Europa,
ue e stato nazionale: un’interpretazione autentica del mio pensiero
di
Norberto Fragiacomo
Nota
introduttiva e chiarificatrice (non ne seguiranno altre, promesso): in questa
riflessione non mi soffermerò sull’euro.
Di recente, una
carissima e valente compagna mi ha espresso telefonicamente delle perplessità
su alcune mie posizioni in materia di Europa, Unione Europea e sovranismo. Mi è
parso di capire che le trovi contraddittorie. Da sofista, ecco. Nessun reato di
lesa maestà: sono un comune essere umano, privo del senso logico del signor
Spock; sotto altro profilo (o, forse, di conseguenza) non pretendo di essere
sempre chiaro quando, spronato dagli avvenimenti, espongo le mie idee. Mi
accingo quindi ad un doveroso sforzo di precisazione e sintesi.
Prima che la
telefonata bruscamente si interrompesse (per motivi tecnici), avevo cercato di
fissare alcuni punti: ripartirò da questi, non prima di aver proposto uno
schematico riassunto delle puntate precedenti. Dunque: non credo che l’Unione
Europea sia riformabile in senso socialista e/o democratico, così come una jeep
non può essere riattata ad auto da corsa, un cavallo da tiro a sprinter e un
casinò a basilica. Ritengo che l’equazione UE=Europa sia un falso grossolano,
al pari – ad esempio – di mafia=Sicilia. Penso – ancora - che la nostalgia per
lo Stato nazionale (sottolineo: nazionale)
sia perniciosa e antistorica, pur restando persuaso che le forze sovraniste che
si proclamano di sinistra siano genuinamente tali, oltre che più vivaci e meno
inclini all’automummificazione rispetto ad altre formazioni politiche della
c.d. estrema. Un appunto sulla parola “euroscettico”, da me adoperata in una
pubblicazione: la sua ambiguità deriva dal fatto di essere, come molti termini “colonizzati”
dal discorso politico, un’anfibologia: può significare sia ostile all’idea di una koinè europea (non è evidentemente il mio
caso!), che avverso alla UE (lo è,
come detto) o – più semplicemente – contrario
alla moneta unica (se si vuole l’Unione ma non l’euro si è molto, ma molto
confusi, oppure si è padroni).
Iniziamo proprio
dall’Europa. Per numerosi attivisti e pensatori si tratta, alla Metternich, di
“un’espressione geografica”. La Storia ed io siamo di avviso diverso: l’Europa
esiste – o perlomeno è esistita a lungo – nella coscienza dei suoi abitanti. Da
quando? Potremmo risalire ad Erodoto e all’Impero Romano, ma io preferisco
scrutare nella presunta oscurità del medioevo. La rinascita dell’Impero, ad
opera di Carlo Magno e poi – più stabilmente – della dinastia ottoniana
(battaglia di Lechfeld/955 d.C.), determina lo smantellamento della barriera –
naturale, politica e psicologica – che separava l’elemento germanico (rectius: il mondo germanico) da quello
latino. In precedenza, generosi tentativi di amalgama – come quello del grande
re goto Totila – non avevano prodotto effetti durevoli: anche dove costrette a
convivere, come in Italia, le due etnie rimanevano estranee l’una all’altra.
Con l’alleanza fra le elite mediterranee e d’oltralpe - impersonata dalla sventurata
e nobilissima figura di Ottone III - sotto l’egida del Papa cristiano si creano
pure le condizioni per l’accoglimento di altre stirpi, prima fra tutte la slava
(nascita, nel X secolo, del regno cristiano di Polonia, ma anche conversione
dell’Ungheria sotto S. Stefano). Da allora la storia è condivisa, malgrado le
guerre che per secoli insanguineranno ogni lembo del continente (anche del
mondo, se è per quello): le università medievali attirano studenti di ogni
nazione, così come le crociate mescolano lingue ed eserciti; polacchi e
italiani, tedeschi e inglesi, nordici e francesi comunicano fra loro in latino,
lingua veicolare; al pari dei pellegrini e dei poeti, i pittori si spingono
ovunque, e si sviluppano stili artistici uniformi (es.: il gotico internazionale,
il petrarchismo nelle lettere) mentre i nobili riconoscono un surrogato di
patria nella comune appartenenza alla cavalleria. La appellano Cristianità, ma
è l’Europa: quando appaiono i mongoli, prima della metà del ‘200, nelle chiese
si prega per la sopravvivenza del popolo di Dio – i nostri avi. Una coscienza
d’elite, si dirà – agevole ribattere che, fino all’irrompere sulla scena del
Socialismo, non ce ne sarà altra a disposizione. Comunque si viaggia (su strade
impraticabili), si commercia, si disputa: pensate, a mo’ di esempio,
all’abbazia de “Il nome della rosa”, che accoglie monaci e visitatori delle più
diverse provenienze (Bencio è danese, Guglielmo inglese, Adso austriaco,
Ubertino italiano ecc.). Non esiste uno Stato: il Sacro Romano Impero della
Nazione Germanica non lo è – anzi, in antitesi storica ad esso andranno
formandosi, alla fine del medioevo, le monarchie nazionali, ma trattasi di dato
squisitamente politico, che non provoca alcun allentamento dei legami socio-economici
e culturali sussistenti. Visto che non sto scrivendo un saggio, salto
direttamente all’Ottocento: la solidarietà fra europei e la consapevolezza dell’origine
comune (non certo un vago, evanescente “spirito liberale”!) spingono frotte di
generosi ad immolarsi per l’indipendenza della Grecia; più tardi, ovunque si
combatta per la libertà dall’oppressione ritroveremo polacchi, italiani,
inglesi. Europei scesi in lotta per
salvare o difenderne altri (chissà perché, a parte Garibaldi che si batte per i
loro discendenti in Sudamerica, nessuno dimostra particolare sensibilità per la
sorte di genti estranee all’Europa).
La mala bestia
del nazionalismo ha per incubatrice il mondo della seconda rivoluzione
industriale, che determina l’emergere di nuove ed aggressive potenze. La posta
in gioco è l’orbe terracqueo: l’imperialismo irreggimenta i popoli, li pone a
confronto, esalta – per propria esclusiva convenienza – differenze e
“superiorità” razziali. Gobineau e Chamberlain sono sovrastruttura necessaria,
gli irredentismi conseguenza e “giustificazione” della fame di terre. Mi rendo
conto di tagliare la Storia con l’accetta, ma il vilipendio è purtroppo
obbligato: sto redigendo un promemoria, non una tesi. Imperialismo e
nazionalismo porteranno a due guerre devastanti, al termine delle quali
l’Europa si risveglierà periferia politica, ma polmone economico: un fertile
campo da arare. E’ a questo punto che viene concepita la CEE che, poi, con la
caduta dell’URSS completerà una metamorfosi già iniziata negli anni ’70,
assurgendo a strumento principe delle lobby economiche, luogo di mediazione fra
gli interessi dell’elite sovranazionale e della grande borghesia produttiva dei
Paesi più forti (oltre che, naturalmente, paravento della NATO). L’unica
ricaduta positiva è stata un riavvicinamento fra diversi popoli e culture (ma
programmi come Erasmus e Socrates impallidiscono di fronte all’esperienza unica
dell’«universitarismo» medievale), che la crisi pilotata ha già messo a
repentaglio.
La UE è una
quinta da abbattere, ma il castello europeo, pur avvolto nelle brume, esiste
ancora, e fino a un secolo e mezzo fa è stato abitabile.
Trattiamo ora –
sempre in pillole - di sovranismo e Stato nazionale. Certi pensatori
contemporanei riconoscono in quest’entità l’unico possibile antidoto alla globalizzazione
neoliberista, una sorta di rifugio antiatomico idoneo a preservare la vita
sociale nell’era del Fiscal compact, del TTIP e della brutalizzazione di ogni
diritto di cittadinanza. Marxianamente si potrebbe obiettare che trattasi di
visione luddista/cobbettiana: se il Capitale sta attuando una rivoluzione
(liberista, ma pur sempre rivoluzione), aggrapparsi ad un ente in via di
estinzione sarebbe da reazionari. Semplificando troppo la dinamica tesi (Stato)
– antitesi (Globalizzazione) si farebbe però torto al pensatore di Treviri: la
Storia non procede di stazione in stazione come un treno, vincolato da orari e
rotaie - e in fin dei conti la “resistenza” della tesi al suo superamento potrebbe
agevolare una feconda sintesi (la
trasformazione in senso socialista della società).
Altri sono i motivi
che mi rendono scettico. Uno è di natura, per così, dire personale. Abbiamo
tutti appreso che la coscienza è frutto delle condizioni materiali, e non
viceversa – per quanto mi riguarda sono nato e vissuto in una città di confine,
ai margini della penisola italiana. Trieste ha patito il Novecento più di
Firenze o Bari: “questione nazionale” fra italiani e sloveni in una città
divisa, crollo rovinoso dell’Austria e dell’economia cittadina, legata
all’Impero (v. “Irredentismo adriatico” di Angelo Vivante), affermarsi del
famigerato fascismo di frontiera, spietata persecuzione degli sloveni, guerra
ed occupazioni, rivincita slava - con la risposta delle foibe - e parentesi dei
40 giorni, governo militare alleato, ritorno all’Italia e definitiva
distruzione del tessuto produttivo locale. Gabrio De Szombathely, fiero
patriota ad onta del cognome inequivocabilmente ungherese, ha compendiato 40
anni nel libro “A Trieste sotto 7 bandiere”, che merita attenta lettura. Questi
fatti, insieme alla composizione etnica mista (della mescolanza fra sangue
italiano, tedesco e slavo parlava – non a vanvera – il meraviglioso Adolfo
Leghissa in “Un triestino alla ventura”), hanno prodotto due reazioni di
massima, opposte e complementari: un patriottismo quasi rabbioso (presente
anche in autentici uomini di sinistra, va riconosciuto) e una sfiducia, se non
una profonda avversione nei confronti dello Stato Italiano, artefice della
rovina giuliana e, prima ancora, responsabile di una tremenda lacerazione tra
le due anime “etniche” della cittadinanza, pacificamente convissute per secoli.
Chi – come me, lo ammetto senza reticenze – rimprovera alla classe dirigente
italica le sue colpe storiche guarda all’Europa (più specificamente, alla Mitteleuropa)
come a una seconda patria, a un altrove in cui “sentirsi a casa”. Dirò una
banalità: il fatto che in Polonia si rivolgano a me in polacco e a Roma in
inglese rafforza, in qualche maniera, questo pensarmi “altro”. Poco marxista?
Quasi sicuramente: ma siamo uomini con un vissuto e con delle contraddizioni,
non personaggi di un romanzo apologetico.
La seconda
ragione è meno soggettiva, nel senso che dovrebbe interessare l’analista, più
che lo psicanalista (che, guarda caso, a Trieste è una figura con dignità
letteraria). L’ho ripetuto mille volte: uno Stato che volesse andare per la sua
strada e sottrarsi al flusso del Capitale incontrerebbe ostacoli formidabili. Una
rivoluzione anche semplicemente democratica, nell’età del Capitalismo
globalizzato, sarebbe vista e trattata – dall’elite giudicante – come un
crimine imperdonabile. Ce lo racconta la cronaca: chiunque oggi voglia fare di
testa sua viene schiacciato o destabilizzato. Il Capitale ha un arsenale
vastissimo, in cui trovano posto armi nucleari, convenzionali e non
convenzionali (dal golpe alle sanzioni, dallo spread alla squalifica
mediatica). Se un Paese europeo si chiamasse fuori, sarebbe immantinente
iscritto alla lista dei c.d. “Stati canaglia” (lista redatta dalla canaglia
peggiore, cioè gli USA), universalmente demonizzato e infine punito. Pessimismo
cosmico? Nossignori: realismo che tiene conto di svariati eventi del presente e
del passato. Perché allora, a differenza dell’Ungheria di Bela Kun e, nell’immediato
dopoguerra, della Grecia, l’URSS di Lenin si salvò? Perché chi aveva steso il
“cordone sanitario” disponeva di eserciti dissanguati dalla guerra mondiale, e
soprattutto perché la Russia è uno strano ircocervo: uno Stato delle dimensioni di un continente, sostanzialmente
imprendibile e provvisto di risorse materiali inesauribili. Lenin, però, non
era un sovranista: riteneva che la Rivoluzione sovietica fosse la miccia
destinata a far deflagrare la Germania e l’Europa.
Ora, il punto è
questo: come è stato autorevolmente detto, chi aspetta per muoversi il miracolo
di un’insurrezione globale non è un rivoluzionario, è un sognatore. Oblomov non
farà mai la Rivoluzione, socialista o democratica che sia. Allo stato dei
fatti, un moto potrebbe scoppiare in una qualsiasi zona del continente o, al
limite, in territori fra loro lontani: per questo, un’attività propiziatoria a
livello nazionale ed anche locale è indispensabile. Se però si vuole che
l’ipotetica fiammella si estenda fino a diventare incendio è necessario uno
stretto collegamento sovranazionale: un’Internazionale
di nuovo conio che sappia elaborare un linguaggio comune e coordinare le forze
disposte alla lotta. Questo consesso non potrà decidere né programmare tutto:
solo un ubriaco potrebbe immaginare che fracando
botòn in una stanza chiusa salti
macaco (cioè la Rivoluzione prenda magicamente il via). Senza una persona
capace alla guida, tuttavia, la macchina va a sbattere: qualsiasi successo
locale avrebbe vita effimera, anche perché un ipotetico governo popolare si
troverebbe a prendere decisioni capitali in mezzo al caos di una fortezza
assediata. Uno Stato-continente, invece, avrebbe chance di sopravvivenza.
Per questo mi
permetto di dire: un ritorno allo Stato
nazionale potrebbe al più costituire una soluzione ponte, una fase di
passaggio all’interno di un quadro sovranazionale in rapida trasformazione. O
la sollevazione – per quanto non simultanea – sarà generale, o il suo destino è
fin d’ora segnato: gli incendi circoscritti si domano facilmente. Attenzione:
il Superstato europeo è un’opzione fra tante, le possibili forme aggregative
sono varie (ad es. una Confederazione). Quella che ritengo imprescindibile è
l’unità di intenti e – mi ripeterò fino alla nausea, dei pazienti lettori e mia
– un coordinamento fra forze operanti all’interno di un orizzonte comune.
Concludo con una
similitudine che mi auguro calzante, pur sapendola storicamente scorretta (visto
che le condizioni di partenza sono diversissime). Nel 1917 la Russia aveva tre
strade davanti: poteva sopravvivere come Impero zarista (oggi: l’Europa
potrebbe restare feudo capitalista); poteva frantumarsi in diverse entità
(oggi: ogni Stato nazionale potrebbe andare per conto suo), e rischiò in
effetti di andare incontro a questa sorte; poteva costituirsi in Unione Sovietica,
nel pieno riconoscimento – voluto da Lenin – della pari dignità fra le diverse
etnie (oggi: potrebbe forgiarsi, nella lotta, un’Europa dei popoli,
sufficientemente coesa e avviata verso il Socialismo).
Per quanto mi
riguarda scelgo la terza opzione, pur consapevole che non saranno le preferenze
personali del sottoscritto a determinare il corso della Storia futura – e
confermando la mia piena disponibilità a collaborare con chiunque, sovranista o
meno, si proponga di rovesciare questo sistema iniquo, assolutamente irriformabile
e lanciato verso la (nostra) catastrofe.
Avvertenza ai
critici, che non mancheranno: ho tentato, su richiesta, di schematizzare il mio
pensiero su un tema fin troppo incandescente, senza illudermi che nelle mie
tasche vuote si nasconda la “Verità”. D’altra parte: Quid est veritas?
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