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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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venerdì 26 settembre 2014

EUROPA, UE E STATO NAZIONALE: UN INTERPRETAZIONE AUTENTICA DEL MIO PENSIERO di Norberto Fragiacomo





Europa, ue e stato nazionale: un’interpretazione autentica del mio pensiero
di
Norberto Fragiacomo



Nota introduttiva e chiarificatrice (non ne seguiranno altre, promesso): in questa riflessione non mi soffermerò sull’euro.
Di recente, una carissima e valente compagna mi ha espresso telefonicamente delle perplessità su alcune mie posizioni in materia di Europa, Unione Europea e sovranismo. Mi è parso di capire che le trovi contraddittorie. Da sofista, ecco. Nessun reato di lesa maestà: sono un comune essere umano, privo del senso logico del signor Spock; sotto altro profilo (o, forse, di conseguenza) non pretendo di essere sempre chiaro quando, spronato dagli avvenimenti, espongo le mie idee. Mi accingo quindi ad un doveroso sforzo di precisazione e sintesi.
Prima che la telefonata bruscamente si interrompesse (per motivi tecnici), avevo cercato di fissare alcuni punti: ripartirò da questi, non prima di aver proposto uno schematico riassunto delle puntate precedenti. Dunque: non credo che l’Unione Europea sia riformabile in senso socialista e/o democratico, così come una jeep non può essere riattata ad auto da corsa, un cavallo da tiro a sprinter e un casinò a basilica. Ritengo che l’equazione UE=Europa sia un falso grossolano, al pari – ad esempio – di mafia=Sicilia. Penso – ancora - che la nostalgia per lo Stato nazionale (sottolineo: nazionale) sia perniciosa e antistorica, pur restando persuaso che le forze sovraniste che si proclamano di sinistra siano genuinamente tali, oltre che più vivaci e meno inclini all’automummificazione rispetto ad altre formazioni politiche della c.d. estrema. Un appunto sulla parola “euroscettico”, da me adoperata in una pubblicazione: la sua ambiguità deriva dal fatto di essere, come molti termini “colonizzati” dal discorso politico, un’anfibologia: può significare sia ostile all’idea di una koinè europea (non è evidentemente il mio caso!), che avverso alla UE (lo è, come detto) o – più semplicemente – contrario alla moneta unica (se si vuole l’Unione ma non l’euro si è molto, ma molto confusi, oppure si è padroni).


Iniziamo proprio dall’Europa. Per numerosi attivisti e pensatori si tratta, alla Metternich, di “un’espressione geografica”. La Storia ed io siamo di avviso diverso: l’Europa esiste – o perlomeno è esistita a lungo – nella coscienza dei suoi abitanti. Da quando? Potremmo risalire ad Erodoto e all’Impero Romano, ma io preferisco scrutare nella presunta oscurità del medioevo. La rinascita dell’Impero, ad opera di Carlo Magno e poi – più stabilmente – della dinastia ottoniana (battaglia di Lechfeld/955 d.C.), determina lo smantellamento della barriera – naturale, politica e psicologica – che separava l’elemento germanico (rectius: il mondo germanico) da quello latino. In precedenza, generosi tentativi di amalgama – come quello del grande re goto Totila – non avevano prodotto effetti durevoli: anche dove costrette a convivere, come in Italia, le due etnie rimanevano estranee l’una all’altra. Con l’alleanza fra le elite mediterranee e d’oltralpe - impersonata dalla sventurata e nobilissima figura di Ottone III - sotto l’egida del Papa cristiano si creano pure le condizioni per l’accoglimento di altre stirpi, prima fra tutte la slava (nascita, nel X secolo, del regno cristiano di Polonia, ma anche conversione dell’Ungheria sotto S. Stefano). Da allora la storia è condivisa, malgrado le guerre che per secoli insanguineranno ogni lembo del continente (anche del mondo, se è per quello): le università medievali attirano studenti di ogni nazione, così come le crociate mescolano lingue ed eserciti; polacchi e italiani, tedeschi e inglesi, nordici e francesi comunicano fra loro in latino, lingua veicolare; al pari dei pellegrini e dei poeti, i pittori si spingono ovunque, e si sviluppano stili artistici uniformi (es.: il gotico internazionale, il petrarchismo nelle lettere) mentre i nobili riconoscono un surrogato di patria nella comune appartenenza alla cavalleria. La appellano Cristianità, ma è l’Europa: quando appaiono i mongoli, prima della metà del ‘200, nelle chiese si prega per la sopravvivenza del popolo di Dio – i nostri avi. Una coscienza d’elite, si dirà – agevole ribattere che, fino all’irrompere sulla scena del Socialismo, non ce ne sarà altra a disposizione. Comunque si viaggia (su strade impraticabili), si commercia, si disputa: pensate, a mo’ di esempio, all’abbazia de “Il nome della rosa”, che accoglie monaci e visitatori delle più diverse provenienze (Bencio è danese, Guglielmo inglese, Adso austriaco, Ubertino italiano ecc.). Non esiste uno Stato: il Sacro Romano Impero della Nazione Germanica non lo è – anzi, in antitesi storica ad esso andranno formandosi, alla fine del medioevo, le monarchie nazionali, ma trattasi di dato squisitamente politico, che non provoca alcun allentamento dei legami socio-economici e culturali sussistenti. Visto che non sto scrivendo un saggio, salto direttamente all’Ottocento: la solidarietà fra europei e la consapevolezza dell’origine comune (non certo un vago, evanescente “spirito liberale”!) spingono frotte di generosi ad immolarsi per l’indipendenza della Grecia; più tardi, ovunque si combatta per la libertà dall’oppressione ritroveremo polacchi, italiani, inglesi. Europei scesi in lotta per salvare o difenderne altri (chissà perché, a parte Garibaldi che si batte per i loro discendenti in Sudamerica, nessuno dimostra particolare sensibilità per la sorte di genti estranee all’Europa).
La mala bestia del nazionalismo ha per incubatrice il mondo della seconda rivoluzione industriale, che determina l’emergere di nuove ed aggressive potenze. La posta in gioco è l’orbe terracqueo: l’imperialismo irreggimenta i popoli, li pone a confronto, esalta – per propria esclusiva convenienza – differenze e “superiorità” razziali. Gobineau e Chamberlain sono sovrastruttura necessaria, gli irredentismi conseguenza e “giustificazione” della fame di terre. Mi rendo conto di tagliare la Storia con l’accetta, ma il vilipendio è purtroppo obbligato: sto redigendo un promemoria, non una tesi. Imperialismo e nazionalismo porteranno a due guerre devastanti, al termine delle quali l’Europa si risveglierà periferia politica, ma polmone economico: un fertile campo da arare. E’ a questo punto che viene concepita la CEE che, poi, con la caduta dell’URSS completerà una metamorfosi già iniziata negli anni ’70, assurgendo a strumento principe delle lobby economiche, luogo di mediazione fra gli interessi dell’elite sovranazionale e della grande borghesia produttiva dei Paesi più forti (oltre che, naturalmente, paravento della NATO). L’unica ricaduta positiva è stata un riavvicinamento fra diversi popoli e culture (ma programmi come Erasmus e Socrates impallidiscono di fronte all’esperienza unica dell’«universitarismo» medievale), che la crisi pilotata ha già messo a repentaglio.
La UE è una quinta da abbattere, ma il castello europeo, pur avvolto nelle brume, esiste ancora, e fino a un secolo e mezzo fa è stato abitabile.

Trattiamo ora – sempre in pillole - di sovranismo e Stato nazionale. Certi pensatori contemporanei riconoscono in quest’entità l’unico possibile antidoto alla globalizzazione neoliberista, una sorta di rifugio antiatomico idoneo a preservare la vita sociale nell’era del Fiscal compact, del TTIP e della brutalizzazione di ogni diritto di cittadinanza. Marxianamente si potrebbe obiettare che trattasi di visione luddista/cobbettiana: se il Capitale sta attuando una rivoluzione (liberista, ma pur sempre rivoluzione), aggrapparsi ad un ente in via di estinzione sarebbe da reazionari. Semplificando troppo la dinamica tesi (Stato) – antitesi (Globalizzazione) si farebbe però torto al pensatore di Treviri: la Storia non procede di stazione in stazione come un treno, vincolato da orari e rotaie - e in fin dei conti la “resistenza” della tesi al suo superamento potrebbe agevolare una feconda sintesi (la trasformazione in senso socialista della società).
Altri sono i motivi che mi rendono scettico. Uno è di natura, per così, dire personale. Abbiamo tutti appreso che la coscienza è frutto delle condizioni materiali, e non viceversa – per quanto mi riguarda sono nato e vissuto in una città di confine, ai margini della penisola italiana. Trieste ha patito il Novecento più di Firenze o Bari: “questione nazionale” fra italiani e sloveni in una città divisa, crollo rovinoso dell’Austria e dell’economia cittadina, legata all’Impero (v. “Irredentismo adriatico” di Angelo Vivante), affermarsi del famigerato fascismo di frontiera, spietata persecuzione degli sloveni, guerra ed occupazioni, rivincita slava - con la risposta delle foibe - e parentesi dei 40 giorni, governo militare alleato, ritorno all’Italia e definitiva distruzione del tessuto produttivo locale. Gabrio De Szombathely, fiero patriota ad onta del cognome inequivocabilmente ungherese, ha compendiato 40 anni nel libro “A Trieste sotto 7 bandiere”, che merita attenta lettura. Questi fatti, insieme alla composizione etnica mista (della mescolanza fra sangue italiano, tedesco e slavo parlava – non a vanvera – il meraviglioso Adolfo Leghissa in “Un triestino alla ventura”), hanno prodotto due reazioni di massima, opposte e complementari: un patriottismo quasi rabbioso (presente anche in autentici uomini di sinistra, va riconosciuto) e una sfiducia, se non una profonda avversione nei confronti dello Stato Italiano, artefice della rovina giuliana e, prima ancora, responsabile di una tremenda lacerazione tra le due anime “etniche” della cittadinanza, pacificamente convissute per secoli. Chi – come me, lo ammetto senza reticenze – rimprovera alla classe dirigente italica le sue colpe storiche guarda all’Europa (più specificamente, alla Mitteleuropa) come a una seconda patria, a un altrove in cui “sentirsi a casa”. Dirò una banalità: il fatto che in Polonia si rivolgano a me in polacco e a Roma in inglese rafforza, in qualche maniera, questo pensarmi “altro”. Poco marxista? Quasi sicuramente: ma siamo uomini con un vissuto e con delle contraddizioni, non personaggi di un romanzo apologetico.
La seconda ragione è meno soggettiva, nel senso che dovrebbe interessare l’analista, più che lo psicanalista (che, guarda caso, a Trieste è una figura con dignità letteraria). L’ho ripetuto mille volte: uno Stato che volesse andare per la sua strada e sottrarsi al flusso del Capitale incontrerebbe ostacoli formidabili. Una rivoluzione anche semplicemente democratica, nell’età del Capitalismo globalizzato, sarebbe vista e trattata – dall’elite giudicante – come un crimine imperdonabile. Ce lo racconta la cronaca: chiunque oggi voglia fare di testa sua viene schiacciato o destabilizzato. Il Capitale ha un arsenale vastissimo, in cui trovano posto armi nucleari, convenzionali e non convenzionali (dal golpe alle sanzioni, dallo spread alla squalifica mediatica). Se un Paese europeo si chiamasse fuori, sarebbe immantinente iscritto alla lista dei c.d. “Stati canaglia” (lista redatta dalla canaglia peggiore, cioè gli USA), universalmente demonizzato e infine punito. Pessimismo cosmico? Nossignori: realismo che tiene conto di svariati eventi del presente e del passato. Perché allora, a differenza dell’Ungheria di Bela Kun e, nell’immediato dopoguerra, della Grecia, l’URSS di Lenin si salvò? Perché chi aveva steso il “cordone sanitario” disponeva di eserciti dissanguati dalla guerra mondiale, e soprattutto perché la Russia è uno strano ircocervo: uno Stato delle dimensioni di un continente, sostanzialmente imprendibile e provvisto di risorse materiali inesauribili. Lenin, però, non era un sovranista: riteneva che la Rivoluzione sovietica fosse la miccia destinata a far deflagrare la Germania e l’Europa.
Ora, il punto è questo: come è stato autorevolmente detto, chi aspetta per muoversi il miracolo di un’insurrezione globale non è un rivoluzionario, è un sognatore. Oblomov non farà mai la Rivoluzione, socialista o democratica che sia. Allo stato dei fatti, un moto potrebbe scoppiare in una qualsiasi zona del continente o, al limite, in territori fra loro lontani: per questo, un’attività propiziatoria a livello nazionale ed anche locale è indispensabile. Se però si vuole che l’ipotetica fiammella si estenda fino a diventare incendio è necessario uno stretto collegamento sovranazionale: un’Internazionale di nuovo conio che sappia elaborare un linguaggio comune e coordinare le forze disposte alla lotta. Questo consesso non potrà decidere né programmare tutto: solo un ubriaco potrebbe immaginare che fracando botòn in una stanza chiusa salti macaco (cioè la Rivoluzione prenda magicamente il via). Senza una persona capace alla guida, tuttavia, la macchina va a sbattere: qualsiasi successo locale avrebbe vita effimera, anche perché un ipotetico governo popolare si troverebbe a prendere decisioni capitali in mezzo al caos di una fortezza assediata. Uno Stato-continente, invece, avrebbe chance di sopravvivenza.
Per questo mi permetto di dire: un ritorno allo Stato nazionale potrebbe al più costituire una soluzione ponte, una fase di passaggio all’interno di un quadro sovranazionale in rapida trasformazione. O la sollevazione – per quanto non simultanea – sarà generale, o il suo destino è fin d’ora segnato: gli incendi circoscritti si domano facilmente. Attenzione: il Superstato europeo è un’opzione fra tante, le possibili forme aggregative sono varie (ad es. una Confederazione). Quella che ritengo imprescindibile è l’unità di intenti e – mi ripeterò fino alla nausea, dei pazienti lettori e mia – un coordinamento fra forze operanti all’interno di un orizzonte comune.
Concludo con una similitudine che mi auguro calzante, pur sapendola storicamente scorretta (visto che le condizioni di partenza sono diversissime). Nel 1917 la Russia aveva tre strade davanti: poteva sopravvivere come Impero zarista (oggi: l’Europa potrebbe restare feudo capitalista); poteva frantumarsi in diverse entità (oggi: ogni Stato nazionale potrebbe andare per conto suo), e rischiò in effetti di andare incontro a questa sorte; poteva costituirsi in Unione Sovietica, nel pieno riconoscimento – voluto da Lenin – della pari dignità fra le diverse etnie (oggi: potrebbe forgiarsi, nella lotta, un’Europa dei popoli, sufficientemente coesa e avviata verso il Socialismo).
Per quanto mi riguarda scelgo la terza opzione, pur consapevole che non saranno le preferenze personali del sottoscritto a determinare il corso della Storia futura – e confermando la mia piena disponibilità a collaborare con chiunque, sovranista o meno, si proponga di rovesciare questo sistema iniquo, assolutamente irriformabile e lanciato verso la (nostra) catastrofe.
Avvertenza ai critici, che non mancheranno: ho tentato, su richiesta, di schematizzare il mio pensiero su un tema fin troppo incandescente, senza illudermi che nelle mie tasche vuote si nasconda la “Verità”. D’altra parte: Quid est veritas?



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