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mercoledì 24 ottobre 2012

IL KEYNESIANESIMO GENETICAMENTE MODIFICATO DEI NEOLIBERISTI di Riccardo Achilli




IL KEYNESIANESIMO GENETICAMENTE MODIFICATO DEI NEOLIBERISTI
di Riccardo Achilli

Premesso che certamente la ripresa degli investimenti pubblici è fondamentale, a mio avviso il massimo dell'elaborazione in materia di crescita non può essere quella sorta di keynesianesimo alterato, impoverito, che sembra essere l'unica strada possibile di ripresa di un minimo di flessibilità di bilancio per Monti e la Commissione Europea. In questa impostazione, basata sulla golden o sulla copper rule, gli unici investimenti pubblici che possono essere sdoganati rispetto alla regola del pareggio di bilancio sono quelli che agiscono sui fattori di competitività dell'offerta (R&S, infrastrutture strategiche, istruzione e formazione, reti Ict ed energetico/ambientali) e che quindi hanno effetti sulla produttività, nell'ipotesi sottostante che lo shock di produttività comporti effetti di sostituzione e di reddito in grado di riportare verso l'alto la curva della crescita, quindi l'occupazione e la domanda.

Questo tipo di keynesianesimo "povero" è infatti aggiustato per essere coerente con gli schemi neoclassici più moderni, come quelli elaborati da Lucas e Sargent nella NMC. Sono infatti perfettamente coerenti con le teorie del "real business cycle" emerse negli anni ottanta come applicazioni della NMC e della cosiddetta critica di Lucas ai modelli macroeconometrici utilizzati dalla programmazione economica keynesiana, quindi coerenti con una rifondazione microeconomica delle teorie del ciclo, utile a supportare un approccio neoliberista di politica economica. Tali modelli, che hanno anche generato una classe di metodi statistici di previsione del ciclo (il più importante dei quali è il filtro di Hodrick/Prescott) ci dicono sostanzialmente che le fluttuazioni del ciclo dipendono da shock esogeni, dal lato dell'offerta che comportano, come risposta efficiente da parte di agenti supposti razionali, una serie di decisioni produttive, di consumo e di investimento o risparmio che generano la fluttuazione ciclica. In altri termini, la fase recessiva del ciclo sarebbe, secondo tali modelli, una risposta efficiente a uno shock esogeno che incide negativamente sulla competitività, ovvero sulla produttività dei fattori,  e che serve a ricostruire le condizioni per la ripresa della produttività, tramite un riaggiustamento verso il basso del costo dei fattori per unità di prodotto. Per certi aspetti, quindi, il modello di riferimento di Monti, di Barroso e della Merkel ritiene che una recessione sa una sorta di meccanismo di aggiustamento, una auto-terapia del sistema, perturbato da un evento anomalo esterno. Non lo diranno mai, per ovvi motivi politico/elettorali, ma per loro una recessione, anche drammatica, è un modo per riequilibrare gli scompensi interni al sistema.

Una spiegazione dell'attuale depressione coerente con tali teorie è quindi che la bolla immobiliare/finanziaria (anzi, le diverse bolle succedutesi dal 2007 ad oggi) ha creato uno shock sulla quantità e qualità di credito  sulla struttura dei tassi di interesse. Tale shock esterno ha quindi prodotto, come razionale risposta degli agenti economici, una contrazione degli investimenti, un conseguente peggioramento del rapporto fra produttività e costo dei fattori (variabile correlata ovviamente agli investimenti) e quindi una riduzione del livello di attività produttiva, con effetti sull'occupazione e la domanda.
Ora, e questo è il punto più importante da comprendere, tale impostazione NON ESCLUDE interventi di politica economica. Semplicemente, esclude interventi di politica economica dal lato della domanda. Le teorie del real business cycle, infatti, prevedono la necessità che il soggetto di politica economica faccia investimenti pubblici, ma soltanto dal lato del miglioramento/irrobustimento delle condizioni di contesto della libera competizione di mercato, intervenendo cioè su quegli elementi che consentano di assorbire gli effetti negativi sulla produttività totale dei fattori indotti dallo shock esogeno. Quindi, investimenti pubblici su infrastrutture più o meno presunte "strategiche" (TAV) o su R&S, innovazione tecnologica, formazione continua, reti telematiche ed energetiche, sono ben accetti, se non necessari. Se non sono stati fatti ancora in dose sufficiente, è solo perché l'esigenza di stabilizzare le aspettative dei mercati finanziari riguardo alla crisi del debito sovrano ha privilegiato una politica di tagli su tutto. E perché una delle condizioni preliminari per "riassorbire" lo shock esogeno era quella di imporre una ristrutturazione sociale, con l'obiettivo di accrescere la produttività del lavoro rispetto al suo costo. E ciò richiede anche uno smantellamento dei diritti del lavoro, per renderlo più ricattabile e sfruttabile. Ed inoltre, anche perché è prevalsa la preoccupazione di riassorbire gli effetti dello shock sul sistema creditizio, e ciò spiega perché il quantitative easing già varato nel 2011 dalla Bce non ha prodotto alcun effetto sull'economia reale, così come non lo produrrà nemmeno l'attuale nuovo meccanismo di acquisto di titoli da parte della Bce: tali sistemi servono solo per tenere in piedi il sistema creditizio, non per rilanciare la crescita (cosa che è impossibile, atteso che i mercati monetari europei si trovano in una condizione simile alla trappola della liquidità: le iniezioni di liquidità aggiuntiva non generano modifiche nei comportamenti di credito delle banche, i cui assetti finanziari e patrimoniali sono troppo compromessi, né sulla propensione all'investimento, e quindi sulla domanda di credito, da parte delle imprese, le cui aspettative di mercato sono troppo depresse).

Ma possiamo esserne certi: la fase 2 del montismo, che nel nostro Paese sarà interpretata da un centrosinistra organico a tale disegno, punterà proprio su investimenti pubblici "dal lato dell'offerta". E quindi è del tutto prevedibile che, in sede europea, i Governi di Hollande e di una grosse koalition con dentro anche la Spd di Steinbruck faranno spazio a tali politiche, adottando meccanismi di golden o di copper rule.
Ciò che tale impostazione proibisce sono le politiche di spesa mirate direttamente a sostenere la domanda per consumi. Infatti, il riaggiustamento del ciclo dopo lo shock dipende, dai modelli di real business cycle, proprio dai meccanismi di prezzo e di salario sui quali una politica di sostegno ai redditi ed ai consumi genererebbe effetti destabilizzanti sulle aspettative degli operatori, impedendo loro di "riaggiustarsi" in modo razionale.

La crisi attuale, però, pur essendo partita da fattori finanziari, è degenerata in una crisi di sovrapproduzione, per cui la spesa sociale e redistributiva non può essere scartata, per il semplice motivo che occorre riportare dentro il circuito della domanda aggregata e del reddito quote crescenti di popolazione che via via ne sono escluse. Altrimenti, l'unica via d'uscita dalla crisi sarebbe quella di spingere ulteriormente sulla ristrutturazione sociale in atto, al fine di acquisire una competitività di costo sufficiente a competere sui mercati delle economie BRICS, portando le nostre società nel terzo mondo. Quindi il keynesianesimo imbastardito per essere reso coerente con l'approccio dei modelli liberisti, e che impedisce politiche redistributive e di sostegno ai consumi, non ci farà uscire dalla crisi, a meno di non ridurci al livello del Cile degli anni di Pinochet.
Oltre alle politiche di sostegno alla domanda per consumi, ciò che l'approccio del real business cycle impedisce, sono le politiche di regolamentazione dei mercati. Una regolamentazione stringente dei mercati finanziari, tipo Dodd-Frank Act, una limitazione dell'operatività sui mercati finanziari, tipo la Volcker Rule oppure il Glass-Steagall Act, sono inconcepibili perché il riaggiustamento dei mercati allo shock esogeno sarebbe reso, secondo tale approccio, meno flessibile proprio dalle regolamentazioni pubbliche.

Quindi, chi si stupisce perché nella carta di intenti del PD-SEL-PSI non si parla di reddito minimo garantito, di sostegno ai consumi, di regolamentazione dei mercati finanziari, è servito: tali politiche sono proibite dal modello macroeconomico del ciclo sottostante, modello profondamente liberista ed anti keynesiano. Anche se si traveste di un keynesianesimo di facciata.
Lo stesso keynesianesimo di facciata informa la filosofia di fondo del “growth compact”, cioè il documento comunitario sulla crescita recentemente proposto a Bruxelles. Al di là del fatto che è una specie di carta di intenti (vanno di moda di questi tempi) che richiama proposte già fatte e non ancora implementate, o anticipa proposte future, e non ha un quadro finanziario (anche perché il bilancio Ue 2013 è in fase di discussione, così come anche i fondi strutturali, ovviamente) è l'impostazione teorica che è erronea: si continua a puntare sul rafforzamento dei fattori di competitività dal lato dell'offerta (infrastrutture, apertura e liberalizzazione dei mercati, mobilità transnazionale dei fattori, costi dell'energia, omogeneizzaizone delle basi fiscali per le imposte sulle imprese, ecc.) in una fase in cui la crisi è di sovrapproduzione, ed anche la crescita della domanda dei mercati emergenti rallenta, mancano le azioni per il rilancio della domanda, ed è completamente assente il capitolo sociale (se non per qualche modesta azione di rafforzamento di Eures, o di omogeneizzazione dei trattamenti pensionistici, ma anche queste inquadrate nella filosofia di liberalizzazione/apertura dei mercati, cioè affette da un approccio supply/side, che non solo non è redistributivo, in un momento in cui lo schiantamento dei ceti medi produce una distribuzione dei redditi ad "L", ma è anche inadeguato alla stessa crescita.

Dov'è il limite oltre il quale si passa ad un keynesianesimo "de noantri", cioè una giustificazione per lo spreco ed il parassitismo? Intanto dove non si utilizzano i criteri dello stop and go, per cui la spesa pubblica rimane alta anche nelle fasi di ripresa del ciclo, quando invece i cosiddetti ammortizzatori automatici andrebbero definanziati, così come più ingenerale le componenti più sensibile al ciclo della spesa pubblica (tipicamente, gli investimenti in opere pubbliche). E poi laddove la spesa pubblica non incide significativamente sul circuito del reddito: la spesa erogata per mantenere rendite di posizione che utilizzano in modo inefficiente le risorse, o quella che sostiene redditi di fasce sociali a bassa propensione marginale al consumo (p. es. sostegni al reddito erogati a categorie sociali che non ne avrebbero realmente bisogno). Tutto ciò che sta sotto tali limiti andrebbe autorizzato. Quindi non solo gli investimenti sui fattori di offerta, ma anche la spesa pubblica per il sostegno della domanda. Ad iniziare dal reddito minimo garantito.



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