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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 22 novembre 2012

Il declino tendenziale del saggio di profitto, di Riccardo Achilli




L’illustrazione di Marx

Il tema della legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto è, non a caso, insieme alla questione della trasformazione dei valori in prezzi, il più dibattuto e controverso della teoria del grande pensatore di Treviri. Non è un caso: dall'accettazione o confutazione di tale legge discende l'accettazione o confutazione dell'idea di una estinzione del capitalismo per via della sua stessa contraddizione interna fondamentale, ovvero la declinante capacità di valorizzare il capitale investito, fatto salvo, ovviamente, l’indiscutibile argomento per cui il capitalismo terminerà soltanto quando sorgerà la classe sociale che lo abbatterà.
Nei termini più semplificati possibili, Marx afferma che l'incremento continuo di investimento in macchinari e strumenti di produzione, mirato ad accrescere la produttività del lavoro, produce una tendenza alla caduta del tasso di profitto, anche quando ciò accresce il saggio del plusvalore. L'effetto depressivo derivante dall'incremento del capitale costante, infatti, più che compensa l'aumento del plusvalore. Formalmente:
-        sia q la composizione organica del capitale, ovvero q = Cc/Cv, dove Cc è il capitale costante, ovvero il valore-lavoro (lavoro morto) incorporato nella massa di macchinari e strumenti per la produzione, e Cv è il capitale variabile, ovvero il valore-lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro (approssimabile con il monte-salari);
-        sia s il saggio del plusvalore, ovvero s = Pv/Cv, dove Pv è il plusvalore estratto dal capitalista;
-        sia p il saggio di profitto, ovvero p = Pv/(Cc + Cv).
Se dividiamo numeratore e denominatore del saggio di profitto per Cv, otteniamo:

p = s/(q + 1)

Pertanto, un incremento della composizione organica del capitale q, derivante da un investimento in nuovi macchinari di produzione, se superiore al conseguente incremento del saggio di plusvalore s, associato alla maggiore produttività dovuta al migliore equipaggiamento tecnico di produzione, comporta evidentemente una riduzione del valore del saggio di profitto p.
Tuttavia lo stesso Marx circonda di notevole circospezione tale legge, onde evitare irrealistici meccanicismi. Nel libro III del Capitale, infatti, viene detto che tale legge rappresenta una tendenza generale, cioè di lungo periodo, mentre nel breve operano “fattori contrastanti”, ed in particolare Marx ne cita sei (un più intenso sfruttamento del lavoro, che fa crescere oltremodo s, la riduzione dei salari al di sotto del valore di riproduzione della forza-lavoro, la riduzione del valore di elementi di capitale costante, una crescita dell'esercito industriale di riserva, il commercio estero, che può ridurre il costo degli input produttivi, l'aumento della condivisione del capitale, che ne trasferisce il costo su altri soggetti).

Nei sistemi capitalistici maturi: tendenziale declino del saggio di profitto nel lungo termine, e sua tendenziale stabilità nel breve e medio termine

In questo paragrafo, cercherò di dimostrare che esiste, in linea con le previsioni di Marx, una tendenza di lungo periodo del saggio di profitto a scendere. Tale tendenza viene frenata, e parzialmente contrastata, ma solo nel breve e medio periodo, dalla struttura produttiva stessa del capitalismo maturo, ovvero dalle sue caratteristiche oligopolistiche e finanziarizzate.
Purtroppo i dati statistici non aiutano: la ricostruzione omogenea dei profitti su serie storiche lunghe è molto difficile, gli stessi risentono di artifici contabili e fiscali messi in opera dalle imprese, la ricostruzione dello stock di capitale di un'economia nazionale presenta notevoli difficoltà, la composizione settoriale dell'economia influisce esogenamente, e per lunghi periodi, sul valore del profitto aggregato, ecc.
L'esercizio condotto da Perri (2010), tramite i dati Ocse, sembrerebbe evidenziare una tendenza al calo del saggio di profitto lordo, fra gli anni Sessanta ed oggi, per Italia, USA e Giappone, mentre per Francia e Germania l'andamento della curva è inconclusivo. Peraltro, poiché i salari sono a prezzi correnti e non costanti, il decremento del saggio di profitto calcolato da Perri potrebbe dipendere da un effetto inflazionistico sui salari. L'economista marxista Robert Brenner evidenzi, in modo molto più robusto,a un calo del tasso di profitto netto statunitense fra 1948 e 1999, dovuto esclusivamente al comparto manifatturiero, mentre il comparto non manifatturiero mostra un andamento stagnante del tasso di profitto (fig. 1). Per l'Italia, da una personale stima sui dati Istat, che utilizza il risultato lordo di gestione come proxy del profitto, evidenzio che il saggio lordo di profitto deflazionato segue un andamento effettivamente decrescente, con il valore che passa dall'11,3% nel 1970 al 6,6% nel 2009 (fig. 2). Ma tale discesa è in parte alimentata da componenti del risultato lordo di gestione, come le rendite, che sono strutturalmente in calo (anche se incidono marginalmente). I dati statistici, quindi,  sembrano supportare una tendenza di lungo periodo verso il calo tendenziale del tasso di profitto, ma è evidente che il suo ritmo è troppo lento per poter far pensare ad un crollo del capitalismo in un futuro prevedibile.

Fig. 1 – Andamento del saggio di profitto netto nel comparto 
manifatturiero e non manifatturiero ed extragricolo degli USA, 1948-1999

Fonte: Robert Brenner, 2002





Fig. 2 – Andamento del tasso di profitto lordo in Italia nel periodo 1970-2009

Fonte: mia elaborazione su dati Istat

La conseguenza operativa di tali evidenze è che il saggio di profitto declina, ma nel lungo periodo, mentre occorre considerare, nel medio termine, l'intuizione di Sweezy e della Mosszkowska relativa alla tendenza del saggio di profitto verso la stagnazione, più che verso la sua riduzione (ovviamente stiamo ragionando di medio periodo; nel lungo periodo, l’evidenza statistica è per la riduzione). Da un lato, infatti, l'incremento di produttività consentito dall'introduzione di innovazione tecnologica, e quindi dall'aumento di capitale costante, controbilancia la spinta a ridurre il tasso di profitto; dall'altro, l'aumento di produttività può anche ridurre il valore dei nuovi beni capitali introdotti, cosicché ad un aumento del volume fisico di capitale costante non corrisponde sempre, automaticamente, un aumento del suo valore per unità di lavoro e di prodotto, e quindi della composizione organica del capitale (che per l'appunto è in valore). 
Tali effetti moderano, anche se non eliminano, la tendenza verso la riduzione del tasso di profitto, rendendola molto lenta.  Contrariamente all'opinione di una parte degli economisti marxisti, per cui l'attuale fase di oligopolizzazione e trustificazione dell'economia, avviatasi dagli anni Cinquanta, porterebbe ad una accelerazione della caduta del saggio di profitto, in realtà la concentrazione oligopolistica del capitale è il rimedio contro la caduta del tasso di profitto perché, da un lato, come sottolineano Gillmann e Pietranera, tale fase ha consentito di ottenere innovazioni di processo a forte effetto incentivante sulla produttività, economie di scala e rafforzamento del potere contrattuale nei confronti del lavoro e dei fornitori di materie prime e semilavorati. D'altro lato, la trustificazione ha ridotto la concorrenza, stabilizzando il prezzo e quindi i profitti ed ha portato, come sottolinea Sweezy, a curve di domanda tendenzialmente di tipo angolare, tipiche di mercati oligopolistici, nelle quali il prezzo si stabilizza ad un livello pari al costo pieno, con oscillazioni poco rilevanti, perché se l'impresa, in presenza di curva di domanda angolare, cerca di ridurre significativamente il prezzo per aumentare la quota di mercato, viene immediatamente imitata dai concorrenti, senza quindi riuscire ad aumentare la sua quantità venduta. Se invece aumentasse il prezzo al di sopra del costo pieno in misura consistente, perderebbe immediatamente il suo mercato.
In tale situazione, poiché il prezzo di equilibrio è basato sul principio del costo pieno, nel breve e medio periodo il profitto tende a stabilizzarsi, a smorzare la sua caduta, poiché è fissato come mark-up del prezzo. Quindi, poiché il prezzo non può aumentare per via della curva di domanda ad angolo, la concorrenza oligopolistica si sposta sempre più sulla qualità finale del prodotto e sul controllo dei costi di produzione interni in rapporto alla produttività.
Tali fattori, sempre nell’immediato, tendono a stabilizzare, se non ad accrescere, il profitto complessivo del sistema produttivo, poiché la maggiore qualità giustifica una parziale uscita dalla condizione di “angolarità” della curva di domanda, aumentando il prezzo senza necessariamente pregiudicare il profitto delle imprese concorrenti (perché l'impresa che fa qualità si sposta su una nicchia di mercato non concorrenziale, un po' come la Mercedes che non fa concorrenza diretta alle berline della FIAT, perché i segmenti di consumatori sono diversi). D'altro canto, una riduzione dei costi di produzione interni rispetto alla produttività dei fattori consente di ottenere maggiori profitti a parità di fatturato e di quota di mercato, anche in questo caso, quindi, senza pregiudicare il profitto dei concorrenti.



Fig.3 – curva di domanda concorrenziale ed oligopolistica (angolare)
  

Infine, l'oligopolizzazione delle strutture produttive e di mercato è alla base della finanziarizzazione crescente del capitalismo che, a partire dagli anni Ottanta, contrasta il declino del saggio di profitto, tramite la realizzazione di profitto fittizio sui mercati finanziari. Infatti, la leva fondamentale per lo sviluppo della finanziarizzazione è data proprio dalla rendita da oligopolista, ovvero l'extra-profitto ottenibile dal maggiore potere di mercato e dalla riduzione della concorrenza che l'oligopolista spunta, rispetto ad una condizione di concorrenza perfetta. Inoltre le crescenti interrelazioni azionarie fra imprese industriali e banche, innescate dai processi di crescita dimensionale e concentrazione oligopolistica, facilita ulteriormente l'accesso ai mercati finanziari da parte delle società industriali. Non è un caso che l'esplosione dei profitti finanziari delle grandi imprese private si verifichi proprio a partire dagli anni Sessanta, quando la struttura oligopolistica dei mercati diviene evidente: la quota dei profitti finanziari sui profitti totali delle società private statunitensi passa dall'11% nel 1966 al 22% nel 1974. Nei vent'anni precedenti, tale quota era rimasta invece relativamente stabile (era infatti pari all'8% nel 1948). La crescita prosegue poi fino ad un picco del 45% nel 2002 per poi ridiscendere al 15% nel 2009, a causa dell'esplosione della bolla finanziaria (dati Bureau of Economic Analysis).
Però è innegabile che il capitalismo sia in una profonda crisi di sistema, non certo dentro una oscillazione ciclica. Il problema dell'analisi della crisi del capitalismo va quindi spostato, almeno in parte, verso valle, ovvero dalla tradizionale sfera marxiana della produzione verso quella della distribuzione. Con una struttura di mercato sempre più oligopolistica, in cui la concorrenza si sposta dai prezzi alla qualità ed al controllo del rapporto fra costi e produttività dei fattori di produzione, i profitti, per periodi brevi o medi di tempo, tendono a stabilizzarsi, ed anche a crescere, anche senza la necessaria presenza di accordi di cartello. Il potere di mercato sui fornitori di materie prime e sui lavoratori è accresciuto, è possibile effettuare grandi investimenti in innovazione che aumentano la produttività riducendo il valore unitario del capitale costante sul prodotto finale, quindi senza scaricarsi sull'aumento della composizione organica del capitale, mentre è possibile accedere a crescenti economie di scala ed a redditizi profitti da investimento finanziario.
Tra l'altro chi, come Samir Amin, fa notare che la concentrazione oligopolistica genera problemi di crescita del profitto complessivo perché deprime quello delle piccole e medie imprese, omette di considerare il fatto che la quota delle PMI nei processi di accumulazione, e quindi di generazione di profitto, è oramai sempre più marginale. In Italia, patria della piccola impresa, il valore aggiunto per impresa generato dalle piccole imprese extragricole è di circa 12 euro, contro un valore medio di 59 euro per ogni impresa medio-grande. Il 48% del valore aggiunto extragricolo italiano è generato dallo 0,6% delle imprese più grandi. Nelle altre economie capitalistiche a minor presenza di piccola impresa, tali dati sono ancora più sperequati.
Ovviamente, la sfera produttiva è quella che genera la caduta tendenziale del saggio di profitto nel lungo termine, e che si riscontra nelle evidenze statistiche sopra illustrate. Infatti, il profitto finanziario genera irrimediabilmente bolle causate da una distorsione fondamentale nella legge del valore, e quindi nei processi di accumulazione, e la struttura oligopolistica, da un lato irrigidisce la struttura produttiva, rendendola sempre meno capace di reagire a shock di domanda, d’altro lato contribuisce a propagare le crisi finanziarie all’intera struttura economica ed a tutti i Paesi, a causa delle molteplici interrelazioni societarie e produttive tipiche di un capitalismo oligopolistico, che costruisce veri e propri reticoli globali di relazioni. In sostanza, è la struttura “stabile” del capitalismo che porta, in tempi lunghi, al declino del saggio di profitto.

Dalla sfera della produzione a quella del realizzo

Nel medio termine, però, le tensioni più rilevanti sul saggio di profitto non si verificano nella sfera produttiva, ma in quella successiva del realizzo della produzione. Le oscillazioni negative, anche molto forti, che il saggio di profitto sperimenta nel breve periodo, al di là della sua tendenza declinante di lungo termine, possono essere spiegate quasi interamente dall’andamento della domanda effettiva, definita come sommatoria di consumi privati e pubblici, investimenti (anche qui privati e pubblici) ed esportazioni al netto delle importazioni. Un andamento particolarmente negativo della domanda effettiva può infatti controbilanciare le già analizzate spinte di breve e medio periodo alla stabilizzazione del saggio di profitto, derivanti dall’oligopolizzazione e finanziarizzazione dei sistemi produttivi. Un brusco calo della domanda effettiva, generato ad esempio da uno shock sui mercati finanziari che produce una contrazione del risparmio, della propensione al consumo, del credito bancario e quindi degli investimenti, può quindi controbilanciare gli effetti stabilizzanti di breve e medio periodo forniti dall’assetto del sistema produttivo.
Il problema centrale diventa quindi quello della domanda effettiva.  L'enorme surplus realizzatosi negli anni Sessanta dal capitalismo oligopolistico si riversa, già dagli anni Settanta, ed ancora più in seguito, nell'investimento finanziario, dando risposta alla famosa domanda posta da Sweezy e Baran, nel loro “Capitale Monopolistico”, ovvero “per che cosa spendere?”
La concentrazione del capitale e la sua finanziarizzazione, che sono aspetti strettamente legati fra loro, come detto in precedenza, comportano necessariamente un rallentamento della crescita della domanda effettiva, al di sotto del suo trend potenziale. La concentrazione oligopolistica deprime la domanda perché il modello concorrenziale che si sposta dal prezzo al controllo del rapporto fra costi e produttività tende a deprimere la crescita dei salari reali, in particolare in quelle economie, come l'Italia, in cui le condizioni strutturali del contesto produttivo (infrastrutture, capacità di ricerca ed innovazione, efficienza della P.A., rilevanza dell'economia sommersa ed illegale, livelli di formazione del capitale umano, ecc.) generano diseconomie esterne che abbattono la crescita della produttività. In Italia, il reddito reale per lavoratore dipendente cresce soltanto del 18,3% fra 1977 e 2009, mentre la produttività del lavoro cresce del 48,9%, con una riduzione di reddito rispetto all'apporto produttivo fornito di oltre 15 punti percentuali. E' evidente che la maggiore ricchezza prodotta tramite l'incremento della produttività non trova riscontro in una crescita parallela dei redditi, quindi della capacità di consumare ed assorbire tale ricchezza prodotta, generando strutturalmente una problema crescente di crisi da realizzo. 
Tale crisi viene affrontata mediante lo sbocco delle esportazioni (infatti la nostra è un'economia fortemente orientata all'export) ma tale situazione trova, prima o poi, un limite nel fatto che il divario fra crescita della produttività e dei redditi da lavoro riguarda tutti i sistemi capitalistici, non solo il nostro, e quindi ad un certo punto diviene impossibile dare sfogo alla sovrapproduzione nazionale sui mercati esteri. Il costo del lavoro per unità di prodotto, in termini reali, scende, fra 2001 e 2011, da 0,68 a 0,637 negli USA,  da 0,717 a 0,683 in Germania, da 0,69 a 0,689 in Francia, da 0,694 a 0,614 in Spagna, da 0,663 a 0,594 in Giappone (dati Ocse), come effetto del divario crescente fra produttività e reddito reale, fenomeno che riguarda quindi tutti i Paesi capitalisti, e non solo il nostro, e che quindi tende ad estendere all'intero capitalismo globale la crescente condizione di sovrapproduzione come differenza crescente fra ricchezza prodotta e redditi percepiti dai produttori (solo che ovviamente, in termini assoluti e non relativi, i redditi crescono di più dove la produttività cresce maggiormente, ceteris paribus).
E' chiaro che quando la sovrapproduzione è estesa a tutti i Paesi capitalisti maturi, anche lo sfogo dell'export diventa meno rilevante. Nel momento in cui uno shock esogeno (come una bolla finanziaria) abbatte una domanda effettiva la cui crescita è già limitata, nell’ambito della condizione strutturale di sovrapproduzione, il saggio di profitto tracolla anche nel breve periodo.

Fig. 4 – Andamento della produttività e del reddito del lavoro in termini reali, fra 1977 e 2011

Fonte: mia elaborazione su dati Istat



Conclusione

L’analisi sin qui condotta conduce a ritenere che esista, in linea con le previsioni di Marx, una tendenza di lungo periodo del saggio di profitto a scendere, basata, ancor una volta secondo la teoria marxiana, sulle contraddizioni in sede di struttura produttiva. Tale tendenza viene frenata, e parzialmente contrastata, nel breve e medio periodo, dalla struttura produttiva stessa del capitalismo maturo, ma al costo di generare condizioni sistemiche di sovrapproduzione, che esplodono in vere e proprie recessioni, nel momento in cui uno shock esogeno colpisce una domanda effettiva già di per più bassa del suo livello potenziale. Pertanto, mentre il declino del saggio di profitto nel lungo periodo è spiegabile con le tradizionali spiegazioni marxiane di tipo produttivo, le sue oscillazioni nel medio periodo sono spiegabili dall’andamento della domanda effettiva.
Da tutte queste considerazioni, ne conseguono a mio avviso alcune indicazioni operative:
1)   nel medio termine, il capitalismo reagirà all’attuale recessione operando un cambiamento delle sue caratteristiche, come ne ha operati altri in passato, imperniato sulle seguenti direttrici:
- nei Paesi capitalistici maturi, macelleria sociale sui salari e la domanda, accompagnato da una forte spinta verso una maggiore produttività dei fattori rispetto al loro costo, perché la configurazione oligopolistica assunta in tali capitalismi maturi impedisce, come si è visto, la concorrenza di prezzo, ed implica, come unico strumento di ripristino di una profittabilità minima, la compressione dei costi dei fattori rispetto alla loro produttività. Ciò a sua volta implica, per tenere sotto controllo le conseguenti reazioni sociali, derive autoritarie e tecnocratiche che progressivamente estinguono i nostri sistemi democratici tradizionali, per sostituirli con una soft dictatorship;
- sviluppo dei capitalismi emergenti, per ricostruire in tali Paesi i bacini di domanda atti a ricostituire un incremento di domanda effettiva che riduca la condizione di sovrapproduzione sistemica, il che, come ben dice Amin, corrisponde ad una lentissima uccisione degli Stati Uniti da parte della Cina, ed al sorgere, molto lento e progressivo, di un nuovo ordine monetario, commerciale e politico mondiale, oltre che ad una nuova divisione internazionale del lavoro, in cui l'industria si sposterà dai capitalismi maturi a quelli emergenti;
- ricostruzione delle condizioni per rigenerare il profitto finanziario, come stabilizzatore della caduta del profitto reale, il che implica ancora una volta la macelleria sociale nei nostri Paesi maturi, poiché la speculazione finanziaria richiede la stabilità di parametri come i prezzi, i tassi di cambio, i tassi di interesse, e ciò può essere ottenuto soltanto in economie in cui il debito è sotto controllo, non vi sono tensioni inflazionistiche, ecc. Ciò implica anche una costante riduzione del ruolo dello Stato nell'economia e nella società, perché il laissez-faire e l'assenza di regolamentazione sono il bacino ideale entro il quale sguazza la speculazione finanziaria globale.
2)      In queste condizioni, occorre ricostruire una opposizione politica e sociale che sia il più inclusiva possibile di tutte le componenti della tradizione della sinistra, e senza pregiudiziali. Non posso essere d'accordo con le posizioni di Samir Amin e in generale del marxismo più ortodosso, secondo cui la tradizione socialdemocratica sarebbe obsoleta. Ha delle responsabilità gravi per la sua involuzione blairiana e social-liberista, ma non è vero che la socialdemocrazia, nella sua forma più radicale, vada abbandonata, poiché la sua tradizione più sana va recuperata. Se, come detto sopra, il capitalismo genera condizioni sistemiche di sovrapproduzione, e la sua finanziarizzazione e liberalizzazione riducono il ruolo dello Stato nell’economia, allora il Socialismo del XXI Secolo, se vuole proporre un modello diverso, deve riappropriarsi di concetti socialdemocratici come la programmazione pubblica, la nazionalizzazione delle imprese strategiche, il sostegno alla domanda effettiva. Se la ristrutturazione del capitalismo in crisi porta a forme di dittatura tecnocratica, occorre lavorare per la democrazia dal basso, il che significa coinvolgere, a livello progettuale, la società, e le sue forme spontanee di associazionismo, e ricostruire meccanismi di democrazia economica dal basso, di compartecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali, di progressiva socializzazione della produzione, di cooperativismo. Questo significa che la lotta di piazza e di movimento non può non accompagnarsi anche ad una lotta dentro le stesse istituzioni democratiche borghesi, in primis nel tentativo di preservarle da uno svuotamento definitivo delle loro sia pur modestissime capacità di rappresentanza e garanzia dei diritti politici;
3)      Occorre rifuggere da forme di nazionalismo, non perché il nazionalismo sia di per sé brutto, o evochi chissà quali scenari catastrofici, ma semplicemente perché la ristrutturazione del capitalismo per uscire dalla crisi è globale, non nazionale; i centri decisionali che stanno operando per portare a termine questo doloroso processo di ricostruzione prescindono dalle frontiere nazionali. Occorre che il panorama dell'azione politica mirata ad imporre un paradigma economico e sociale nuovo sia internazionale, altrimenti rischieremmo di combattere contro i centri di potere globali dal provincialismo delle nostre piccole frontiere. L'Europa, per noi, deve essere un traguardo, non una cosa da abbandonare. Deve essere profondamente trasformata rispetto alla sovrastruttura burocratica e dirigista attuale, che lavora solo per opprimere i popoli, deve essere resa un'Europa democratica e popolare, ma rifugiandoci dietro le frontiere nazionali non faremmo altro che dividerci, e fare lotte fra poveri. Se il baricentro del potere economico si sposta dall'Europa, che dovrà soltanto impoverirsi sempre più, è necessario che l'Europa resista, unitariamente, contro tale destino;
4)      occorre un forte orientamento antimperialista, occorre un modello di sviluppo armonioso e collaborativo, non competitivo, che guardi alle speranze di sviluppo e democrazia del Sud del mondo come se fossero le nostre stesse speranze di liberarci da un destino che ci si sta preparando e che, veramente, non è affatto bello;
5)      ad ogni modo la tendenza al declino del tasso di profitto, nel lungo periodo, è evidente. La transizione da un modo di produzione ad un altro è però un fatto che, nella sua fase iniziale e pre-rivoluzionaria, dipende dal progressivo emergere di elementi “in fieri” del nuovo modo di produzione all’interno di quello esistente. Il modo di produzione schiavistico iniziò ad essere superato nel momento in cui, a partire dal III Secolo, il sistema del colonato pose le basi per il modo di produzione feudale, creando la servitù della gleba, il radicamento sulla terra, le prime forme di gerarchia feudale. Il feudalesimo iniziò ad essere superato quando l’economia mercantile, stimolata dalla colonizzazione, generò le prime forme di accumulazione originaria. Poi naturalmente arrivarono i salti rivoluzionari veri e propri, che però si verificarono quando le condizioni erano oramai mature. Questo significa che un programma economico di sinistra non può che stimolare la realizzazione di forme e modi di produzione diversi da quelli capitalistici, anche mediante esperimenti dal basso. Se il capitalismo assume forme oligopolistiche e finanziarizzate, allora occorre lavorare sull’autogestione dal basso, sul cooperativismo dei piccoli produttori autonomi che producono per sé stessi o per forme eque e solidali di scambio.

1 commento:

Unknown ha detto...

Caro Achilli, il suo scritto è di grandissimo interesse, ma la prego di spiegare come arriva alla formula p=s/(q+1). Mi risulta infatti incomprensibile non logicamente ma algebricamente.
Molte Grazie
Adalberto Belfiore

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