E NON CI INDURRE IN TENTAZIONE…
di Norberto Fragiacomo
Mezza estate, in un’Italia appena lambita dall’eco di tragedie internazionali e come sempre incapace di scorgere le nubi che, fosche, si addensano in cielo.
Il giudice milanese non ha ancora finito di leggere il dispositivo di una sentenza di assoluzione (eccellente) che già fioccano le interpretazioni: commentatori più o meno preparati, dopo aver saggiamente premesso di non voler entrare nel merito, esattamente quello fanno, e nella maggior parte dei casi espettorano corbellerie o vanno fuori tema. Inevitabile, quando non si conoscono le motivazioni di una decisione né l’iter argomentativo seguito dai giudicanti. D’altra parte, tre mesi per stendere una motivazione sono obiettivamente parecchi, per usare un eufemismo (poi ci si chiede come mai la giustizia italiana sia così lenta…), ed il clamoroso proscioglimento di Berlusconi ha effetti immediati: la notizia esiste, bisogna servirla ad un’opinione pubblica affamata con il contorno di chiarimenti e opinioni. Opinione non significa il delirio di chi, per motivi suoi, fa discendere da una sentenza la beatificazione di Silvio e addirittura di Ruby (chi la risarcirà per essere diventata milionaria battendo?), e per quanto riguarda i chiarimenti quelli dei tecnici sono sempre i benvenuti, perché di solito utili.
Marco Travaglio, nonostante qualche imprecisione sul nuovo articolo 319-quater del codice penale, è stato efficace come d’abitudine, ma il contributo maggiore, in termini giuridici, viene da Bruno Tinti che, non a caso, è un ex magistrato. Su La7 prima e con un articolo sul Fatto Quotidiano di domenica poi il giurista ha chiarito il senso della “formula magica”, senza peraltro rinunciare al gusto della battuta (quel “puttana era e puttana resta” smaschera l’ipocrisia di stuoli di gazzettieri in saldo). Per quanto concerne la concussione, “il fatto non sussiste”: vuol dire che, secondo la Corte d’Appello, la famosa telefonata di Berlusconi in questura non integra la fattispecie di reato, non è stata induzione. Già al primo anno di giurisprudenza si impara a distinguere – sulla carta – la violenza morale dal timore reverenziale, il c.d. metus: la prima, coartando la volontà del destinatario, provoca l’invalidità del negozio giuridico, appunto perché la scelta non è stata libera; il timore, invece, resta irrilevante, perché non determinato da un intervento esterno. In soldoni: se io cedo la mia casa al boss del quartiere perché “gentilmente” invitato a farlo la compravendita sarà annullabile, se vendo senza che ci siano state pressioni – perché non si sa mai, meglio non contrariare quella gente ecc. – cosa fatta capo ha, indipendentemente dalla convenienza dell’affare. La distinzione civilistica è applicabile anche al diritto penale: la compiacenza e lo zelo servile di un funzionario non sono imputabili al pubblico ufficiale che da essi trae vantaggio. Convincente? In astratto sì - sul tema torneremo.
Con riguardo alla prostituzione minorile, invece, “il fatto non costituisce reato”. Traduzione: il fatto è stato commesso – SB ha avuto uno o più rapporti mercenari con la santerellina – ma, come spiega il dott. Tinti, faceva difetto l’elemento soggettivo dell’illecito, cioè la coscienza della minore età della partner e la volontà di sollazzarsi con lei a pagamento. Non si può neppure parlare di “accettazione del rischio” dal momento che, all’epoca dei fatti, Ruby “mostrava almeno 25, 26 anni” (constatazione dell’ex pm). Più in generale, occorre sgombrare il campo da un equivoco derivante da scorrette contaminazioni con la disciplina della violenza sessuale su minori. Chi fa sesso con un’infraquattordicenne risponde penalmente anche se inconsapevole dell’età dell’amante, magari perché ingannato dall’aspetto fisico “maturo”: l’estrema giovinezza assurge a condizione obiettiva di punibilità (art. 44 c.p.), senza che assumano rilievo l’atteggiamento psicologico dell’autore del fatto ed il consenso della vittima.
In tema di prostituzione minorile valgono, al contrario, le regole generali in materia di colpevolezza – sono cioè necessari il dolo (art. 600-bis c.p.) o perlomeno la colpa, nel caso previsto dall’art. 602-bis, che esclude la responsabilità dell’agente solo se l’ignoranza è stata inevitabile. Peraltro, la seconda fattispecie incriminatrice venne introdotta successivamente all’affaire Ruby e di conseguenza, per il noto principio dell’irretroattività della norma penale sfavorevole, non è applicabile alla vicenda in questione. La domanda che si sono posti i giudicanti è dunque la seguente: era a conoscenza SB della minore età della prostituta con cui si intratteneva? Risulta di no, o meglio: non risulta di sì – e in dubio pro reo.
La ricostruzione di Bruno Tinti, integrata un poco da chi scrive, sembra assolutamente attendibile; meno convincente è il suo sostanziale avallo alla sentenza, giudicata “abbastanza prevedibile”. La storia del metus, infatti, mi persuade assai poco. L’affermazione secondo cui un funzionario di grado intermedio dovrebbe reagire con indifferenza alla telefonata di un Presidente del Consiglio, che lo sollecita a fare per lui qualcosa di oggettivamente indebito (trasgredire le disposizioni di un magistrato), è inattaccabile in astratto, ma tiene scarso conto della realtà. I cittadini investiti di una carica hanno il sacrosanto dovere di adempiere le funzioni pubbliche loro affidate “con disciplina e onore” (art. 54 Cost.), ma soltanto sulla carta l’Italia – e il mondo – assomigliano alla Repubblica di Platone. Dirò di più: proprio per evitare scostamenti dalla retta via e per fornire una tutela alla collettività e ai funzionari stessi è prevista normativamente la punibilità della concussione, caratterizzata dalla disparità di condizioni – e di potere – tra colpevole e vittima.
Una richiesta, presentata nel cuore della notte da una delle massime autorità del Paese, configura senz’altro una pressione cui il funzionario medio ben difficilmente è in grado di resistere, per il concreto rischio di andare incontro, nell’evenienza di un contegno fermo, a conseguenze spiacevoli (trasferimento, stop alla carriera ecc.). Incorruttibili e impavidi sono da noi merce rara, e sovente finiscono male. Si può e si deve biasimare il funzionario “cedevole”, ma vittime del reato di cui agli articoli 317 e 319-quater c.p. sono per definizione i don Abbondio, dal momento che i fra’ Cristoforo respingono sdegnati le profferte, e magari denunciano immediatamente il tentativo. Parlare di metus è quindi fuorviante: l’ipotesi ricorrerebbe se il dirigente della questura, venuto a conoscenza per altre vie delle frequentazioni della signorina, si fosse attivato autonomamente con l’intento di ingraziarsi il premier. Il dato della telefonata, tuttavia, esclude che le cose siano andate in questa maniera, e d’altra parte nessuno ha contestato a SB di aver “costretto” tale Ostuni a consegnare la ragazza alla Minetti anziché spedirla ai servizi sociali. In lingua italiana indurre significa “spingere o persuadere qualcuno a fare qualcosa” (Dizionario Sabatini Coletti), senza violenza né minaccia, e che il funzionario sia stato “spinto o persuaso” appare indubitabile.
Neppure la modifica legislativa introdotta dalla Legge Severino (la 190/2012, c.d. anticorruzione) ha alterato il quadro. E’ certo assurdo – o, per meglio dire, sospetto – che la concussione per induzione sia stata retrocessa quasi a reato minore, punito meno severamente della corruzione (!), ma, pena a parte, la fattispecie descritta nell’art. 319-quater (“Induzione indebita a dare o promettere utilità”) è ricalcata sulla precedente: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni.” Contrariamente a quanto affermato a caldo da Travaglio (errare humanum est, il resto della sua analisi era ineccepibile), la famosa “altra utilità” è sopravvissuta al maquillage normativo, e quindi la riscrittura non ha avuto effetti sostanziali sulla decisione dei giudici d’appello. L’abuso non lo nega nessuno; chiave di volta dell’assoluzione sarebbe il metus, sul quale si impernia un’interpretazione di fatto abrogatrice dell’articolo introdotto dalla Severino: in mancanza di un’induzione “fortissima” (cioè una costrizione!) non sarebbe perfezionabile il reato.
Attenzione: le conclusioni da me proposte sono ipotetiche, perché fondate, come premesso, sulla brillante ricostruzione del dott. Tinti. Per una valutazione più precisa sarà indispensabile disporre delle motivazioni (toccherà attendere tre mesi…), che potrebbero anche riservarci qualche sorpresa: non sempre le sentenze sono del tutto “logiche”.
Considerazioni metagiuridiche: senza ipotizzare inverosimili complotti od accordi dietro le quinte, è ragionevole figurarsi un collegio giudicante influenzato/contagiato da un’atmosfera politico-mediatica sensibilmente mutata rispetto ad un anno fa. L’ex puttaniere è oggi trattato, dai suoi “avversari”, come un Padre Costituente, di una possibile grazia si discute con scetticismo ma senza troppo accanimento, Berlusconi medesimo pare aver appreso l’arte della diplomazia. Una sua definitiva uscita di scena non era forse, in questa fase, auspicabile (per chi ci comanda)… circostanza, questa, che di sicuro non ha pregnanza giuridica, e dunque - in una società ideale – non interferirebbe con il coscienzioso lavoro della magistratura. Sta di fatto, però, che le presunte “bocche della legge” sono, a somiglianza dei funzionari pubblici di alto e basso rango, uomini in carne ed ossa - con le stesse debolezze, simpatie e ambizioni personali di noi tutti. In fondo, abbiamo misurato la moralità della nostra classe dirigente (per conto altrui) il giorno in cui i parlamentari dello schieramento berlusconiano hanno ufficialmente dichiarato il loro dominus un credulone capace di farsi raggirare da una mocciosa. In quell’occasione non ci fu induzione né il fantomatico metus, ma solo una spudorata dimostrazione di opportunismo. La dignità, uno non se la può dare…
Quel che è certo è che questa sentenza - neppure definitiva - non altera il giudizio storico su Berlusconi e sulle sue tante malefatte: prova semmai che la persecuzione giudiziaria ai suoi danni è una fanfaluca. Con buona pace dei Ferrara, non è moralismo ricordare i discutibili meriti “politici” della consigliera Minetti, pagata da noi; ma, al contempo, sarebbe da ingenui – o da furboni - addossare la degenerazione del Paese, della morale e dei partiti ad un singolo uomo.
Più che sulle colpe e sulle beghe di Silvio sarebbe opportuno, oggi, concentrare l’attenzione sulle aberrazioni di un sistema che non ha bisogno di un Behemot brianzolo per essere infernale.
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