simbolico che per la reale efficacia – sarà oggetto di esproprio, costi quel che costi. All’alba del secolo, il Capitale perseguiva i suoi obiettivi diligentemente, ma senza forzature: la lenta, poco percettibile erosione di tutele e stato sociale, attuata da maggioranze di destra e di “sinistra liberale”, era preferita a colpi di mano (o di testa) che avrebbero potuto innescare pericolose reazioni in società mansuefatte ma non controllabili al 100%. All’indomani della vittoria elettorale (2001), Berlusconi provò a mettere sindacati e lavoratori di fronte al fatto compiuto, ma la risposta fu superiore alle attese, e si stabilì pertanto di non insistere. Va tenuto conto anche di altri fattori: in primis, il fondamentale disinteresse – da parte del leader di Forza Italia – per tutto quanto non lo riguardi personalmente (il cavaliere disprezza i poveracci, ma delle esigenze dei suoi “colleghi” milionari se ne sbatte); in secondo luogo, il timore che un prolungato braccio di ferro rovinasse la luna di miele tra il neonato esecutivo e il Paese. Per ragioni solo parzialmente sovrapponibili, dunque, potentati globali e destra italiana si defilarono, abbandonando il campo: il piagnucolio degli ultras alla Brunetta echeggiò per un attimo nei corridoi del palazzo, indi si spense.
Ad appena due lustri di distanza, il quadro appare drasticamente modificato. Dopo un probabile sconcerto iniziale (2007-2008), i finanzieri si sono riparati dalla crisi, che essi stessi avevano causato, sotto l’ombrello di istituzioni statali totalmente asservite e – una volta ripreso a dettare legge – hanno mutato il rischio in straordinaria opportunità. Lo stato di emergenza “giustifica” trasformazioni senza precedenti, e soprattutto permette - a chi dispone di adeguati strumenti di pressione ed è in grado di plasmare il presente – di accelerare quasi senza limiti i processi in atto. L’identificazione, anche terminologica, tra la crisi economico-finanziaria e uno tsunami(senza sottilizzare sul fatto che il secondo è un fenomeno naturale, mentre la prima è stata innescata dall’uomo e, più precisamente, da una determinata categoria di esseri umani) costituisce la premessa di un lavaggio del cervello quotidiano ed efficacissimo, che indica al teleutente il perfetto capro espiatorio – lo statale greco, il lavoratore “anziano” e “garantito” – ed un’unica via d’uscita fatta di “sacrifici inevitabili”. Il pubblico interiorizza la colpevolezza di un intero Popolo – quello greco, per adesso – e plaude, o quanto meno assiste impassibile, all’inflizione della pena, senza neppure domandarsi se la sanzione (la condanna a morte) sia proporzionata al “delitto” (l’ipotizzato furto di un pollo). Peggio ancora: si accetta, come cosa buona e giusta, che una comunità venga decimata, o soppressa, per responsabilità addebitabili ad alcuni suoi membri, e che i concorrenti esterni nel reato (Goldman Sachs e aa.) siedano comodamente al tavolo dei giurati.
Per la verità, il marchio d’infamia non è una (poco invidiabile) esclusiva greca: un po’ tutti, in Europa, avremmo scialato, andando in pensione troppo presto e con assegni troppo alti, omettendo di morire di stenti durante i periodi di disoccupazione, facendoci curare gratis o quasi. In sintesi, come ci viene ripetuto giorno e notte, “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” – che dovevano essere alquanto misere, se sono state le pensioni baby (mica la speculazione internazionale!) a mandare in malora le finanze di una potenza economica come l’Italia.
Sia come sia, la gente, spaventata da questo sinistro, incessante tambureggiare, finisce per sentirsi in colpa, e per reputare giustificata la pena che le comminano – specialmente se a pronunciare il verdetto non sono biechi affaristi o istituzioni lontane anni luce, ma una persona perbene, che va a messa la domenica e “ci fa fare bella figura all’estero”. Mario Monti ha rappresentato l’uovo di Colombo, la soluzione ideale al problema Italia. Sindrome di Stoccolma? Della Gerusalemme celeste, piuttosto: non solo gli imputati si sono innamorati del loro inquisitore (sulla cui “terzietà” è lecito coltivare dubbi), ma gli hanno addirittura affidato ogni speranza di salvezza. Il vero amore non ha bisogno di prove: finora Monti ha sproloquiato di equità (che non si è nemmeno intravista), tartassato la maggioranza degli italiani, risparmiato i ricchi e le banche – ma la sua popolarità non sembra in calo. Dipenderà da sondaggi telecomandati? In parte sì, crediamo; fatto sta che l’opposizione sociale al governo finto-tecnico stenta a coagularsi, anche perché i media “di sinistra” – quelli che, a ragione, scrivevano peste e corna di Berlusconi sette giorni a settimana – sostengono la creatura di Napolitano, o al massimo si limitano a velate critiche.
Sull’articolo 18, Monti ha voluto saggiare le difese dell’avversario (CGIL, Fiom ecc.), anziché partire a testa bassa. Prima la litania sulla noia del posto fisso, con il premier che dà il la all’orchestrina; quindi l’assicurazione, rinnovata ad ogni piè sospinto, che “sulla riforma (strategica) del mercato del lavoro il governo andrà avanti anche senza l’accordo delle parti sociali”. Insomma, la trattativa è una finzione, il copione bell’e scritto. Stavolta, nessuna ipotesi di ritirata – anche perché il primo ministro “tecnico” non risponde ad un elettorato, ma solo al Presidente della Repubblica e ai mercati. Lui può permettersi di scontentare tutti (quelli che non contano), ed affermare, con viso imperturbabile, che sta salvando l’Italia. Amen.
La strada per gli oppositori è tutta in salita. Dopo qualche rinvio di troppo, il sindacato dei metalmeccanici Fiom ha dichiarato lo sciopero generale per il nove di marzo, con manifestazione principale a Roma. Come si comporterà la CGIL ? Accodarsi – cioè rendere lo sciopero davvero generale – significherebbe rompere con gli altri sindacati (collaborazionisti), e far saltare il tavolo con il governo… un tavolo vuoto, peraltro, come si è detto! Questa scelta, per noi comunque inevitabile e doverosa, esporrebbe la più grande organizzazione sindacale italiana al violento biasimo della stampa montian-progressista (che dieci anni fa stava dalla parte di Cofferati), dei vertici istituzionali e di mezzo centrosinistra [2].
E’ possibile portare tre -o due- milioni di persone in piazza in queste condizioni, e soprattutto contro un esecutivo vezzeggiato dalla stampa di mezzo mondo?
E’ possibile portare tre -o due- milioni di persone in piazza in queste condizioni, e soprattutto contro un esecutivo vezzeggiato dalla stampa di mezzo mondo?
Difficile fare previsioni: di sicuro, anche di fronte a quattro milioni di persone in marcia, il Governo Monti non batterebbe ciglio, e proseguirebbe il cammino intrapreso. Le ragioni le abbiamo indicate prima, e una mano potrebbe venire dall’esterno, magari sotto forma di un’impennata dello spread, di un’ammonizione europea o di un invito alla “ragionevolezza” fatto da Napolitano.
Verrebbe meno una quota di consenso? Immaginiamo di sì; ma, come dimostra l’esperienza greca, nell’era della democrazia sospesa il consenso è un’optional, cui si può tranquillamente rinunciare.
In ogni modo, la dimostrazione s’ha da fare, e tocca impegnarsi tutti perché abbia pieno successo – pensando però già al domani.
Quale sarebbe una risposta appropriata alla cancellazione/svuotamento dell’articolo 18? Se il PD fosse una forza di sinistra (periodo ipotetico dell’irrealtà), dovrebbe votare contro il provvedimento governativo e poi, in caso di approvazione, abbandonare il Parlamento e costituire, insieme agli altri movimenti di opposizione, un governo ombra capace, su ogni questione, di elaborare soluzioni alternative a quelle dettate da FMI e BCE. Fantascienza, ovviamente – neppure l’IDV del tribuno Di Pietro arriverebbe mai a tanto. Meglio il cerchiobottismo e le panatiche: primum vivere.
Spetta dunque al sindacato, ai piccoli partiti della sinistra, ad associazioni e cittadini consapevoli tessere una rete di protezione, che salvi un Paese e un continente in precario equilibrio su un filo scivoloso. Urgono progetti, ricette per il lungo termine e – nell’immediato – iniziative di lotta, su scala anche locale: l’occupante va snervato con la tattica del mordi e fuggi, fatta di piccoli sabotaggi (anche ideologici, come il corteo dei clown inscenato dagli studenti triestini in occasione della parata del 4 novembre), contestazioni mirate, contropropaganda capillare. Importante è recuperare/conquistare una dimensione europea, vale a dire la consapevolezza che da questa crisi si esce tutti insieme (greci compresi), o non si esce affatto.
Inoltre, anche gli incendi più vasti e spettacolari hanno bisogno, per scoppiare, di una minuscola scintilla: a mito fondativo della Nuova Europa potrebbero assurgere (3) la riappropriazione, da parte del Popolo Greco, del luogo della Democrazia per antonomasia, il Parlamento, e la contemporanea cacciata dal Paese-tempio dei mercanti della troika.
I Greci sono prostrati, avviliti, alla fame; ma – come i lavoratori russi nel ’17 – non si sono ancora arresi. Dobbiamo aiutarli materialmente - fornendo loro, nei limiti del possibile, generi di prima necessità e supporto – ma anche e soprattutto moralmente, prendendo le loro parti contro gli aguzzini, sventolando i vessilli bianchi e azzurri, gridando la nostra rabbia per una persecuzione ed una repressione spietate… inchiodando i propagandisti di regime al legno marcio delle loro menzogne.
La solidarietà non è solo un dovere morale: è un’arma rivoluzionaria.
Con l’Europa dei lavoratori al fianco, i fratelli greci possono ancora resistere e vincere – e noi assieme a loro. Se invece resteremo indifferenti, il costo della nostra ignavia sarà una servitù senza scampo.
“Odio gli indifferenti”, scriveva Gramsci cent’anni fa. Chi si occupa solamente del suo giardino, lo vedrà presto sfiorire, perché non basta un muricciolo a fermare la grandine, o sciami di locuste affamate - ma le energie e le intelligenze unite talvolta possono.
NOTE
(1) Intervistata dal bravo D. Mastrogiacomo di Repubblica, l’ex ministro del Lavoro greco Louka Katseli – espulsa dal Pasok per essersi ricordata, al momento del voto in Parlamento, che Socialismo e tradimento non sono sinonimi – analizza lucidamente la situazione: “La Grecia è stata usata come cavallo di Troia di un nuovo corso che coinvolgerà tutti i Paesi europei. Soprattutto quelli che si trovano in difficoltà. Le conseguenze delle misure adottate nei nostri confronti finiranno per ripercuotersi anche in Italia, in Spagna, in Portogallo, in Irlanda. E’ un serio pericolo, di cui la gente non coglie la dimensione e la portata. Le misure arriveranno poco alla volta e solo alla fine la popolazione se ne accorgerà.” A proposito di espulsione, a quando quella dell’indegno Pasok dall’Internazionale Socialista e dal PSE? Visto che nessuno, a livello europeo, pone la questione, sarà compito della Sinistra Socialista farlo.
(2) Naturalmente anche di Confindustria, la cui presidente, prima di accusare i sindacati di difendere i lavoratori “ladri”, avrebbe fatto meglio a guardare in casa propria.
(3) E sarebbe una sorta di ritorno a casa, visto che quella di Europa (rapita dal toro Zeus in Asia Minore) è un’antica leggenda greca!
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