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giovedì 11 ottobre 2012

Lavorare di meno per lavorare tutti: è proprio vero che è impossibile? di Riccardo Achilli


di Riccardo Achilli



Un tema di cui non si parla più, dopo la sepoltura dell’esperimento di Jospin e della Aubry delle 35 ore settimanali, è quello riassumibile con lo slogan “lavorare di meno per lavorare tutti”. La principale obiezione dei liberali a tale idea è che contribuirebbere a ridurre la produttività del lavoro, già molto bassa in Italia rispetto ai concorrenti europei, aggravando la competitività delle imprese.
E’ tuttavia ovvio che in una fase in cui aumenta il bacino dei senza-lavoro, puntare sull’incremento di produttività di chi già lavora è il modo per non riassorbire più i disoccupati, creando quindi un sistema di esclusione perenne dal mercato del lavoro di ampie fasce di popolazione attiva che, allungandosi il periodo di disoccupazione, perderebbe ogni potenzialità personale di rientro nel circuito lavorativo.
Andando poi ad osservare con maggiore attenzione la critica principale che si fa alla riduzione dell’orario di lavoro per aumentare l’occupazione, notiamo che, in realtà, il problema competitivo che affligge l’economia italiana non è la produttività del lavoro, quanto invece la produttività totale dei fattori, ovvero il rendimento complessivo che tutti i fattori produttivi forniscono alla crescita, e che dipende dalle condizioni di contesto in cui i fattori produttivi stessi forniscono il loro contributo.
I dati Ocse ci dicono, in effetti, che, nel periodo 2000-2010, mentre il PIL italiano cresceva ad un tasso medio annuo dello 0,3%, l’input di lavoro è cresciuto più lentamente del PIL (+0,2%) mentre l’input di capitale è aumentato in misura molto più significativa rispetto alla crescita (+0,7%). Anche se misurato in un periodo più lungo (1995-2010) l’input di capitale cresce più rapidamente di quello del lavoro (rispettivamente, +0,7%, contro +0,4%, a fronte di una crescita media dello 0,9%).
Quindi, per garantire un determinato percorso di crescita, come quello manifestato dalla nostra economia, l’esigenza di immissione di capitale supera quella di immissione di lavoro. In altri termini, il capitale è meno produttivo del lavoro[1]. D’altra parte, la produttività del lavoro cresce più rapidamente rispetto alla produttività totale dei fattori: fra 1985 e 2010, la prima cresce, in termini reali, del 28,8%, la seconda del 10,8% (dati Ocse). Quindi il problema non è che il lavoratore italiano sia di per sé poco produttivo, ma che il contesto in cui opera ne abbassa significativamente l’apporto al processo produttivo: la bassa produttività del capitale ne è la spia evidente, e dipende da fattori quali il sottodimensionamento cronico di gran parte del nostro tessuto produttivo, accompagnato da sottocapitalizzazione e da modelli di governance padronali poco idonei a supportare qualità ed innovazione, dalla modestissima quota di spesa di R&S sul PIL, soprattutto di parte privata (e dall’assenza di meccanismi di collegamento efficaci fra ricerca pubblica ed imprese), dall’estensione anomala di forme di economia irregolare o criminale, dall’inadeguatezza delle infrastrutture di trasporto e dal permanere di un digital divide in alcune aree del Paese, dai tempi elefantiaci della pubblica amministrazione. Tutti questi elementi riducono la produttività totale dei fattori, incidendo prima e soprattutto sul rendimento del capitale investito, e poi su quello del lavoro, la cui produttività è resa più bassa dalla bassa produttività del capitale (per rendere l’idea, utilizzando una metafora estrema, è ovvio che un’ora di lavoro effettuato con un tornio a controllo numerico abbia una produttività superiore ad un’ora di lavoro effettuata con un tornio manuale; è evidente che la produttività del lavoro non può prescindere dalla produttività potenziale del capitale, che nel caso del tornio numerico è più alta rispetto a quello manuale).
Tra l’altro, negli anni più recenti, la produttività totale dei fattori è in evidente rallentamento, mentre quella del lavoro rimane stabile, se non in lieve crescita: fra 2000 e 2010, la prima diminuisce del 5,3%, mentre la seconda aumenta dell’1,9%. In altri termini, negli ultimi 10-12 anni, in Italia, il lavoro è stato talmente produttivo da più che compensare il tracollo della produttività del capitale!
Abbandoniamo quindi l’argomento sciocco secondo cui una riduzione dell’orario di lavoro per far crescere l’occupazione sia ostacolata da un presunto gap di produttività del lavoro, lasciando tale argomento ai padroni che vogliono imporre un neo-fordismo di ritorno. E cerchiamo di capire se realmente tale strategia sia sostenibile. Mettiamoci nell’ipotesi peggiore, cioè la più costosa per il sistema, quella in cui, per assurdo, si ipotizzi una riduzione dell’orario di lavoro per tutti gli occupati, ed in quantità tale da liberare spazio per assumere tutti i disoccupati, ufficiali e nascosti (è naturalmente una ipotesi artificiosa, che serve solo per evidenziare l’onere sistemico massimo).
Ipotizziamo in un primo momento che, per non incidere sulla competitività, la riduzione dell’orario sia pagata soltanto dai lavoratori (rimuoveremo questa ipotesi subito dopo). E facciamo, per assurdo e per motivi prudenziali, l’ipotesi che si intenda dare lavoro all’intera platea di disoccupati (ipotesi fantascientifica, anche in condizioni di piena occupazione un tasso frizionale di disoccupazione esisterà sempre, ed ovviamente è anche necessario per evitare di andare oltre il punto del NAIRU[2], poiché, contrariamente a quanto affermano i tifosi di ogni tipo di peronismo, l’inflazione è una bomba piazzata sotto i piedi delle stesse condizioni di equità sociale e distributiva). Ciò significa che, fra disoccupati ufficiali e nascosti, dai dati Istat al 2011 emerge che occorrerebbe dare lavoro a 3,64 milioni di persone. La retribuzione oraria media lorda di un lavoratore nel 2011 (dirigenti esclusi) è di 15 euro all’ora, equivalente ad una retribuzione media lorda di 24.363 euro annui (Istat). Moltiplicando tale dato per il numero complessivo di ore lavorate da impiegati, quadri ed operai nel 2011, si ottiene un monte-retribuzioni complessivo pari a 549,9 miliardi di euro.
L’immissione al lavoro di tutti i 3,64 milioni di disoccupati, ufficiali o nascosti, ovvero un incremento occupazionale del 16,1%, mantenendo invariato il monte-retribuzioni complessivo pagato dai datori di lavoro, costerebbe al lavoratore medio, su 13 mensilità, una riduzione di stipendio pari a 260,12 euro al mese. a ciò vanno aggiunti altri costi, come ad esempio il costo della formazione del neo-assunto da parte dell’impresa: poiché la formazione professionale per gli adulti costa, al settore privato, circa 4 miliardi all’anno (dato Isfol) se tale costo fosse fatto pagare ai lavoratori, comporterebbe una ulteriore riduzione di circa 12 euro sul loro stipendio mensile. Considerando altri costi di coordinamento e di tipo organizzativo per l’immissione di nuovi occupati, alla fine si arriverebbe ad un sovraccosto di 20 euro al mese. Sommati ai 260 euro di cui sopra, sarebbero circa 280 euro mensili cui l’occupato medio dovrebbe rinunciare per una politica di pieno impiego basata sulla riduzione del suo orario di lavoro.
A livello sistemico, il costo del pieno impiego sarebbe di 95,4 miliardi/anno. Se fosse lo Stato a pagare tali 95,4 miliardi, lasciando quindi immutati i salari dei lavoratori, pur a fronte di una riduzione del loro orario di lavoro di un 16% medio (equivalente, posto che l’orario di lavoro settimanale medio degli italiani è di 37 ore, ovvero di 7,4 ore su una settimana di cinque giorni, ad una situazione in cui si lavorano 7,4 ore dal lunedì al giovedì, e nel giorno di venerdì si lavora solo per un’ora e mezza circa) occorrerebbe considerare che lo Stato risparmierebbe 3,5 miliardi all’anno di indennità di disoccupazione e mobilità (perché se lavorano tutti, tali voci non esistono più) e guadagnerebbe 63 miliardi di euro in più da contributi sociali ed imposte sul reddito. In sostanza, circa 66 miliardi fra minori spese e maggiori entrate, per cui il costo complessivo massimo (si ricordi che stiamo considerando il caso, del tutto fantascientifico, che la riduzione dell’orario di lavoro comporti l’assunzione di tutti i disoccupati, ivi compresi quelli nascosti) di tale operazione sarebbe pari a meno di 30 miliardi all’anno. Sarebbe cioè pari all’1,9% del PIL, oppure al 3,8% del totale delle uscite del conto economico consolidato di tutte le amministrazioni pubbliche. Farebbe, certo, aumentare il deficit di bilancio, ma comporterebbe anche un incremento di PIL, a produttività del lavoro vigente (e ovviamente ridotta in ragione della riduzione media dell’orario di lavoro), pari al 13% (ma non considero gli ulteriori effetti sul PIL derivanti dall’aumento della domanda per consumi derivante dal pieno impiego). Il deficit/PIL, a regime, cioè dopo un shock temporaneo dovuto all’aumento dei costi non immediatamente compensato dalla crescita del PIL (che ha sempre un lag di ritardo) passerebbe dal 3,9% del 2011 al 5,1%, senza considerare gli effetti di incremento della domanda per consumi, ed al 4,5% considerando anche l’incremento del PIL indotto dalla maggiore domanda per consumi.
I calcoli sopra esposti non sembrano quindi indicare niente di drammatico o di irreparabile sul versante dei costi pubblici di un sistema di riduzione dell’orario di lavoro seguito da un incremento assoluto di occupazione finanziato dallo Stato; i costi per il bilancio pubblico sarebbero alti, ma in sostanza non terribili (mentre andrebbero forse esplorati altri potenziali effetti perversi, ma anche molto controversi e quindi non certi, legati ad una possibile riduzione della propensione ad investire in innovazione di processo, qualora il rapporto capitale/lavoro nei processi produttivi fosse completamente sovvertito a favore del secondo).
Naturalmente, poi, per la finalità di evidenziare il massimo costo possibile per il sistema, cioè lo scenario “peggiore”, i calcoli di cui sopra sono stati fatti nell’ipotesi semplicistica che vi sia un rapporto diretto, meccanico, fra riduzione dell’orario e aumento dell’occupazione, mentre nella realtà vi sono professioni che richiedono specializzazioni molto specifiche e “incorporate” nello specifico lavoratore, che non possono quindi dare luogo ad un suo affiancamento con un lavoratore equivalente (si pensi alle professioni artistiche, creative, artigianali, ai mestieri di altissima qualificazione, le professioni svolte su incarichi intuitu personae, ecc.) e quindi per tali categorie professionali sarebbe assurdo prevedere una riduzione dell’orario (anche perché spesso sono esercitate da free lance e consulenti senza orario di lavoro contrattuale) potendo concentrare l’esperimento di riduzione dell’orario di lavoro soltanto sulle professioni operaie e su quelle impiegatizie più standardizzate e ripetitive, con un minore onere per il sistema, in termini di costo della riduzione dell’orario di lavoro. Ma naturalmente questi argomenti sono tabù: siamo sotto la cappa del liberismo più ortodosso!    



[1] Ovviamente si trascura per semplicità l’ovvietà secondo cui il capitale è, in termini di valore intrinseco, costituito da lavoro indiretto.
[2] Not-accelerating inflation rate of unemployment, ovvero il tasso di disoccupazione minimo, al di sotto del quale l’inflazione accelererebbe. 

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