RENZI AL PUNTO DI FLESSO DELLA SUA
PARABOLA
di Riccardo Achilli
L’impressione che Renzi sia sempre più in difficoltà è
crescente, ed inizia ad aprire varchi nell’aura di invincibilità di cui finora
si era circondato.
Gran parte delle sue riforme sono impantanate in un
Parlamento dove l’effetto-ingorgo è divenuto palese, e comporteranno molto,
troppo tempo per quello che è un cronoprogramma, in massima parte dettato da
esigenze di marketing politico, dell’uomo che ha promesso di cambiare l’Italia
in pochissimi mesi. L’evidente sconfitta su tutta la linea rimediata in Europa,
dove non è stato concesso nemmeno l’incarico di bandiera alla Mogherini,
costerà, a settembre, una manovra finanziaria che, fra minori spese e maggiori
tasse, costerà non meno di 15 miliardi (secondo gli ottimisti) se non più di 20
(secondo i pessimisti). Applicandosi ad un’economia ancora ferma, tale manovra
spegnerà ogni segnale di ripresa, più che altro “psicologico”, cioè derivante
dalle aspettative degli operatori, rischiando seriamente di prolungare anche
per il 2015 questo ciclo di stagnazione.
Ciò, evidentemente, in presenza di una riduzione dell’area del welfare e delle
politiche sociali, si traduce in una deriva di fatale impoverimento per i ceti
medio-bassi, in larga misura i principali tributari del consenso al PD
renziano. Già oggi, la prima manifestazione dichiaratamente antirenziana
(quella dei lavoratori delle Camere di Commercio, motivata da una proposta di
riforma controproducente sia per le casse dello Stato che per le imprese)
inizia a lacerare il velo del “Partito della Nazione” troppo frettolosamente apposto
dopo il 41% alle europee.
Di fronte a questo scenario, per Renzi le riforme
istituzionali sono diventate la condizione sine qua non della sua stessa
sopravvivenza politica. Non interessano particolarmente all’Europa, non sono
evidentemente la priorità per un Paese alla canna del gas, ma servono a Renzi
per “apparare”, per così dire, gli effetti negativi di consenso che arriveranno
in autunno, quando ci sarà da scrivere la legge di stabilità sotto il ricatto,
assolutamente intatto, dell’incombente fiscal compact, le grandi riforme
economico-sociali promesse non saranno entrate in vigore, ed i nodi verranno al
pettine.
E così ieri, forse in preda al nervosismo, forse come
riflesso pavloviano del suo carattere (quando è in difficoltà, l’uomo diviene
arrogante) Renzi ha detto una sciocchezza: “se non si fanno le riforme, si va al voto anticipato”.
Sciocchezza istituzionale, intanto. Nel nostro
ordinamento, non è il Presidente del Consiglio a sciogliere le Camere e
decidere di andare al voto. Possibile sciocchezza politica, poi. Siamo
veramente sicuri che se Renzi si dimettesse, Napolitano scioglierebbe le
Camere? Rendendo in questo modo palese il fallimento dell’intero progetto
politico di medio periodo sul quale ha scommesso tutto, ovvero un riformismo su
linee liberiste gradite all’Europa ed ai mercati, basato su larghe intese fra
forze politiche “istituzionali”, che isoli le forze politiche più
dichiaratamente non sistemiche? O piuttosto non preferirebbe resuscitare un
nuovo Governo tecnico, facendo leva su un Berlusconi, ancora interdetto, che
quindi non avrebbe alcun interesse a tornare a votare (così come, per motivi
diversi, non hanno interesse né Alfano, né ciò che resta della galassia
centrista, né importanti frange del PD, intimorite da un Renzi che potrebbe
vincere le elezioni, prima che inizia il suo ciclo discendente, per poi
bastonarle in virtù della riacquisita legittimazione elettorale). In fondo,
dentro la testa del Presidente, sicuramente c’è la constatazione del fatto che
il “mite” Monti è riuscito a sconvolgere l’assetto economico e sociale del
Paese, mentre il “prode” Renzi, in 150 giorni di Governo, non ha fatto altro
che spostare grosse masse d’aria, ma senza risultati apprezzabili. E poi,
Napolitano accetterebbe l’azzardo di andare ad un voto anticipato con il
Consultellum come legge elettorale, ed il conseguente rischio di un nuovo
Parlamento molto frammentato e non governabile? Certamente, però, un Governo
tecnico non sarebbe semplice da formare, ed apparirebbe come una forzatura,
l’ennesima, di un Palazzo che vuole dirigere le danze, senza avere la capacità
di farlo. E sarebbe comunque una ammissione di debolezza.
Per ciò stesso, le dichiarazioni di ieri del Presidente,
fortemente a sostegno delle riforme istituzionalirenziane, sono da me
interpretabili anche come un segnale di preoccupazione: “non bloccate le
riforme istituzionali, altrimenti la crisi del Governo Renzi aprirebbe uno
scenario da me non facilmente governabile”. E, se lette con attenzione ed
oggettività, tradiscono anche qualcosa di non proprio favorevole al tandem
toscano Renzi-Boschi. Dice infatti Napolitano che la riforma elettorale
renziana è “destinata ad essere ridiscussa con la massima attenzione per
criteri ispiratori e verifiche di costituzionalità che possono indurre a
concordare significative modifiche”. E che “si imporrà una riconsiderazione
delle esigenze di messa a punto e rafforzamento del sistema delle garanzie
costituzionali”.Rieccheggiano alla mente anche i tempi molto lunghi con i quali
il Quirinale ha dato il via libera ai testi di riforma della Pubblica Amministrazione messi a punto
dal Governo Renzi.
Sembra quindi emergere, da Napolitano verso Renzi, una
richiesta di maggiore collegialità, in primis all’interno dello stesso partito
democratico (lo scambio fra via libera alla riforma del Senato e revisione
dell’Italicum è stato più volte proposto da vari personaggi delle componenti
non renziane del PD, da Bersani a Cuperlo a Fassina) evitando che il Governo
prosegua sulla sua strada in modo unilaterale. Il timore di Napolitano è che
Renzi, proseguendo la sua navigazione senza tenere affatto conto delle correnti
e dei venti che gli girano intorno, finisca per naufragare su uno scoglio. Per
diversi motivi, la fedeltà di FI al patto del Nazareno non è sicura al 100%.
Berlusconi, parzialmente “resuscitato” dalla recente assoluzione per il
caso-Ruby, vuole qualcosa in cambio, sulla riforma della giustizia e sulla sua
situazione personale, anche perché deve sedare la fronda interna di Fitto,
dimostrandosi non succube di Renzi. E’ per questo che dichiara “la riforma del
Senato non si fa in 15 giorni”. E’ per questo che il suo fedelissimo Brunetta
dichiara “non è Renzi a decidere eventuali elezioni anticipate”. Alfano è
palesemente in difficoltà: la profferta di unità politica venuta da Berlusconi
gli crea problemi fra le sue truppe, e non è escluso che per placarle possa
decidere una linea di maggiore autonomia dal PD, facendo venire meno i suoi
voti, preziosissimi per far andare avanti le riforme stesse.
Come evolverà lo scenario? E’ presto per fare previsioni.
Personalmente, ritengo che l’uomo che viene da Rignano sull’Arno finirà, con
molte resistenze ed a malincuore, per cedere qualcosa ai suoi oppositori del
PD, magari sulle preferenze e le soglie di sbarramento dell’Italicum, ottenendo
il via libera alla riforma del Senato che terrà in vita ancora per un po’ il
suo Governo, e sarà quindi costretto ad abbandonare le sue tentazioni
plebiscitarie. Inizierà quindi per lui il logoramento politico e di consenso
inevitabilmente legato alla conduzione di un governo di medio termine, nelle
intemperie di una crisi ancora presente e di politiche di austerità che faranno
ben presto dimenticare il ricordo della mancetta da 80 euro. E credo che la
gestione del PD si riallargherà a bersaniani e cuperliani, per renderlo più
resiliente, e compensare così l’erosione di leadership del rignanese. Chi, come
Mineo e Chiti, fa opposizione non per rivendicare maggiore ruolo e visibilità,
ma per questioni di principio e merito politico, verrà progressivamente
emarginato e isolato.
C’è però una variabile impazzita nel sistema: non certo i
grillini, oramai in crisi di identità. Ma proprio Silvio Berlusconi. Che ha
ancora quel poco di vitalità politica, nonostante l’evidente declino, per
minacciare la base elettorale del Ncd di Alfano, e per esercitare una forza
centripeta su parti ancora rilevanti del centro destra italiano. E per porre
condizioni in cambio dei suoi voti. Non è probabilmente
un caso se la registrazione con le dichiarazioni di Emilio Fede, che si
riferisce al 2012, esce fuori proprio oggi, quando un redivivo Berlusconi torna
a farsi sentire ed a rivendicare. In qualche modo, stante l’inconsistenza del
M5S, la natura in parte rivendicativa di ruolo e visibilità di alcune delle
componenti non renziane del PD (Bersani chiude ogni suo intervento con una
richiesta di maggiore collegialità gestionale), e l’estrema debolezza della
sinistra, paradossalmente, le speranze più forti di un macigno sulla strada
delle pessime riforme istituzionali di Renzi proviene ancora dall’uomo di
Arcore. E certamente questo non è un bene. E’ una tragedia.
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