la volpe e le galline
di
Norberto Fragiacomo
Matteo Renzi è davvero più pericoloso dei suoi predecessori,
Monti compreso?
La domanda è abbastanza oziosa, per una varietà di ragioni. Anzitutto
perché, in assenza di termini di paragone obiettivi (Mario e la sua Empy sono ormai
consegnati agli annali, il fiorentino è appena agli esordi), si rischia di
rispondere emotivamente – ed è cosa nota che i timori e le sofferenze presenti sbiadiscono
i patemi passati, proprio perché lontani nel tempo, non più attuali. E’ irragionevole
aver paura di ciò che è già capitato; pensiamo a quanti adulti ridano
scioccamente delle proprie “tragedie” infantili, senza considerare che, a otto
anni, un brutto voto a scuola e la sottrazione di un giocattolo possono costituire
un autentico dramma. Tuttavia, non sono soltanto la psicologia umana e la
carenza di dati affidabili a rendere difficile il confronto: a ben vedere,
Renzi è la prosecuzione del professor
Monti, perché ricopre il medesimo ruolo e si propone gli stessi scopi. Non mi
riferisco alla carica di Presidente del Consiglio, ma per l’appunto al ruolo, al
compito di “privatizzazione integrale” della società che ai due personaggi è
stato assegnato. Da chi? Dal gotha della grande finanza multinazionale, cui il
bocconiano appartiene di diritto ed alla quale l’ambiziosissimo Matteo ha
venduto furbescamente i suoi servigi.
Malgrado le differenze esteriori, Monti, Letta e Renzi ci
appaiono come tre tecnici incaricati di attuare l’unica politica permessa dalle
troike, quella di spogliare i poveri per dare ai (veramente) ricchi. Ma
Berlusconi – direte – non faceva altrettanto? Sì, innegabilmente… ma lo faceva
“male”, perché troppo condizionato dai propri personali interessi e perché lui
stesso espressione dei medi e medio-grandi imprenditori del nord (a quelli
piccoli e piccolissimi pensava la Lega), che all’estero ci vanno solo per
delocalizzare. Un outsider, insomma, schierato a difesa di una cricca perdente.
Certo, Matteo ha alcuni vantaggi competitivi rispetto ai
predecessori, come lui sostenuti acriticamente dai media istituzionali. Facile
elencarli: è giovane (e sull’anagrafe ha costruito il suo personaggio, curando
di sembrare più esuberante, spontaneo e casual di quanto non sia), bravo a
coniare slogan, estremamente veloce e aggressivo. Per usare una metafora
calcistica, non lascia giocare gli avversari. Inoltre, da buon allievo di
Berlusconi, se ne frega della realtà, rimescolando continuamente le carte (vedi la vicenda del DL 90) in base alle convenienze.
Illuminante è il rapporto con l’Europa, cioè con le lobby che la
gestiscono. Il fiorentino millantava, alla vigilia del semestre europeo, che “battendo
i pugni sul tavolo” dalla UE avrebbe ottenuto parecchio. Le sue richieste, in
verità assai sommesse, sono state invece respinte: nessuna attenuazione delle
misure di austerità per l’Italia, hanno ribattuto in coro euroburocrati di
prima, seconda e terza fascia (persino il rappresentante dell’irrilevante
Estonia è stato tranchant). Renzi allora, senza neppure consultarsi con Padoan,
ha estratto dal cilindro un peluche: consentiteci almeno di escludere dal Patto
di stabilità gli investimenti digitali! Prima di rispondere – di nuovo –
picche, i tecnocrati devono aver sbarrato gli occhi: ma di che sciocchezze
ciancia costui? Sottrarre ai vincoli un settore di così scarso rilievo pare una
mattana (è come se un bimbo proponesse al genitore: visto che non mi compri il
ghiacciolo, posso avere almeno lo stecco?), ma a ben vedere l’uscita risponde
ad una logica tipicamente renziana.
La “volpe del Chianti” (copyright F.
Maltinti…e non ce ne voglia il nobile vino!) ha edificato il suo 41% su parole
d’ordine ossessivamente ripetute, e “digitalizzazione” è una di queste:
sostituendo il pc agli uffici egli vuol far credere agli italiani che sia possibile
curare con un colpo di bacchetta magica i presunti mali della pubblica
amministrazione. Trattasi di scemenza (se un correntista ha un problema col suo
conto va in sede, mica scrive una mail!), ma di scemenza “tecnologica”, e
perciò accattivante – destinata, in sostanza, al mercato politico nazionale.
Invero, gli insuccessi europei di Renzi non paiono, al momento, penalizzarlo:
commentatori e militanti critici del PD stigmatizzano la durezza della UE e, al
contempo, giustificano il premier, che avrebbe “fatto il possibile, ma quelli
non ascoltano”. La spiegazione è, secondo me, abbastanza diversa: anche la
campagna d’Europa è ad uso interno. Avesse inteso realmente “battere i pugni”
Renzi avrebbe messo sul fatidico tavolo il finanziamento italiano all’Unione:
attenti, se non ci venite incontro potremmo sospendere la contribuzione. Non è
proprio una minaccia da prendere sottogamba: secondo i dati pubblicati dal
Censis (http://www.censis.it/7?shadow_comunicato_stampa=120951),
l’Italia è il terzo contribuente netto dell’UE, con 16,4 miliardi versati nel
2012, pari al 12% del budget annuale dell’Unione (140 miliardi). Il saldo
passivo, continua il Centro Studi, ammonta a 5,7 miliardi (2012): è dunque
piuttosto evidente che una moratoria sui pagamenti metterebbe in crisi le
istituzioni comunitarie. Un ricatto? Può darsi, ma i pugni non si sbattono con
gentilezza. In ogni caso, una simile ipotesi non è stata manco presa in
considerazione: Matteo Renzi era conscio fin dal principio che la cosiddetta trattativa
europea sarebbe stata un gioco delle parti, una messinscena propagandistica. Riposti
nella manica asso, tre e figure, il premier ha optato per la briscolina del
semestre europeo – rituale senza contenuti, argomento privo di sostanza – per
poi spacciare agli italiani il bluff per un ardimentoso tentativo. Non solo: il
diniego ricevuto, se da un lato scarica tutte la responsabilità delle strette
future sulla UE “troppo severa”, dall’altro rafforza, anziché indebolire,
l’esigenza di “riforme”. Il messaggio all’elettorato è suadente, insidioso: cari
italiani, io ce l’ho messa tutta, ma a causa dei malgoverni passati, del debito
pubblico insostenibile ecc. i nostri partner sono un po’ prevenuti verso di noi.
C’è un solo modo per guadagnarci la loro fiducia: seguitemi sulla strada delle
riforme, mostriamo loro di cosa siamo capaci e, in premio, otterremo
flessibilità, benevolenza e medaglie! Ex
malo bonum, ma soltanto per Renzi. Il volpino, infatti, non ce la racconta
giusta: l’attuazione delle c.d. riforme non determinerà un cambio di
atteggiamento della UE nei nostri confronti, visto che il loro effetto sarà
proprio la stabilizzazione dell’austerità, intesa come privatizzazione del
welfare, ripudio delle finalità sociali da parte dello Stato (istruzione,
sanità, assistenza e previdenza sociale), “normalizzazione” della democrazia
attraverso il taglio di enti ed organi rappresentativi e cancellazione di ogni
tutela giuslavoristica.
Per ottenere questi risultati il fiorentino, a somiglianza dei
predecessori, adopera tecniche di manipolazione ben note agli psicologi: a
differenza di Bersani, che infarciva i suoi discorsi di deprimenti “non”, lui si
esprime sempre in positivo, riservando le negazioni a chi si azzarda a
contraddirlo. Anche se c’è da cambiare una virgola, si spaccia la modifica per
“riforma”, perché il termine suscita, in chi ascolta, un’istintiva reazione
favorevole, mentre (ad esempio) la parola “conservatore” designa
nell’immaginario italiano una persona vecchia, sgradevole, aggrappata ai propri
privilegi – come il segretario comunale che, a detta di Renzi, “guadagna già
abbastanza”.
Si può intravvedere il progetto complessivo del nostro (cioè
dell’elite che l’ha imposto) leggendo uno di seguito all’altro i suoi
strombazzati – e sgangherati – testi di “riforma”: la logica che tutti li
informa è quella dell’arretramento del pubblico e della contemporanea,
incontenibile avanzata del privato. Il DDL sulla P.A. è rivoluzionario sul
serio, perché mira – attraverso il ridimensionamento dei controlli, la fuga dal
concorso pubblico ed il pieno assoggettamento della dirigenza alla politica – a
creare in vitro un clone della Public
Administration anglosassone, “leggera”, non professionalizzata (da qui l’esigenza
dello Spoils system, incompatibile con l’articolo 97 della nostra Costituzione)
e quindi perfetta per le esigenze di uno Stato che preveda di occuparsi dei
soli fini essenziali – giustizia, ordine pubblico, difesa e poco altro. Questa
tessera si incastra perfettamente con quelle del Jobs act (=precarizzazione
universale del lavoro privato), della riforma costituzionale (=monocameralismo,
premierato forte e smantellamento degli enti intermedi), della legge elettorale
(=garanzia di governabilità, cancellazione della rappresentanza) e persino
degli 80 euro (=beneficio revocabile, non riconoscimento di un diritto), componendo
un’immagine ben riconoscibile: quella di una società ottocentesca divisa in
caste, frazione di una comunità estesa all’intero pianeta e governata dal
Capitale. “I confini scellerati /
cancelliam dagli emisferi”, ma le catene – purtroppo – non ce le toglie
nessuno.
Siamo di fronte ad un disegno genuinamente reazionario, di destra estrema, che Matteo Renzi
immagina di portare a compimento con il chiassoso avallo di masse inconsapevoli,
vocianti e plagiate da slogan a getto continuo. Insomma, una volpe che ubriaca
le galline per papparsele a piacimento.
Nulla di particolarmente nuovo: come anticipato, ritengo l’esperienza
renziana una continuazione del montismo con altri mezzi (e altre facce, più
telegeniche), o piuttosto una sua fase ulteriore. Questo però ci ricorda che il
traguardo è pericolosamente vicino, che il tempo sta scadendo. In simili
situazioni gli appelli cadono generalmente nel vuoto, ma su un punto voglio
insistere: sostituibile come ogni altro essere umano, Matteo Renzi rappresenta,
qui e ora, l’incarnazione della volontà dei centri di potere neoliberista e dei
bisogni del Capitale.
Va pertanto combattuto a viso aperto, assieme all’organizzazione
che lo supporta. Considerare i caporioni del PD “compagni che sbagliano” è un
errore imperdonabile, smascherarne la condotta una necessità, stringere
alleanze contro di loro indispensabile – a qualsiasi livello, e ad ogni costo.
Impresa disperata? Forse… ma oltre alla faciloneria il fiorentino ha un secondo
tallone d’Achille: l’irritabilità. Da politicante spregiudicato qual è
stringerebbe le mani, in piazza, anche alle statue - se viene sfidato, però, s’innervosisce:
un aumento di volume della contestazione potrebbe magari spingerlo a qualche mossa
azzardata. Magari.
Come disse quel tale, rivolto a Herr Liebknecht? Ah sì, dixi
et salvavi ecc. ecc.
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