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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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sabato 31 marzo 2012

NO AL PAGAMENTO DEL DEBITO!




31 marzo: tutti in piazza a Milano!
NO AL PAGAMENTO DEL DEBITO!
CONTRO L’EUROPA DEI PADRONI E DEI BANCHIERI
PER UN’EUROPA DEI LAVORATORI, PER UN’EUROPA SOCIALISTA
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(a seguire)
Il Manifesto delle sezioni europee
della Lega Internazionale dei Lavoratori - Quarta Internazionale




Sabato 31 marzo il Comitato “Occupyamo piazza affari” promuove a Milano una manifestazione nazionale contro Monti e la Banca Centrale Europea, per dire no al pagamento del debito.
E’ una manifestazione importante, organizzata nel momento in cui il governo Monti, su mandato della troika (Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea), sferra l’ennesimo pesantissimo attacco alla classe lavoratrice e alle masse popolari. La “riforma” del lavoro di Monti e Fornero, con o senza i piccoli ritocchi proposti dalla burocrazia Cgil e dal Pd, lascerà il definitivo via libera ai licenziamenti indiscriminati. Per rispondere a questo attacco occorre organizzare subito un vero grande sciopero generale, che blocchi il Paese fino al ritiro della “riforma”.
Analoghi attacchi provengono dai governi di tutta Europa, in particolare dai governi della periferia della zona euro, i cosiddetti Piigs: in particolare in Grecia, Spagna, Portogallo e Italia i governi stanno varando controriforme del lavoro che smantellano la contrattazione collettiva e lo stato sociale, riducono ulteriormente i salari, aprono la strada ai licenziamenti indiscriminati. La crisi del debito pubblico viene utilizzata dai governi (di centrodestra o centrosinistra, indifferentemente) per giustificare la guerra sociale contro le masse popolari: il ricatto del debito è strumento privilegiato del capitale finanziario per appropriarsi della ricchezza.
La parola d’ordine lanciata nelle piazze dal movimento del 15 ottobre “noi il debito non lo paghiamo” è una parola d’ordine corretta, che la classe operaia e i giovani devono fare propria. Il debito è il debito dei padroni e dei banchieri, che hanno ricevuto ingenti finanziamenti pubblici: non è il debito delle masse lavoratrici, degli studenti, degli immigrati e dei disoccupati. Per dire No al ricatto del debito, la Lega Internazionale dei Lavoratori-Quarta Internazionale (di cui il Pdac è sezione italiana) promuove una campagna internazionale per il non pagamento del debito.
Il comitato promotore della manifestazione del 31 marzo a Milano propone ambiguamente “una società fondata sui diritti civili e sociali, sul pubblico, sull’ambiente e sui beni comuni”, la “riconversione del sistema industriale con tecnologie e innovazione” (come se questo fosse possibile nel capitalismo in putrefazione). Si tratta di un confuso programma di opposizione al "liberismo" e non al capitalismo, un programma che, lungi dall’offrire una vera opzione alternativa alla crisi attuale, si fa promotore di una soluzione neokeynesiana e riformista, oggi più illusoria che mai.
Il Partito di Alternativa Comunista ritiene, invece, che occorra battersi per un altro sistema economico e sociale. La giusta rivendicazione del non pagamento del debito va allora associata ad altre rivendicazioni, che la rendano concreta e realizzabile: la nazionalizzazione delle banche, espropriando i grandi azionisti e investitori; l’esproprio e la gestione operaia delle grandi imprese strategiche; l’uscita dall’euro e la rottura con l’Unione Europea; l’avvio di un grande piano di opere pubbliche con la riorganizzazione dell’industria e dei servizi sotto il controllo dei lavoratori.
Per attuare questo programma serve un governo dei lavoratori che avvii la costruzione di un’economia socialista e non c’è possibilità materiale alcuna di costruire il socialismo se non su scala europea e comunque mondiale. Per avanzare verso questa prospettiva serve un’azione di lotta unitaria della classe lavoratrice in Europa, a partire dall’organizzazione di un grande sciopero generale europeo. Occorre battersi per la prospettiva di un’Europa socialista, che ponga fine alla barbarie del capitalismo.
Le sezioni europee della Lit-Quarta Internazionale, riunite a Lisbona in occasione del Congresso di fondazione del Movimento di Alternativa Socialista (Mas) del Portogallo, hanno elaborato il manifesto che riproduciamo qui sotto.
E’ sulla base di questa piattaforma, nell’ambito della campagna internazionale contro il pagamento del debito promossa dalla Lit-Quarta Internazionale, che il Pdac partecipa alla manifestazione del 31 marzo a Milano.
 
 

 
Contro la guerra sociale dell'Unione europea
e dei governi della troika
 
Manifesto del Coordinamento delle sezioni europee della
Lega Internazionale dei Lavoratori - Quarta Internazionale
 
Abbasso i tagli e le riforme del lavoro!
Non un solo euro alle banche!
No al pagamento del debito pubblico alle banche!
Per un piano dei lavoratori e delle masse popolari contro la crisi!
Per una risposta europea unificata alla guerra sociale!
 
I governi europei hanno dichiarato una guerra sociale aperta contro i lavoratori, i giovani e le masse popolari del continente, al fine di imporre loro un arretramento storico. Questa guerra sociale si concentra con particolare virulenza nella periferia della zona euro (Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia) con il pieno coinvolgimento dell’Ue e dell’euro, strumenti politico-economici sviluppati dagli imperialismi europei al servizio delle banche e dei grandi gruppi imprenditoriali. La guerra sociale è la risposta del capitalismo europeo alla crisi capitalista iniziata nel 2007 - una crisi che può essere paragonata solo alla Grande Depressione – e che oggi ha il suo epicentro in Europa.
La politica dell’Ue esprime la necessità degli imperialismi centrali, tedesco e francese, di scaricare sulla periferia europea il peso della crisi, al fine di evitare che essa raggiunga in pieno il centro, minacciando frontalmente i loro interessi e spingendo l’economia mondiale verso l’abisso. La politica dell’Ue è anche uno strumento basilare per consolidare l’egemonia della borghesia tedesca sull’Europa. I piani di saccheggio che si abbattono sulla Grecia sono l’anticipo di un dramma che attraversa tutta la periferia europea.
La risposta dei lavoratori e dei settori popolari ai tagli e alle controriforme si fa sentire. Con la classe lavoratrice e il proletariato greco come indiscussa avanguardia, gli scioperi e le manifestazioni guadagnano le strade di Portogallo, Italia e Spagna, in un’onda europea che include i Paesi dell’Est (Romania), così come Gran Bretagna e Belgio.
In questa situazione critica, le sezioni della Lega Internazionale dei Lavoratori – Quarta Internazionale – riunite a Lisbona in occasione del Congresso di fondazione del Movimento Alternativa Socialista (Mas), si rivolgono fraternamente all’avanguardia militante europea per presentare la loro visione sull’attuale crisi e le alternative che si pongono.
 
L'Unione Europea e l'euro: armi di guerra contro i lavoratori e i proletari
La costituzione dell’Unione Europea e la successiva creazione dell’euro, al culmine di una lunga evoluzione partita alla fine della Seconda guerra mondiale, esprimevano la necessità degli imperialismi centrali europei di fare affidamento sugli strumenti che permettessero loro di raggiungere un doppio obiettivo: innanzitutto, mettere in moto un piano unificato per distruggere le conquiste ottenute dalla classe operaia europea nel dopoguerra e fare così del continente “la regione più competitiva del mondo”; insieme a questo, creare un fronte comune per contendere all’imperialismo nordamericano la sua parte di bottino nel saccheggio del mondo, affrontando nel contempo i “Paesi emergenti”. L’Ue, il cui cuore pulsante è la zona euro, non costituiva tuttavia uno Stato unificato, ma un blocco regionale imperialista di Stati, con un nocciolo duro formato dal capitalismo tedesco e francese (associati alla vecchia potenza britannica, con i suoi interessi specifici intorno alla City e le sue “relazioni speciali” con gli Usa). Intorno a questo nucleo si raggrupparono imperialismi di seconda e terza linea, come l’Italia, la Spagna, il Portogallo o la Grecia e, più indietro, i Paesi dell’Est “annessi” dopo il processo di ampliamento e sottomessi sin da subito ad un processo di ricolonizzazione da parte, soprattutto, del capitalismo tedesco.
L’euro fu, sin dalla sua creazione, uno strumento fondamentale per raggiungere l’egemonia tedesca sull’Europa. È servito per affermare il predominio, in primo luogo, dell’industria tedesca, le cui esportazioni verso la periferia si moltiplicarono, insieme alla deindustrializzazione di questa. I grandi deficit commerciali dei Paesi della periferia venivano largamente finanziati con le eccedenze di capitale delle banche tedesche e francesi, che non esitarono un solo istante ad alimentare generosamente processi speculativi come l’enorme bolla immobiliare spagnola.
Mentre questo processo si sviluppava e la periferia affondava in un mare di debiti, le sue banche e le sue finanze – dipendenti dal finanziamento tedesco e francese – ottenevano profitti record e si affermavano, insieme a settori come l’edilizia o l’energia, non rappresentando una minaccia per il dominio esportatore tedesco. Questa borghesia parassitaria della periferia si convertiva così nella beneficiaria e nell’agente della sottomissione agli imperialismi centrali.
L’indebitamento delle economie europee e, in particolare, della periferia, andato alle stelle a partire dalla nascita dell’euro nel 2000, faceva parte del processo generale di indebitamento privato e di speculazione che si sviluppava su scala mondiale, con epicentro nel sistema finanziario nordamericano (subprime). Quando l’onda di indebitamento generale non fu più sufficiente a prolungare la crisi di sovrapproduzione e la crisi capitalista alla fine scoppiò nel 2008, gli Stati si gettarono in massa a salvare le banche e i grandi capitalisti, dando inizio alla più grande guerra sociale contro la classe lavoratrice ed i settori popolari dagli anni ’30 del secolo scorso. In Europa, col debito privato delle banche convertito in debito pubblico e la periferia resa fragile e massicciamente indebitata, la crisi capitalista ha assunto – a partire dal 2010 – la forma di indebitamento pubblico. La crisi del debito pubblico si è così trasformata nella giustificazione della guerra sociale e nello strumento privilegiato del capitale finanziario per appropriarsi della ricchezza a costo dell’impoverimento massiccio delle masse popolari. Costituisce, al contempo, l’arma per sottomettere i Paesi della periferia ai capitalismi centrali, in particolare a quello tedesco.
 
Debito pubblico, tagli, controriforme e neocolonizzazione
I criminali tagli ai bilanci pubblici portano allo smantellamento e alla privatizzazione dei servizi pubblici di base della sanità, dell’istruzione, del sistema pensionistico, e all’aumento vertiginoso della povertà, mentre la disoccupazione (sospinta dalla recessione che i piani di austerità accentuano) avanza a tutta velocità, colpendo milioni di famiglie. I tagli ai sevizi pubblici procedono di pari passo con i piani di privatizzazione di quanto del patrimonio nazionale ancora era in mano pubblica. E, come parte inseparabile del pacchetto, le controriforme del lavoro, che in Grecia, Spagna, Portogallo o Italia, liquidano la contrattazione collettiva e consegnano i lavoratori all’arbitrio del padrone, con tutte le agevolazioni per licenziare a costi ridicoli e i sistemi per applicare una riduzione generale dei salari.
La soluzione borghese alla crisi capitalista implica quest’aumento brutale dello sfruttamento, in particolare nella periferia dell’euro, con un plusvalore che deve essere drenato in direzione delle banche francesi e tedesche, in un macabro festino cui partecipano come complici e soci di minoranza le banche e le grandi imprese del Paese. Tuttavia, per imporre ai Paesi della periferia il pagamento del debito è necessario il loro controllo politico. Questo processo, che è parte costituente dell’offensiva capitalista, si sta approfondendo a partire dallo scoppio della crisi del debito. In realtà, ciò è evidente già in Grecia, che vive la progressiva degradazione del suo status nazionale: da socio di minoranza degli imperialismi centrali alla condizione di neocolonia. Questo processo, che ha ritmi diseguali a seconda dei Paesi, colpisce tutta la periferia ed è inoltre inseparabile dai processi di bonapartizzazione dei regimi politici, in cui i governi si sottomettono direttamente all’Ue, tendono ad autonomizzarsi dalle maggioranze parlamentari e ad appoggiarsi progressivamente sugli apparati di coercizione statale, estendendo i provvedimenti di repressione e di restrizione dei diritti democratici.
Il saccheggio della periferia è inseparabile dagli strumenti con cui la borghesia lo applica: l’Unione Europea e l’euro, oggi riconfigurati intorno alla “Unione fiscale”, approvata su richiesta di Angela Merkel, che pone fine alla sovranità di bilancio degli Stati della periferia (1).
Il progetto dell’euro non è in discussione per gli imperialismi centrali, anche se la Grecia o il Portogallo dovessero finirne fuori. L’euro è stato un passo significativo per la costituzione dell’egemonia tedesca sull’Europa e continua ad essere un elemento chiave per assicurarla e per competere con gli Usa ed il Giappone.
La borghesia della periferia, dominata dalla finanza, non pone obiezioni rispetto alla collaborazione nel processo di sottomissione dei rispettivi Paesi ai diktat del capitalismo tedesco e francese, per poter così partecipare alla rapina del capitalismo imperialista in tutto il mondo. Mangia le carogne avanzate dai grandi predatori.
Siamo all’apice di un lungo processo storico di decadenza delle borghesie della periferia europea. L’Ue e la moneta unica sono state l’illusione di poter tornare al loro passato imperialista e coloniale, mentre l’indebitamento sembrava essere il passaporto d’ingresso al club dei grandi. Ma la crisi ha posto fine alle loro illusioni. Le borghesie della periferia europea non hanno più alcun margine di manovra, il loro indebitamento si è trasformato nel loro principale problema e sono obbligate a imporre un arretramento storico alle conquiste sociali. Oggi, se vogliono continuare ad essere socie di minoranza degli imperialismi centrali, devono, benché con ritmi distinti, consegnare i loro rispettivi Paesi a questi ultimi e assicurare che una parte più grande della ricchezza nazionale vada nelle mani delle banche tedesche e francesi. È il prezzo da pagare per rimanere nel club. Per questo, non c’è lotta possibile contro l’imperialismo tedesco che non preveda la lotta contro le borghesie della periferia europea.
Per i lavoratori, i settori popolari e i giovani della periferia non c’è alcuna prospettiva di futuro nell’Ue e nell’euro. I governi al servizio delle banche e dell’Ue, di centrodestra come di centrosinistra, dicono che “non c’è futuro fuori dell’Ue” e che “uscire dall’euro comporterebbe il caos”. Ma il “caos” è già rappresentato dal licenziamento per milioni di famiglie; dai licenziamenti e la chiusura di fabbriche; dal non poter giungere alla fine del mese con stipendi o pensioni miserabili; dalle scuole senza riscaldamento e con professori dagli stipendi tagliati e sempre più precarizzati; dal peggioramento generale della sanità pubblica o dal dover pagare per essere curati in un ospedale. Così come il fatto di restare nell’Ue e nell’euro rappresenta una necessità delle borghesie decadenti della periferia, così significa per l’immensa maggioranza della popolazione l’impoverimento e la rovina sociale.
Cercano di far pagare ai lavoratori e alle masse popolari la permanenza nell’euro e nell’Ue con grandi sofferenze. Nondimeno, importanti settori del padronato e del governo tedesco spingono chiaramente per un’uscita della Grecia e del Portogallo dalla moneta unica. Il loro problema è, in realtà, il quando e il come: non vogliono che ciò accada prima di portare a termine il saccheggio, ma soprattutto devono farlo in maniera “ordinata” e controllata, poiché non possono permettersi un contagio che trascini l’Italia o la Spagna e faccia scoppiare la zona euro provocando uno tsunami finanziario di livello europeo e mondiale.
 
Finisce l'epoca del welfare state
Non siamo di fronte ad un cambiamento qualsiasi, ma a un processo di cambiamento qualitativo delle relazioni fra le classi in ciascun Paese e delle relazioni fra gli stessi Paesi europei. Un cambiamento in cui debito pubblico, tagli, controriforme e neocolonizzazione della periferia formano un quartetto inseparabile con cui gli imperialismi centrali europei vogliono assicurarsi la loro egemonia e fissare le basi per competere con l’imperialismo nordamericano.
Non si può tornare indietro al vecchio scenario prima della crisi. Indipendentemente dallo sviluppo del processo in corso, il welfare state è finito, così come è finita l’Ue precedente alla crisi. Ora una parte importante della ricchezza nazionale della periferia non potrà essere ripartita e dovrà essere espatriata a vantaggio degli imperialismi centrali. Non sarà più possibile mantenere la pace sociale fra le classi grazie a bilanci pubblici che distribuiscano salario indiretto (istruzione, sanità, pensioni) alla maggioranza della popolazione. In questo contesto, le vittorie parziali dei lavoratori non daranno più luogo a conquiste stabili e potranno essere solo l’anticamera di battaglie più feroci. Lo sviluppo ultimo sarà o un arretramento storico della classe operaia europea nel quadro di un’Ue egemonizzata dall’imperialismo tedesco o la rottura con l’Ue e con l’euro e l’apertura di una via internazionalista rivoluzionaria.
 
La socialdemocrazia e le burocrazie sindacali
Per avanzare nella lotta per mantenere le loro conquiste e affrontare i governi, i lavoratori incontrano un grande ostacolo, rappresentato dai partiti socialdemocratici greci, spagnoli, portoghesi o italiani, che dal governo non hanno esitato ad applicare i piani dell’Ue e delle banche e che, dopo, dall’opposizione, fanno fronte comune e non ostacolano realmente i governi di destra o “tecnici” che li hanno sostituiti e che sono ora responsabili di imporre i piani di saccheggio e pauperizzazione.
Una grande sfida che abbiamo davanti è superare l’enorme ostacolo posto dalle burocrazie sindacali. Mentre la ferocia degli attacchi esige una risposta generale unificata in ogni Paese, nella periferia e su scala europea, queste burocrazie, organizzate nella Ces (2), si limitano a negoziare, Paese per Paese, l’intensità degli attacchi, convocando mobilitazioni che non mettono in questione i governi e neppure si pongono l’obiettivo di sconfiggere le riforme lavorative respingendo i “piani di austerità”. In realtà, non hanno mai messo in questione il pagamento del debito pubblico alle banche, né la politica di austerità in quanto tale, né tantomeno l’appartenenza all’euro e all’Ue, di cui sono i portabandiera. La loro opposizione si limita a chiedere che i tagli siano più lievi e a sollecitare una riforma fiscale. La loro vera preoccupazione sta nel negoziare la continuità dei propri privilegi, oggi direttamente attaccati o, in qualche misura, diminuiti e minacciati dalle riforme e dai tagli.
In questo momento, i nostri Paesi vivono un complesso, ricco e disuguale processo di riorganizzazione rispetto alla burocrazia sindacale. Questo processo si esprime, in alcuni casi, attraverso la formazione di organizzazioni sindacali alternative; in altri, attraverso opposizioni sindacali; e, nel caso della Grecia, attraverso comitati eletti e movimenti di coordinamento dalla base. Sviluppare questo processo richiede non solo rompere con i vecchi e consunti apparati burocratici, ma, ancor di più, unificare tutto questo movimento di opposizione alla burocrazia sotto le bandiere dell’indipendenza di classe e della democrazia operaia, superando ogni settarismo di apparato e avanzando verso la costruzione di un sindacalismo combattivo e di massa che costituisca un’alternativa al controllo delle burocrazie. Questa lotta richiede un’adeguata combinazione fra la denuncia della burocrazia sindacale e la sfida ad essa, di fronte ai lavoratori, a che si assuma le sue responsabilità nella lotta.
Non è giustificabile il rifiuto della burocrazia sindacale di convocare urgentemente giornate unitarie di sciopero e di lotta a livello della periferia dell’euro ed europea. Non si comprende come, proprio in queste settimane, possano essere convocati due scioperi generali, in Portogallo e in Spagna, a distanza di pochi giorni. La principale forza dei nostri nemici è proprio la nostra divisione da Paese a Paese, mentre essi sono uniti e disciplinati dall’Ue. Non potremo sconfiggere i loro piani senza unire internazionalmente le nostre forze, così come non ci sono “soluzioni nazionali” alla crisi. Per questo, è fondamentale accompagnare tutto questo movimento con passi concreti verso il coordinamento del sindacalismo combattivo europeo.
 
La sinistra europea e il programma rispetto alla crisi
Il crocevia della storia d’Europa mette alla prova anche le organizzazioni politiche della sinistra. Gli “europeisti”, come il Bloco de Esquerda del Portogallo, non considerano nessuna altra ipotesi alternativa al mantenimento del pagamento del debito alle banche, ma convenientemente “ristrutturato”. Secondo Louçã, il principale dirigente del Bloco, rimanere nell’euro e nell’Ue è irrinunciabile e, su questa base, occorre negoziare la dimensione dell’austerità. Questa posizione coincide con quella del Partito comunista portoghese che, a sua volta, dirige la burocrazia sindacale della Cgtp. Ma Louçã vive in un continente che esiste solo nei suoi sogni, perché l’Europa – l’Ue – non ammette alcuna negoziazione sul welfare state nella periferia. Questa politica del Bloco (e del Pcp) mantiene i lavoratori subalterni alla loro borghesia e alla Ue e li lascia senza alternative rispetto alla pauperizzazione e alla rapina. Una politica simile è difesa in Grecia da Syriza (3), che pure sostiene che si debba “ristrutturare il debito”, cioè ridurlo, diminuirlo, procrastinarlo… per continuare a pagarlo.
Questi partiti si rifiutano di porre il No al pagamento del debito e ne rifiutano perfino l’immediata sospensione, poiché sono consapevoli che ciò porterebbe all’uscita dall’euro e alla rottura con l’Ue: ciò che, dal loro punto di vista, equivale alla completa rovina del Paese. Ma questa è una politica cieca e suicida, che fa il gioco dell’imperialismo tedesco e francese. Perché tutti sanno che il debito greco, o quello portoghese, sono semplicemente impagabili e che l’Ue cerca solo il saccheggio del Paese. Mentre la Grecia e il Portogallo affondano rapidamente, questi partiti si limitano ad avvisare che si sta affondando e propongono come soluzione rendere più comodo il nodo scorsoio da cui pendono i lavoratori e i settori popolari.
Il Partito della Rifondazione Comunista italiano si limita ad una critica sciovinista al governo Monti per aver “ceduto sovranità alla Germania”, ma Monti è anche rappresentante dell’imperialismo italiano, che è complice di Angela Merkel. In realtà l'intenzione dei dirigenti di Rifondazione è tornare per la terza volta al governo con la stessa borghesia imperialista italiana che oggi sostiene Monti.
In quanto all’Npa francese, il suo candidato alla presidenza, Philippe Poutou sostiene: “crediamo che l’unico modo di porre fine ai diktat della redditività e della competitività [dell’Ue] è la costruzione di un’Europa dei popoli. Il vero problema non è se siamo ‘a favore’ o ‘contro’ l’Europa.” (4).
Ma è inutile barare: il problema non è se siamo "a favore’ o ‘contro" l’Europa in generale, bensì della particolare e concreta Europa che oggi esiste, quell’Europa imperialista che è l’Unione Europea, strumento di oppressione e colonizzazione delle masse popolari del continente al servizio degli imperialismi centrali.
Ai lavoratori greci, portoghesi, italiani o spagnoli, non si può dire che occorre “una rottura economica e sociale col sistema capitalista” in astratto accantonando il problema concreto del saccheggio dei loro Paesi attraverso l’Ue e l’euro. Non si può parlare seriamente di politica anticapitalista se si elude lo scontro con la forma concreta in cui la borghesia europea colpisce la classe lavoratrice e i proletari del continente.
Il programma di Philippe Poutou è quello dell’Npa e del Segretariato Unificato e sostiene: “In Europa, la risposta alla crisi non è il protezionismo nazionalista e l’uscita dall’euro. Ciò porterebbe ad una concorrenza fra i Paesi europei e a nuovi attacchi contro le masse popolari… per non parlare dello sviluppo dei movimenti sciovinisti e xenofobi. La risposta che occorre è un’Europa sociale, democratica ed ecologista, che rompa con le politiche e le istituzioni europee” (5).
Naturalmente non possiamo non concordare con il rifiuto del protezionismo nazionalista, ma non siamo d’accordo, ancora una volta, con il fatto che si menta. Perché ciò che in realtà stanno difendendo l’Npa ed il Su è che non ci sono alternative alla rottura con l’euro e l’Ue che non siano il protezionismo nazionalista borghese. E questo è falso. Questo dilemma è effettivamente quello delle borghesie europee, in particolare quelle della periferia, ma non della classe operaia e della sinistra. La borghesia e i governi della periferia minacciano, un giorno sì e l’altro pure, che l’uscita dall’euro equivale a precipitare i Paesi nell’abisso. Ma l’unica cosa certa è il contrario: i piani ai quali condizionano la permanenza dei Paesi della periferia nell’euro e nell’Ue sono la sicura condanna dei lavoratori e dei proletari all’impoverimento e alla rovina sociale.
Poutou dice che le misure necessarie affinché i lavoratori non paghino la crisi del capitale sono quelle che aprono la strada a “una rottura economica e sociale col sistema capitalista”, ma ciò significa rompere con la Ue e l’euro – questo sì – nel quadro di una soluzione internazionalista all’Europa del capitale.
L’Npa, con questa politica, finisce per consegnare all’estrema destra del Front National la bandiera della rottura con l’euro e l’Ue, poiché non lascia che due opzioni: restare nell’euro e nell’Ue (giustificandolo con una retorica sempre più vuota circa un preteso processo costituente che dovrebbe riformare istituzioni irriformabili, armonizzando socialmente l’Ue dall’alto) o aprire la strada al Front National e la sua politica xenofoba. Ma l’Npa scarta un’altra alternativa, in realtà l’unica che possa offrire una soluzione favorevole alla crisi storica del capitalismo europeo: rompere con l’euro e l’Ue, demolire questo embrione antidemocratico e antisociale del capitale finanziario che è l’Ue e sventolare la bandiera della solidarietà internazionalista e della lotta per una nuova Europa, quella dei lavoratori e delle masse popolari, quella degli Stati Uniti socialisti d’Europa.
 
Un programma di fronte alla catastrofeLa soluzione per fermare la catastrofe che devasta la Grecia e si abbatte sulla classe operaia, i giovani e le classi medie dei Paesi della periferia, è possibile solo rompendo con il salasso e la rapina dei Paesi e unendo le forze. La lotta immediata sta, naturalmente, nel respingere i tagli, le riforme delle pensioni e del lavoro, consapevoli che ciò richiede unificare le lotte in ogni Paese ed offrire una risposta comune in tutta la periferia europea.
Ma fermare il salasso esige come misura imprescindibile ed urgente il No al pagamento del debito alle banche e ai fondi speculativi. Neanche un euro dei bilanci pubblici deve andare alle banche, bensì alle necessità sociali! È urgente unire in ogni Paese, e coordinare in tutta la periferia europea, tutte le forze disposte a lottare per questo, al fine di convertire questa rivendicazione in un grande movimento di massa.
I frequentatori di salotti televisivi sbandierano l’argomento che questa misura porterebbe ad un fallimento catastrofico delle banche e, con esse, dell’economia. Ma c’è una risposta semplice: bisogna nazionalizzare le banche (espropriando i grandi azionisti ed investitori), unificarle e porle sotto controllo dei lavoratori e delle organizzazioni popolari, salvaguardando i depositi dei piccoli risparmiatori e ponendo il credito al servizio della riorganizzazione dell’economia a beneficio dell’immensa maggioranza della popolazione.
Non si possono conciliare le necessità basilari dei lavoratori e del proletariato con il “salvataggio” delle banche. ogni provvedimento serio per aiutare la popolazione lavoratrice si scontrerà direttamente con le necessità vitali delle borghesie della periferia e degli imperialismi centrali. Perciò l’uscita dall’euro e la rottura con l’Ue emerge come una necessità politica immediata se si tratta di salvare i lavoratori.
Sappiamo che il Paese che imboccherà questa strada andrà a scontrarsi con un boicottaggio spietato per distruggerlo. Per questo, come misure elementari di autodifesa e come mezzo necessario per organizzare adeguatamente la sua economia, dovrà stabilire il monopolio statale sul commercio estero e il pieno controllo dei movimenti valutari, così come la nazionalizzazione delle imprese strategiche, ponendole sotto controllo dei lavoratori. Allo stesso modo, per assicurare il lavoro a tutti e porre fine alla precarietà, dovrà dividere il lavoro fra tutti (scala mobile delle ore di lavoro), mettere in campo un vasto piano di opere pubbliche e riorganizzare l’industria e i servizi.
La crisi greca, come avamposto della crisi della periferia, mostra che l’unica classe che può impedire la bancarotta del Paese, fermare la profonda deriva antidemocratica e impedire il saccheggio, è la classe lavoratrice. Ma ciò esige che si ponga fine al governo fantoccio dell’Ue, sostituendolo con un governo dei lavoratori e delle masse popolari, retto dalle organizzazioni che sostengono la mobilitazione nelle fabbriche e nelle piazze. Solo un tale governo può assumere le misure necessarie ora descritte.
Non si tratta, peraltro, di un’alternativa limitata alla Grecia. La lotta e la vittoria in un Paese, in una prospettiva storica, non è altro che una soluzione provvisoria, perché senza la solidarietà internazionalista dei lavoratori del continente e del mondo, qualsiasi movimento rivoluzionario è condannato al fallimento. D’altro canto (a differenza di quanto proclama il Kke, Partito comunista greco), non c’è possibilità materiale alcuna di costruire il socialismo se non su scala europea e, ancora di più, mondiale. Di qui la necessità vitale di recuperare la prospettiva di lotta per gli Stati Uniti Socialisti d’Europa, riprendendo quella che era la bandiera della Terza Internazionale prima che Stalin la calpestasse.
Questo è l’impegno delle organizzazioni europee della Lega Internazionale dei Lavoratori – Quarta Internazionale (Lit-QI), è la lotta che vogliamo condurre insieme, fianco a fianco di tanti militanti e attivisti. In altre parole: facciamo appello ai lavoratori, ai giovani e alle masse popolari, perché lottino per una soluzione operaia alla crisi, che significa porre la questione del potere per la classe operaia. È in questa lotta che vogliamo costruire le nostre organizzazioni e ricostruire l’Internazionale rivoluzionaria di cui abbiamo bisogno come l’aria che respiriamo.
 
Lisbona, marzo 2012
 
 
Note(1) a) ci saranno sanzioni automatiche per tutti i Paesi che oltrepassano il limite di deficit pubblico fissato; b) il tribunale di giustizia potrà multare gli Stati che non approvino le leggi che garantiscono il patto di bilancio; c) l’Eurogruppo (consiglio composto dai ministri economici) avrà l’ultima parola sui bilanci degli Stati, che prima di passare per le aule parlamentari saranno vagliati dalla Germania; d) la Commissione europea detterà le linee di politica economica ai governi.
(2) Confederazione europea dei sindacati.
(3) Syriza (Coalizione della Sinistra Radicale) è un fronte elettorale lanciato nel 2004 e composto da varie organizzazioni della sinistra greca e personalità politiche. La principale organizzazione che la compone è il Synaspismos (Coalizione della Sinistra dei Movimenti e Ecologia). Ha nove deputati in parlamento.
(4) Http://poutou2012.org/L-Europe-fragilise-t-elle-ou.
(5) Relazione approvata dal Comitato Internazionale del Segretariato Unificato, 22 febbraio 2011 [il Su è l'organizzazione a cui fa riferimento, in Italia, Sinistra Critica, ndt].
 

5 commenti:

Carlo Felici ha detto...

Ormai abbiamo bisogno di una V Internazionale, la IV mi appare alquanto datata..e anche un poco "aliena"..

Stefano Santarelli ha detto...

Oltretutto di quale Quarta Internazionale stiamo parlando visto che ve ne sono parecchie che si autoproclamano tali.

Anonimo ha detto...

Si ma, la sezione italiana, da chi sarebbe rappresentata?

Luigi

Marco Spedicato ha detto...

Alla "V Internazionale" non ci crede neanche chi se l'è inventata (Chavez). In ogni caso creare accozzaglie prive di un programma rivoluzionario è, oltre che impossibile nella nostra situazione, perfettamente inutile. E' vero che siamo tornati a un livello di sfruttamento quasi ottocentesco, ma ciò non comporta affatto che si debba oggi ripetere il fallimento della Prima Internazionale. Il Novecento non è passato invano (come vorrebbero invece, e pour cause, i leccapiedi della borghesia).

Carlo Felici ha detto...

La questione che chi l'ha lanciata abbia poi fatto marcia indietro, non significa che il suo presupposto di base non resti valido, quel principio basilare per cui: "Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità". Concretamente, in particolare in America Latina, molti movimenti ecosocialisti stanno già andando in tale direzione. E potremmo dire che oggi, più di ieri tale cammino è un'urgenza immediata, data la velocità con cui procede la globalizzazione a senso unico neoliberista, nello sfruttamento dei popoli e nella devastazione ambientale.

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