Monti getta la maschera in modo definitivo. Dopo aver farneticato per mesi sulla "fase 2", ovvero sui provvedimenti per rilanciare la crescita, senza la quale - sono parole sue - non vi può essere risanamento strutturale delle finanze pubbliche, rinuncia all'unico strumento che, secondo l'ideologia liberista cui appartiene, va utilizzato per promuovere la crescita, ovvero l'abbattimento delle tasse. In un consiglio dei ministri di ieri sera che le cronache ci dicono essere convulso, e che mostra quindi le prime crepe nella coesione interna fra i “tecnici”, evidentemente indotta dal timore che l'appoggio popolare a questo Governo sia molto minore di quanto i sondaggi ci fanno credere, il premier rinuncia all'idea di creare un fondo, nel quale far confluire le risorse del contrasto all'evasione fiscale, destinato alla riduzione della pressione fiscale.
Come è noto, per i liberisti esiste un equilibrio di piena occupazione strutturale, verso cui il sistema tende spontaneamente a convergere, sia pur con fluttuazioni cicliche di ripresa e recessione, per cui le politiche pubbliche di tipo interventista non fanno altro che ostacolare tale tendenza “naturale” all'equilibrio, distorcendo le aspettative degli operatori (che di per sé si dovrebbero formare con meccanismi di razionalità, ma che possono essere rese “irrazionali” dall'intervento di politica pubblica. Tale assunto potrebbe essere semplicemente smentito guardando all'elevatissima irrazionalità ed emotività con cui si formano le aspettative degli operatori nel mercato più deregolamentato del mondo, ovvero quello finanziario) creando inflazione che si riflette su una errata ed eccessiva domanda di moneta e in tassi di interesse crescenti, ed ostacolando l'allocazione “ottimale” dei fattori produttivi che si realizza nel modello teorico di concorrenza perfetta, in cui, sempre in teoria, porta ad una massimizzazione dell'offerta ed a una minimizzazione del prezzo di mercato dei prodotti.
In questo scenario, per il liberista “doc”, per un seguace fedele di Friedman quale si considera il nostro premier, la politica pubblica deve fare solo tre cose:
1 - liberalizzare completamente i mercati, riducendo al massimo, se non eliminando, ogni forma di regolamentazione degli stessi;
2 - creare le condizioni per aumentare al massimo la concorrenza fra privati sui mercati liberalizzati, smantellando ogni forma di cartello oligopolistico, o gruppo di interessi collettivi sul versante dell'offerta o della domanda (questo significa, peraltro, sul mercato del lavoro, smantellare il ruolo della contrattazione dei sindacati. Le tre aquile a capo degli attuali sindacati confederali che si illudono di “negoziare” con Monti la riforma del mercato del lavoro non si accorgono che si stanno consegnando ad un sistema di contrattazione aziendale e localistico, all'americana, in cui il loro ruolo sarà ridotto pressoché allo zero, o quantomeno dovrà essere conquistato con dure lotte azienda per azienda);
3 - abbassare al massimo la pressione fiscale, soprattutto sui redditi medio-alti e sulla fiscalità dei redditi delle imprese, al fine di stimolare l'iniziativa imprenditoriale privata, e creare convenienze fiscali per gli investimenti, secondo i dettami della cosiddetta curva di Laffer (una teoria, rivelatasi del tutto fallace, secondo cui un incremento delle imposte sui redditi medio-alti e sulle tasse delle imprese, oltre un certo livello critico, producono un abbassamento dell'attività economica, e quindi effetti negativi anche sul bilancio dello Stato). Naturalmente, l'abbassamento della pressione fiscale richiede una parallela riduzione della spesa pubblica, onde evitare effetti di breve periodo esplosivi sul bilancio dello Stato. Meno spesa pubblica significa meno scuole, meno ospedali, meno pensioni, licenziamenti di dipendenti pubblici, meno welfare.
Questa ricetta liberista della crescita, peraltro, non comporta alcun effetto di crescita nel medio periodo, ma solo un effimero, e del tutto momentaneo, stimolo all'economia, che si lascia dietro, dopo la fase di euforia, danni strutturali all'economia, che ne abbassano il tasso di crescita potenziale in modo permanente. L'esempio empirico è fornito da tutti i Paesi che hanno adottato tale ricetta, ad iniziare dagli Usa del periodo della reaganomics degli anni Ottanta. Le politiche di liberalizzazione, privatizzazione, riduzione della spesa pubblica e della pressione fiscale sui redditi medio-alti e sulle imprese condotta da Reagan ha , in effetti, stimolato la crescita del Pil e la riduzione del tasso di disoccupazione (anche se, secondo Krugman, ciò è stato indotto più dalle politiche monetarie accomodanti sui tassi di interesse seguite dalle FED di Volcker in quegli anni). In effetti, il PIL crebbe ad un tasso medio annuo del 3,5%, con una riduzione del tasso di disoccupazione dal 7,1% del 1980 al 5,4% nel 1988, mentre il tasso di inflazione passò dal 10% al 4% nello stesso periodo.
Tuttavia, tale politica generò effetti strutturali dannosissimi, mascherati temporaneamente dal boom produttivo legato allo sforzo bellico degli Usa nella prima guerra del Golfo e sullo scacchiere balcanico, e che si fecero sentire già a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, abbassando notevolmente il potenziale di crescita economica, e rendendo l'economia statunitense più fragile ed esposta a fasi di recessione del ciclo economico generale. Infatti:
a) la reaganomics fece esplodere il debito pubblico federale, passato dal 26,1% del PIL nel 1980 al 41% nel 1988. questo per un ovvio motivo, noto agli studenti del primo anno di economia: l'elasticità delle entrate e delle spese rispetto al saldo di bilancio non è la stessa, ed in particolare le prime sono molto più elastiche delle seconde. Quindi la riduzione della pressione fiscale ha generato effetti negativi sul saldo di bilancio che hanno più che compensato i modesti effetti della riduzione della spesa pubblica, che è caratterizzata da notevole rigidità verso il basso. Di conseguenza, l'enorme debito federale ha reso molto più difficile l'utilizzo della spesa pubblica a fini anticiclici nelle fasi di rallentamento dell'economia, ha provocato una ripresa delle tensioni inflazionistiche, con un'inflazione nuovamente schizzata a più del 5,3% nel 1991, ha contribuito ad indebolire strutturalmente il tasso di cambio del dollaro, compromettendo cioè il ruolo dominante degli Usa nel sistema mondiale dei pagamenti,
b) la reaganomics ha bruciato i risparmi privati, ridottisi molto rapidamente nel corso degli anni Ottanta. Il rapporto fra risparmio e reddito disponibile dei privati, che negli anni pre-Reagan oscillava attorno al 10%, negli anni Ottanta scese fra il 7 e l'8%, per poi attestarsi al di sotto del 5% a fine anni novanta, ed attorno all'1-2% negli anni Duemila. Ciò si è verificato perché la reaganomics ha portato ad una crescita strutturale della propensione marginale al consumo nella fase di euforia, ed a un incremento rapidissimo dell'indebitamento dei privati con le banche, specie per il credito immobiliare, grazie ai bassi tassi di interesse (tenuti bassi per stimolare gli investimenti). Ciò ha gettato le basi strutturali per l'esplosione della grande crisi, che si sarebbe verificata vent'anni dopo, causata proprio dall'espandersi incontrollabile della bolla dei mutui immobiliari ai privati, in una condizione in cui il risparmio privato è molto basso;
c) la reaganomics ha ampliato a dismisura l'area della povertà, perché l'abbassamento del tasso di disoccupazione è stato generato da una crescita degli impieghi dequalificati e sottopagati (i cosiddetti “dog workers”, cioè lavoratori il cui reddito non è sufficiente per uscire dalla povertà). I cittadini americani al di sotto della linea ufficiale di povertà sono cresciuti dell'8% nel corso degli anni Ottanta, arrivando a 31,7 milioni di poveri nel 1988, ovvero circa 32 milioni di americani spinti al di fuori del circuito della domanda e dei consumi, con effetti strutturali di lungo periodo depressivi sui livelli produttivi. Da un mio calcolo sulle propensioni marginali al consumo delle fasce di reddito medio-basse, si può stimare che, per il solo effetto di aumento della povertà, il tasso di crescita potenziale del PIL è diminuito permanentemente di 0,85 punti ogni anno;
d) la reaganomics ha prodotto una gigantesca crescita del disavanzo della bilancia delle partite correnti (cresciuto del 161% rispetto agli otto anni precedenti a Reagan, che pure furono anni di recessione per l'economia Usa). Ciò fu indotto da una notevole perdita di competitività dell'economia a stelle e strisce, non compensata nemmeno dalla svalutazione del dollaro rispetto ad alcune valute fondamentali, come il marco tedesco, lo yen o il franco svizzero verificatasi come effetto della reaganomics. Naturalmente, le liberalizzazioni e deregolamentazioni attuate durante il periodo di Reagan non hanno fatto altro che aumentare gli effetti di un apparato produttivo scarsamente competitivo sulla qualità e l'innovazione, aumentandone l'esposizione alla concorrenza internazionale. E nemmeno la competitività di costo indotta dall'indebolimento del dollaro ha potuto compensare questi effetti,
e) la reaganomics ha fallito nel creare condizioni maggiormente concorrenziali sui mercati liberalizzati. Questo perché la politica è in generale al servizio degli interessi dei grandi poteri economici, per cui non si liberalizza mai nei settori altamente concentrati e trustificati (ad esempio, l'industria automotive degli Usa continua ad avere un livello di concentrazione, misurato con l'indice di Herfindahl, altissimo, pari a 2.505,8, quando il Dipartimento della Giustizia statunitense fissa in 1.800 il livello di soglia oltre il quale un determinato settore è in condizioni di concentrazione oligopolistica) e quando si liberalizza, di fatto si apre la strada per una successiva conquista dei mercati liberalizzati da parte dei concorrenti più grandi e più capitalizzati, cioè si apre la strada per la successiva concentrazione oligopolistica. Di fatto, le 50 più grandi società statunitensi concentrano il 24% del valore aggiunto manifatturiero nel 1997, e tale percentuale è rimasta la stessa anche nel 1992 e perfino nel 1954.
Se questi sono gli effetti nefasti di lungo periodo della politica economica liberista, figuriamoci cosa succederà dal fallimento di tale politica. Perché Monti sta fallendo nell'implementarla. I continui riaggiustamenti parlamentari del decreto sulle liberalizzazioni, che reintroducono forme di protezione per i settori professionali più forti, in termini di rappresentanza parlamentare, stanno creando un sistema a doppio binario, in cui alcune professioni ed alcuni settori, troppo deboli per difendersi, saranno liberalizzati, ed altri no. Con la conseguenza che la liberalizzazione in alcuni settori indurrà la crescita di posizioni oligopolistiche, esattamente come successo con le politiche di Reagan mentre altri settori rimarranno protetti dalla concorrenza, in condizioni di inefficienza economica diversi da quelli tipici del mercato oligopolistico, ma comunque non meno gravi. Di fatto un processo di liberalizzazioni a velocità variabile a seconda del settore crea anche più problemi di un processo di liberalizzazioni completo e globale.
La rinuncia di ieri di utilizzare le risorse recuperate dall'evasione fiscale per abbassare le tasse, giustificata in modo sciocco ma significativo dallo stesso Monti (evitare di creare “tesoretti” dai quali i partiti potrebbero attingere per favorire le loro categorie elettorali di riferimento, evitare di rovinare l'immagine di formichina diligente con i suoi referenti sui mercati finanziari) impedisce di poter utilizzare la leva fiscale per stimolare nel breve periodo l'economia, quindi impedisce di ottenere quanto meno i benefici di brevissimo periodo tipici delle politiche liberiste. In pratica, Monti, abiurando alla sua stessa dottrina di politica economica, dichiara apertamente di non aver alcun interesse a mettere in pratica politiche di crescita. Da un certo punto di vista, è anche meglio per noi, visti i danni strutturali che le politiche liberiste provocano, dopo lo stimolo iniziale, al tasso di crescita potenziale dell'economia. Però perlomeno che Monti la smettesse di prenderci in giro su una “fase 2”che non esiste. Può forse servire per prendere in giro gli italiani (ma non a tempo indefinito, perché prima o poi i nodi verranno al pettine) ma lo espone a brutte figure in ambito politico ed accademico, come successo ieri quando, parlando con il premier irlandese, ha propalato per l'ennesima volta la bufala dell'austerità di bilancio che, da sola, genera crescita nel medio periodo. Il premier irlandese, che forse del tutto fesso non è, gli ha risposto mettendosi a parlare dei campionati europei di calcio, evidentemente pensando che tale livello di argomenti fosse più accessibile per il suo interlocutore.
Se poi Monti spera che a togliergli le castagne della recessione dal fuoco sia l'asse franco-tedesco che governa l'Unione europea, come lascia presagire la lettera che ha firmato con altri undici capi di Stato e di Governo, rivolta proprio a Merkel ad a Sarkozy, per implorare misure di crescita adottate a livello europeo (ovviamente basate sul solito paradigma liberista secondo cui le liberalizzazioni dei mercati e la mobilità dei fattori su base concorrenziale siano il toccasana per ogni male) allora si illude. Quella lettera ha tutto il sapore di una implorazione (abbiamo fatto bene il compitino dell'austerità di bilancio, ora per pietà dateci un po' di crescita) ed è assolutamente improbabile che Sarkozy e la Merkel siano così fessi da aprire i loro mercati interni alla concorrenza europea per far realizzare a Monti qualche decimo di punto di crescita. L'Europa non è il luogo della solidarietà, perché il suo assetto risponde agli interessi del grande capitale, specie di quello finanziario, e non a quello dei popoli. Prima impareremo a fare da soli meglio sarà.
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