di Carlo Felici
Forse in nessuna epoca come la nostra è stato tanto forte il desiderio di profitto, la tendenza ad accumulare ricchezza e a speculare su di essa, quasi come se, alla fine, essa debba risultare per tutti come una sorta di orizzonte metafisico su cui proiettare l'intero senso della vita e della civiltà dei singoli individui.
Tanto
forte è questa tendenza, che la maggior parte delle persone oggi ha
persino difficoltà ad immaginare o a ritrovarsi in una dimensione in
cui la sicurezza e la stabilità del vivere non siano rappresentate dal
possesso di ricchezza e di denaro.
Sintomatico
è il fatto che le masse sono sempre più propense ad affidarsi
politicamente a chi viene ritenuto più credibile proprio perché ha
saputo accumulare tanta di quella ricchezza, da farsi rappresentante non
solo di quella propria, ma anche dell'altrui, per quanto l'altrui
possa risultare comunque sempre più misera nel confronto.
Purtroppo
questa sorta di “fuga” ed esaltazione al tempo stesso del profitto,
che trova la sua celebrazione liturgica nelle banche, nelle società
finanziarie, negli investimenti in borsa, con i suoi riti satanici che
coincidono con gli aggiotaggi, con i riciclaggi e le speculazioni
finanziarie, trae fondamento soprattutto da un deficit progressivo di
memoria storica e culturale, lo stesso che rende piuttosto flebile e
vana qualsiasi forma di resistenza e di possibilità di invertire,
mediante una seria alternativa, tale processo che, in definitiva, si
rivela tanto illusorio quanto distruttivo. Poiché in nome del profitto
si sta sacrificando l'essenza stessa della vita nella sua sacralità,
integrità e diversità. La crisi economica che sta investendo la Grecia è
sintomatica di tale nefasta tendenza, ma riteniamo altresì che da essa
si possa uscire proprio grazie ad una più consapevole riappropriazione
dei valori di cui quella antica civiltà è stata, fin dai millenni
scorsi, portatrice.
Lo
studio dunque della cultura antica, non riproposta come meno
antiquariato filologico, oppure come ermeneutica di un tempo sempre
attuale e da giustificare ad ogni costo cercando appigli nel passato,
ma come patrimonio di valori intramontabili e riproponibili, mutatis
mutandis, in ogni tempo ed in ogni luogo, pur essendo maturati in
circostanze uniche e non più ripetibili, può, anzi, deve essere il
fondamento di una vera resistenza morale, culturale e civile.
Osservando
in un breve excursus lo sviluppo della civiltà e del pensiero greco,
ci rendiamo conto che lo scontro e la critica serrata contro la
crematistica e l'accumuazione di profitto, è una vera e propria
costante, sia in senso diacronico che sincronico.
Nell'Iliade
Achille si rivolge ad Agamennone apostrofandolo come : “Uomo impudente
ed avido di guadagno” (v148). Nell'Odissea prevale su tutto, non il
desiderio di avventura e di ricchezza, ma la nostalgia della patria e
della gloria perduta.
Nelle Opere e i Giorni di Esiodo si dice esplicitamente che il “guadagno travia la mente degli umani”(v.326)
Solone
esorta a “curarsi delle cose oneste” e a non desiderare mai “nulla di
troppo”. Talete invitava a “non arricchirsi malamente” e ad “essere
moderati”.
Eraclito è molto esplicito nel merito: “La città si
mantiene in pace e concordia solo se ci si accontenta di ciò che si ha a
disposizione, senza avere bisogno di cose lussuose”.
In tutta
l'epoca aurea dello sviluppo del pensiero tragico troviamo massime
analoghe, da Eschilo che nelle Eumenidi ci ricorda che: “la ricchezza
porta sciagura, perché basta solo per chi ha una mente saggia” a
Sofocle che fu citato anche da Marx nel Capitale: “Per l'uomo nulla ha
poteri così tristi e larghi come il denaro, che città devasta, uomini
strappa dalle case, istruisce le menti pure a concepire il male, le
perverte e le muta, del delitto indica il passo e l'esperienza schiude
ad ogni empietà” (Antigone).
Socrate e Platone, anche reagendo ad una
tendenza verso la crematistica che sembrò affermarsi con la sofistica,
ma che pur restò nell'ambito di patrimoni accumulati per fama e gloria
di perizia retorica, più che per puro desiderio di profitto,
confermano e rafforzano la condanna della ricchezza fine a sé stessa.
Così
si esprime Socrate nell'Apologia: “Ottimo uomo, dal momento che sei
Ateniese...non ti vergogni di occuparti delle ricchezze, e della fama e
dell'onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della
saggezza, della verità e della tua anima...?” e Platone conferma: “La
libertà consiste nell’essere padrone della propria vita e nel fare poco
conto delle ricchezze".
Aristotele d'altra parte, come ci ricorda
Plutarco, che cita il suo dialogo perduto Sulla Ricchezza, disapprovava
fermamente che la ricchezza potesse produrre da sola altra ricchezza e
piacere smodato.
Tutta la filosofia cinica, stoica ed epicurea fu
infine un continuo esortare l'essere umano alla cura di sé e
all'incremento della libertà interiore, soprattutto dal condizionamento
dei beni esteriori, una tradizione che sarà fatta propria dal
Cristianesimo, rielaborata e rilanciata nella sua storia millenaria.
Potremmo
continuare con questa storia della resistenza culturale alla
crematistica, ma tanto basta a dimostrare che essa ha fondamenta solide
radicate nei millenni e che è stata confermata da secoli di pratica
della saggezza.
Tornando
dunque al presente, rileviamo e ribadiamo che oggi l'ineluttabilità e
la necessità di un ordine mondiale fondato sulla “sopportazione” della
povertà, solo affinché non sconfini in pratiche eversive, ed in modo
tale che lasci comunque inalterato un assetto tale da consentire in modo
tanto illusorio quanto distruttivo lo sviluppo e la crescita
illimitata della ricchezza, con pratiche sempre più speculative, si
fonda proprio sulla ghettizzazione e la rimozione della cultura, in
particolare di quella antica. Tanto da riservarla ad ambiti sempre più
ristretti e selettivi, riducendola a studio ed applicazione di un
programma, svuotandola del suo contenuto “eversivo” e impedendo la sua
discussione, meditazione ed attualizzazione.
Evidentemente la
costruzione del consenso, per caste o individui che fondano il loro
potere sulla ricchezza personale, sempre più avulsa da norme di
controllo o dalla regolazione dei conflitti di interessi, passa per la
rimozione di ogni possibile alternativa di senso, culturale, morale e
sociale a tale assetto, fino a proporlo come unica salvezza possibile
da condizioni ancora più rovinose.
Tutto
questo non fa che consentire il travaso della ricchezza dai molti ai
pochi, in modo sempre più inevitabile ed imprescindibile, costruendo
anche quel consenso di cui le democrazie, almeno formalmente, hanno
comunque bisogno, oppure rimuovendolo del tutto e sostituendolo con
l'imposizione, da parte dei mercati globali, di governi tecnocratici e
plutocratici.
Il “si salvi chi può” infatti si costruisce e viene
indotto in particolare dall'illusione che ci si possa salvare meglio
degli altri, legandosi prima e tirando poi il carro di chi ha
dimostrato più di altri di potersi salvare meglio e di essere per
questo più credibile nell'orizzonte della crematistica assunta a
metafisica globale, e ritenuta così tanto necessitante da non presentare
alcuna alternativa alla sua ineludibile attuazione. Nel sistema
crematistico del neloliberismo globalizzato la "salvezza" coincide con
la permanenza di uno Stato che non è più espressione della volontà
generale, ma è la diretta emanazione di un potere oligarchico e
monopolistico che esprime la sua "volontà di potenza" mediante
l'accumulazione di profitto e di capitale.
Nella pratica della
resistenza con i mezzi mediatici esistenti, non ci può essere dunque
che il suo smascheramento, la sua rappresentazione e caratterizzazione,
affinché esso, come un "re nudo", possa almeno suscitare disgusto e,
contro di esso, più che pietre e bombe molotov, risulti efficace
lanciare un forte stimolo culturale, affinché ciascuno possa trovare,
in un patrimonio inestinguibile di valori comuni, almeno l'antidoto
necessario a scongiurare l'assuefazione al suo "drogato diktat", e
aggiungo come conseguenza, alla luce degli ultimi eventi della crisi
economica globale, a propiziare la nostra vera salvezza.
C.F.
2 commenti:
Credo che la Grecia antica, per quanto giungesse avanti nella divisione del lavoro, non poté andare oltre fino al punto da innescare un'economia di mercato, per la quale non sussistevano le condizioni generali.perciò, la nozione di "valore" che predominò doveva riflettere questi limiti e fu essenzialmente riferita al valore d'uso delle merci piuttosto che al valore di scambio, anche se Aristotele ne scopre la differenza. Senofonte, il più "borghese" di tutti, era interessato più al valore d'uso che al valore di scambio. Dunque limiti storici e non certo di criteri morali o di mantalità.
E' molto dificile se non impossibile applicare concetti moderni come valore d'uso, valore di scambio o persino lotta di classe all'ambito specifico e sincronico della cultura e della storia della antica grecia. Così come le categorie di "borghese" o proletario o di "economia di mercato". Per quanto illustri filologi del calibro di Citti, possano ottenere in tal senso risultati apprezzabili, continuando ad orientarsi nella categoria sotto certi aspetti intramontabile del materialismo storico, tutto ciò non assume certo un significato pregnante in senso assoluto. Il limite storico è dunque più nostro che degli antichi greci per i quali, ad esempio, non esisteva discriminante alcuna tra sfera morale, religiosa, politica o civile, tanto che che gli stessi loro templi funzionavano in gran parte come certe nostre banche, solo che non avevano come scopo il profitto fine a se stesso. Ecco, questo per noi è un limite straordinariamente grande, tanto da renderci assai piccini al confronto. Il mio, in ogni caso, non era un exursus comparativo, ma più semplicemente un breve "au rebour", per provare ad uscire da un orizzonte che si presenta oramai tanto totalizzante nelle sue pretese teoriche, quanto totalitario nei suoi effetti pratici..globali.
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