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lunedì 6 giugno 2011

KARL MARX vs LUCIANO GALLINO di L. Mortara


Luciano Gallino è preoccupato perché Marchionne non risponde alle sue domande. Se l’amministratore delegato gliele desse, anche il sociologo, forse, si schiererebbe dalla sua parte. Son passati 3 anni dall’articolo qui sotto, ma il vizio del sociologo è sempre lo stesso: sembra tanto preoccupato per i lavoratori, ma è più forte di lui, i suoi interlocutori sono sempre i padroni. È da loro che si aspetta la soluzione, mai dagli operai. Solo i lavoratori possono rispondere a Marchionne, e non hanno bisogno di fargli nessuna domanda. In attesa della loro riscossa è bene però che si interroghino sul serio su chi sia Luciano Gallino.

di Lorenzo Mortara

Il sociologo-economista Luciano Gallino è un onesto studioso, scrupoloso e affidabile. I suoi libri sono utilissimi per tutto il movimento operaio, e per tutti i sindacalisti in particolare. Basta fare il confronto tra il suo libro – Il lavoro non è una merce (Laterza) – e quell’opera infamante che è L’altra casta (Bompiani) di Stefano Livadiotti per rendersene conto. Per descrivere e analizzare il precariato, Gallino ci dà tutti i dati disponibili e i criteri adottati dalle statistiche. Il risultato è che per Luciano Gallino ci vogliono più di cinquanta pagine per dipingere i tratti di un quadro allarmante, a Livadiotti basta scarabocchiarne solo 6 per incorniciare felice come una pasqua il migliore dei terzi mondi possibile. Un mondo perfetto per la miseria sottoculturale in cui versa il giornalismo a cui fa riferimento. Stefano Livadiotti, che ce l’ha a morte coi fannulloni, tranne quelli come lui che scopiazzano i titoli dei successi editoriali degli altri, non ci dice niente dei criteri continuamente cambiati per gonfiare le statistiche, nulla sa delle Ula, le unità di lavoro tramite le quali Gallino smaschera i dati sull’occupazione, dimostrando come tanti mezzi occupati abbiano fatto salire i dati sull’occupazione semplicemente perché fatti contare per uno. In attesa che la sua ignoranza piena di boria si faccia fregare dalla sue stesse balle, il che avverrà quando a furia di contare, per due o addirittura per tre occupati, tanti mezzi disoccupati, gli occupati supereranno il numero stesso dei lavoratori attivi, Livadiotti ci ricorda con la sua saggezza da giornale, incredibilmente identica ancora oggi a quella delle comari, che i numeri «non sono di destra né di sinistra». Per sua disgrazia il primo capitolo del libro di Gallino si intitola Le molte facce (e i tanti numeri) della flessibilità. Morale: a certi servi dei padroni fargli da serva non basta più. Per sentirsi a posto con la loro cattiva coscienza, non accettano più di stare all’ultimo posto tra i lecchini, pretendono di essere almeno i primi a dare in escandescenza per dare i numeri neutri. In realtà, se uno avesse un po’ di cervello, e non al suo posto quello del suo padrone, capirebbe che così come al tempo di Stalin i numeri erano stalinizzati, nell’epoca del neoliberismo i numeri sono neoliberalizzati anch’essi.
Luciano Gallino, tutte queste cose e tante altre le sa, ma questo non basta perché un lavoratore davvero avanzato possa sposare fino in fondo la sua prospettiva. Non essendo marxista, infatti, Luciano Gallino, oltre a prendere della spaventose cantonate, come nel caso della favola di Ford e degli alti salari che racconteremo prossimamente su questo stesso blog, è portato a invertire e a non comprendere affatto il nocciolo dei problemi, e quindi a risolverli alla maniera liberale, vale a dire con una piatta dichiarazione, nel suo caso un titolo: il lavoro non è una merce. Purtroppo, a dispetto delle sue convinzioni, il lavoro è proprio una merce, se così non fosse, non ci sarebbe il capitalismo. Il capitalismo esige che ci sia un mercato del lavoro. E cos’altro è il mercato del lavoro se non l’ammissione lampante che in questo sistema il lavoratore è ne più né meno che una merce come tutte le altre? Senza la mercificazione del lavoratore, il libero scambio, è libero solo di cessare. Purtroppo non possiamo aspettarci una simile conseguenza da Luciano Gallino. Non essendo marxista, per lui il lavoro può non essere una merce ed essere contemporaneamente portato al mercato per essere venduto. In realtà, Gallino confonde la mercificazione del lavoratore con l’abbassamento del prezzo del suo salario. Ma un salario, quand’anche sia raddoppiato, non fa del lavoratore qualcosa di diverso dalla merce svalorizzata che era prima, esattamente come una scarpa da poco non è meno merce di una particolarmente costosa. Il continuo attacco ai diritti dei lavoratori, non è che un modo per abbassare il loro valore sul mercato. Ma la loro conquista, non fa uscire dal mercato la merce lavoro solo perché la rafforza. Cassa-integrazione, liquidazione e pensione sono come gadget che alzano il valore della merce manodopera, pressapoco come la sorpresa contenuta nell’ovetto Kinder®. Ma così come l’ovetto Kinder® resta sempre una merce, alla stessa maniera, basso o alto che sia il suo salario, garantito o meno in caso di licenziamento, il lavoratore resta sempre una merce che deve vendersi sul mercato. Se le parziali conquiste fin qui ottenute dal movimento operaio indicano qualcosa, indicano precisamente che lo scopo del lavoratore è quello, conquista dopo conquista, di alzare così tanto il salario da renderlo una merce che non ha prezzo, quindi fuori mercato. Perché mettendo fuori mercato sé stesso, oltre ad abolire la mercificazione del lavoro, il lavoratore abolisce anche il capitalismo che lo sfrutta. Che questo posso avvenire per via rivoluzionaria e non per gradi non cambia la sostanza del discorso. Purtroppo, Luciano Gallino di questo non se ne accorge, e lungi dal chiedere l’abolizione del capitalismo, sogna la quadratura del cerchio: una politica che contrasti la scomparsa dell’Italia industriale, e contemporaneamente difenda il lavoro dalle grinfie del capitale. Competitività a braccetto con salariati ben stipendiati. In effetti, questa con poche varianti, è né più né meno l’idea dei burocrati della CGIL: salvare capra e cavoli, in linea con le politiche keynesiane del secondo dopoguerra e con l’epoca d’oro del welfare-state. Purtroppo, tornare indietro non è possibile. Inoltre, aver raggiunto una volta un discreto equilibrio tra padroni e operai, non significa che questo debba essere reiterato in eterno. Capitale & Lavoro, giocano a braccio di ferro. Può capitare che per un po’ stiano in equilibrio, ma prima o poi un braccio tirerà giù l’altro. Questo avverrà ad esempio quando un mercato del lavoro sarà, come spiega il sociologo, «largo un quarto delle forze [disponibili]».
Senza contare i diversi rapporti di forza tra le due classi e il peso non indifferente dell’avanzata dell’Unione Sovietica, le politiche keynesiane del dopoguerra hanno potuto contare su un mercato del lavoro più equilibrato. Può darsi che prima o poi analoghe condizioni si ripresentino, per ora dovrebbe essere chiaro che, questa, è l’epoca delle grandi scelte: o di qua, con i lavoratori, o di là con i padroni. Se si vogliono i salari più alti, non è possibile lamentarsi della scarsa competitività del sistema. La competitività si fa infatti sulla pelle del lavoratore, di conseguenza riequilibrare verso l’alto i salari, come vorrebbe giustamente Luciano Gallino, significa precisamente minare buona parte, se non ancora tutta, la competitività del sistema capitalistico. Non comprendere appieno questo, purtroppo, porta Luciano Gallino a puntare sugli uomini sbagliati per la difesa dei lavoratori. Invece di fare appello all’energica ripresa della lotta di classe, per far fronte alla precarietà e alla disoccupazione, Luciano Gallino invoca governi, organizzazioni non governative e tutti quelli che può tranne gli operai stessi. Ma mentre i governi, legati mani e piedi agli industriali, sanno benissimo che per mantenere competitive le imprese, devono svalorizzare la merce lavoro, e lo dimostrano ogni giorno col varo di una nuova legge che ne abbassi le tutele, Luciano Gallino sembra credere che questo sia solo un problema di orientamento. Risolvere i problemi del mondo del lavoro quindi, diventa più che altro sensibilizzare la classe politica o i burocrati dispersi nei sindacati o nell’Organizzazione Internazionale del Lavoro perché cambino le loro manovre. Che questo altro non significhi che appoggiarsi alla classe dei padroni per migliorare le sorti di quella dei lavoratori non sembra sfiorare la mente del sociologo. Così, nell’attesa frustrata che i padroni si diano la zappa da soli sui piedi, Luciano Gallino compie le sue scorribande attraverso le tante clausole, le dichiarazioni dell’OCSE e le infinite carte piene di ciance e di astratti principi in difesa del lavoro, per scoprire ogni volta amaramente che basta un trattato di libero commercio sottoscritto da questa o da quella multinazionale per andare incontro alla loro puntale disattesa.
Invece di irridere sarcasticamente pompose dichiarazioni, le quali, dopo aver sancito il diritto all’infanzia, al lavoro, alla casa, alla scuola, alla sanità e ad altri corollari della negazione del lavoro come merce, si guardano bene dal mettere in discussione il libero mercato e il sistema capitalistico, Luciano Gallino le gratifica citandole nel frontespizio del suo ultimo libro come fossero la quintessenza della saggezza umana e non la più intima manifestazione dell’assenza borghese d’ogni spirito critico. Solo i borghesi, infatti, possono dichiarare la pianificazione del libero scambio, cioè il diritto del lavoratore al socialismo col dovere, però, di mantenere in piedi il capitalismo: tale infatti, è il succo di ogni ridicola Dichiarazione di Filadelfia. Se Luciano Gallino mettesse lui quello spirito critico che manca ai borghesi, si renderebbe conto del carattere storico d’ogni diritto dichiarato. Il diritto umano di oggi, è il diritto disumano di domani. E una qualunque Carta Dei Diritti Umani, che sancisca diritti più o meno acquisiti dai lavoratori più avanzati, dichiara semplicemente la sua ostilità ad ogni ulteriore conquista. La Dichiarazione di Filadelfia è quindi una dichiarazione di pace, l’armistizio firmato dalla classe operaia con la classe borghese. E chi può volere l’armistizio degli operai con i padroni, se non i padroni medesimi? La Dichiarazione di Filadelfia è in realtà la Dichiarazione del Philadelphia che la Kraft® si è scritta e firmata da sola. Provi l’Organizzazione Internazionale del Lavoro a inserire tra le sue righe un nuovo sostanzioso diritto, ad esempio le 30 ore settimanali di lavoro, mettendo al bando, tra i paesi disumani, tutti quelli che non lo applicheranno, e la Dichiarazione di Filadelfia si trasformerà immediatamente in una dichiarazione di guerra, e i primi feriti che ci lasceranno, magari non la pelle ma il cadreghino sì, saranno proprio quegli incoscienti che hanno osato andare oltre ciò che può essere benissimo riconosciuto da chi gli paga un’onesta carriera da burocrate all’interno di una pia e innocua confraternita.
In nessun capitolo dei suoi libri, Luciano Gallino mette in discussione il libero scambio. Le preziose armi della critica che offre, sbaraglieranno sempre alla grande tutti i peggiori servi dei padroni come Livadiotti, ma non scalfiranno d’un centimetro la loro corazza. Arricchiranno le conoscenze degli operai, ma continueranno a lasciargli la pancia vuota in mezzo a una strada. Perciò, pur non mettendolo tra i veri nemici dei lavoratori, non possiamo nemmeno considerarlo un loro amico. Infatti, chi resta a metà del guado tra loro e i padroni, essendo sbilanciate le due forze in campo, finirà nove volte su dieci per pendere verso la seconda. Luciano Gallino non fa eccezione, e lo si vede nelle sue atroci dichiarazioni d’amore per l’operaio. Quella specie di Ode alle tute blu che chiude Italia in frantumi (Laterza) è in realtà il De profundis dell’operaio. È vero, le tute blu non sono operai qualsiasi, ma sono l’Operaio. Eppure l’unico Operaio che ha diritto d’essere fiero di sé stesso, è quello che s’è battuto fino in fondo per smetterla di fare l’Operaio. Le sole tute blu rispettabili sono quelle che non vedono l’ora di togliersela di dosso per darla alle fiamme. L’operaio amato da Luciano Gallino è quello che si ribella all’ingegner Taylor che gli toglie il diritto di pensare al lavoro, per avere ancora il dispiacere di pensare il lavoro. L’Operaio che amo io è quello che non piagnucola troppo di fronte a Taylor e a Ford e alle loro tecniche che rendono superfluo l’operaio; quello che saluta il fordismo e la sua evoluzione, il toyotismo, come i due massimi pilastri che l’ultima epoca dello sfruttamento disumano ha costruito per reggere l’avvento del socialismo degli Operai. L’operaio di cui è innamorato Gallino è quello che va in brodo di giuggiole sapendosi sempre indispensabile di fronte alle macchine che ancora non riescono a sostituirsi al suo occhio e alle sue orecchie che sanno percepire il minimo malfunzionamento. L’Operaio che riempie il mio cuore è quello triste come la morte e incazzato nero perché sa che mentre lui sa fare sempre a meraviglia il suo noiosissimo lavoro, i geni della tecnica, Taylor e Ohno esclusi, non sanno ancora fare come si deve il loro. Quello di Gallino, è un amore ottocentesco per l’operaio, il mio è addirittura futuristico. La simpatia di Luciano Gallino va a quell’operaio che pretende di pensare a tutto, ma non ha mai saputo pensare a nient’altro oltre al lavoro. Io ho un’antipatia istintiva e profonda come il disprezzo per questo tipo di operaio, che sa pensare sì, ma non sa sognare. Dietro quest’operaio, infatti, c’è un ometto meschino e gretto, accontentatosi di tre soldi di salario e di due di pensione che il padrone gli ha dato, solo perché il suo poco coraggio non ha mai saputo dargli la spinta per dare un calcio al padrone e a tutto il suo sistema. Un operaio terra terra, che non saprà mai volare oltre le sbarre dei cancelli della fabbrica in cui sgobba dalla mattina alla sera. Un operaio che ha rinunciato ai suoi sogni e ai suoi istinti migliori per trasformarsi in un docile padre di famiglia. Un operaio che dopo aver sprecato 40 ore in fabbrica dal lunedì al venerdì, sprecherà anche il week-end dietro al pallone, per ritrovarsi al lunedì col suo collega a congratularsi d’aver ottenuto, dopo interminabili e inutili battaglie, d’essere un perfetto borghese in miniatura. E un operaio del genere sarà bene che faccia a meno del suo cervello, tanto è diretto ancora dal suo padrone. Un operaio simile è meglio vederlo attaccato che difeso. Se infatti non sa vedersi che come un borghese piccolo piccolo, è bene che vada in fondo alla sua mediocrità e veda miniaturizzarsi anche il suo salario e i suoi diritti. Solo così possiamo sperare che, dopo aver constatato quanto si sia sbagliata la previsione che lo voleva morto e sepolto con la sua figura di metalmeccanico, non salti di gioia per così poco, ma faccia di tutto perché non solo sia azzeccata, ma sia addirittura trasformata nella sua leggenda nel prossimo futuro.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Davvero un ottimo articolo! Lo diffonderò con piacere!

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