di Friedrich Engels
Il saggio non fu mai condotto a termine, il presente scritto fu pubblicato per la prima volta nel 1896, sulla rivista Die Neue Zeit.
Trascritto da Ivan Argenio, Dicembre 1999
Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, dicono gli studiosi di economia politica. Lo è, accanto alla natura, che offre al lavoro la materia greggia che esso trasforma in ricchezza. Ma il lavoro è ancora infinitamente più di ciò. È la prima, fondamentale condizione di tutta la vita umana; e lo è invero a tal punto, che noi possiamo dire in un certo senso: il lavoro ha creato lo stesso uomo.
Centinaia di migliaia di anni fa, in una fase ancora non precisabile di quell’era che i geologi chiamano terziaria, probabilmente verso la sua fine, viveva in una qualche parte della zona torrida - verosimilmente su di un grande continente ora sprofondato nell’Oceano Indiano una famiglia di scimmie antropomorfe giunta a uno stadio particolarmente alto di sviluppo. Darwin ci ha dato una descrizione approssimativa di questi nostri antenati. Erano estremamente pelosi, avevano la barba, le orecchie appuntite, e vivevano in branchi sugli alberi.
A motivo anzitutto del loro modo di vivere (l’arrampicarsi porta a un impiego delle mani diverso da quello dei piedi) queste scimmie cominciarono a perdere l’abitudine di aiutarsi con le mani quando procedevano su terreno piano e ad assumere sempre più la posizione eretta. Con ciò era fatto il passo decisivo per il trapasso dalla scimmia all'uomo.
Tutte le scimmie antropomorfe ancora viventi possono stare ritte e muoversi facendo uso solo dei due piedi. Ma solo in caso di necessità e in modo estremamente impacciato. Il loro modo naturale di camminare è in posizione semieretta e comporta l’impiego delle mani. La maggior parte di esse appoggia le articolazioni del polso sul terreno e fa oscillare il corpo, con le gambe contratte, tra le lunghe braccia. Proprio come uno storpio, che cammini con le grucce. In generale, possiamo osservare ancor oggi nelle scimmie tutti i gradini di passaggio dall’andare a quattro zampe fino al camminare sui due piedi. Ma quest’ultimo modo di procedere, in tutte le specie di scimmie, non arriva mai ad essere più che un mezzo accessorio in caso di bisogno.
Se il camminare eretti divenne per i nostri villosi antenati dapprima regola e col tempo una assoluta necessità, ciò vuol dire che alle mani spettarono frattanto attività di natura via via sempre più diversa dall’originaria. Anche tra le scimmie regna una certa divisione di compiti nell’impiego della mano e del piede. Come si è già accennato, nell’arrampicarsi la mano viene usata in modo diverso dal piede. Essa viene usata di preferenza per cogliere il cibo e tenerlo fermo; cosa che accade già nel caso di mammiferi inferiori per le zampe anteriori. Con le mani, molte scimmie si costruiscono nidi sugli alberi o addirittura, come lo scimpanzé, tettoie tra i rami per ripararsi dai temporali. Con le mani afferrano randelli per difendersi dai loro nemici, o pietre e frutta per bombardarli. Con esse compiono in prigionia tutta una serie di piccole operazioni imitando gli uomini. Ma proprio in quest’ultimo caso si vede quanto è grande la differenza tra la mano non sviluppata della scimmia, anche della più simile all’uomo, e la mano dell’uomo altamente perfezionata dal lavoro di centinaia di migliaia di anni. Il numero delle articolazioni e dei muscoli, la loro disposizione generale sono, nei due casi, gli stessi; ma la mano del selvaggio più arretrato può compiere centinaia di operazioni che nessuna scimmia riesce ad imitare. Nessuna mano di scimmia ha mai prodotto il più rozzo coltello di pietra.
Perciò le operazioni alle quali i nostri antenati impararono ad abituare la loro mano, a poco a poco, nel corso di molti millenni, non possono essere state all’inizio se non molto semplici. I selvaggi più arretrati, anche quelli nei quali c’è da supporre una ricaduta nello stato più propriamente animale con contemporanea involuzione dell’organismo, sono sempre a un livello molto superiore a quello di quegli esseri di transizione. Perché si arrivasse al momento in cui il primo ciottolo fu lavorato dalla mano dell’uomo fino ad essere trasformato in coltello, possono essere trascorse epoche di lunghezza tale che al confronto l’epoca storica a noi nota può apparire insignificante. Ma il passo decisivo era compiuto: la mano era diventata autonoma e poteva ora acquistare una crescente destrezza: la maggiore scioltezza così acquistata si trasmise e si accrebbe di generazione in generazione.
La mano non è quindi soltanto l’organo del lavoro: è anche il suo prodotto. La mano dell'uomo ha raggiunto quell'alto grado di perfezione, sulla base del quale ha potuto compiere i miracoli dei dipinti di Raffaello, delle statue di Thorwaldsen, della musica di Paganini, solo attraverso il lavoro: attraverso l’abitudine a sempre nuove operazioni, attraverso la trasmissione ereditaria del particolare sviluppo dei muscoli, dei tendini, e, a più lungo andare, anche delle articolazioni, per questa via acquisito: attraverso la sempre rinnovata elaborazione dei perfezionamenti così ereditati per mezzo di nuove, e sempre più complicate, operazioni.
Ma la mano non era isolata. Essa era soltanto un singolo membro di un organismo completo, estremamente complesso. E ciò che era acquisito per la mano, era acquisito anche per tutto il corpo, al servizio del quale la mano lavorava, e invero in duplice modo.
In primo luogo, come conseguenza della legge che Darwin ha chiamato di correlazione dello sviluppo. Secondo questa legge, determinate forme di singole parti di un essere organico sono sempre collegate a certe forme di altre parti, che non hanno apparentemente alcun rapporto con le prime. Tutti gli animali, per esempio, che possiedono globuli rossi senza nucleo e il cui occipite è collegato alle prime vertebre dorsali mediante due articolazioni (i condili), hanno anche, senza eccezione, ghiandole mammarie per l’allattamento dei piccoli. E così, nei mammiferi, zoccoli bifidi sono regolarmente legati a uno stomaco plurimo per la ruminazione. Modificazioni di determinate forme portano con sé modificazioni della forma di altre parti del corpo, senza che noi siamo in grado di spiegare tale rapporto. Gatti completamente bianchi con occhi azzurri sono sempre, o con pochissime eccezioni, sordi. Il graduale raffinamento della mano umana e il parallelo sviluppo del piede per la necessità del cammino in posizione eretta hanno indubbiamente agito di riflesso su altre parti del corpo anche a causa di simili correlazioni. Ma una tale influenza è stata studiata ancora troppo poco, per poter qui andare al di là di una semplice constatazione della sua esistenza.
Molto più importante è la reazione diretta, dimostrabile, dello sviluppo della mano sul resto dell’organismo. Come abbiamo già detto, i nostri antenati scimmieschi erano socievoli; è evidentemente impossibile far discendere l’uomo, il più socievole di tutti gli animali, da un progenitore prossimo non socievole. Il dominio sulla natura iniziatosi con lo sviluppo della mano, con il lavoro, ampliò, ad ogni passo in avanti che veniva fatto, l’orizzonte dell’uomo. Egli andava scoprendo, di continuo, nuove proprietà, fino ad allora sconosciute, nelle cose della natura. D’altro lato, lo sviluppo del lavoro ebbe come necessaria conseguenza quella di avvicinare di più tra loro i membri della società, aumentando le occasioni in cui era necessario l'aiuto reciproco, la collaborazione, rendendo chiara a ogni singolo membro l’utilità di una tale collaborazione. Insomma: gli uomini in divenire giunsero al punto in cui avevano qualcosa da dirsi. Il bisogno sviluppò l’organo ad esso necessario: le corde vocali, non sviluppate, della scimmia, si andarono affinando, lentamente ma sicuramente, abituandosi a una modulazione sempre più accentuata; la bocca e gli organi vocali impararono a poco a poco a emettere una sillaba articolata dopo l'altra.
Il paragone con le bestie dimostra che questa spiegazione della nascita del linguaggio dal lavoro e con il lavoro è l’unica giusta. Quel poco che le bestie, anche le più sviluppate, hanno da comunicarsi se lo possono comunicare anche senza linguaggio articolato. Nessuna bestia allo stato di natura sente come una mancanza il fatto di non parlare o di non poter comprendere il linguaggio umano. Le cose stanno in modo del tutto diverso per le bestie che sono state addomesticate dall’uomo. Nella consuetudine con l’uomo, il cane ed il cavallo hanno fatto talmente l'orecchio al linguaggio articolato da poter comprendere facilmente qualsiasi lingua, nei limiti delle idee ad essi accessibili. Hanno inoltre acquistato la capacità di provare dei sentimenti, che prima erano ad essi estranei: come l’attaccamento all’uomo, la riconoscenza ecc. Chi ha avuto consuetudine con queste bestie non si sottrae facilmente all'idea che ci siano parecchi casi nei quali esse, adesso, sentono come una mancanza la loro incapacità di parlare; mancanza alla quale certo non si può più purtroppo portare un rimedio perché i loro organi vocali si sono ormai troppo nettamente differenziati in una ben determinata direzione. Ma là dove esiste un organo adatto, anche una tale incapacità viene a cadere, entro certi limiti. Gli organi vocali degli uccelli son certo diversi quanto è possibile immaginarlo da quelli umani, e tuttavia gli uccelli sono le sole bestie che imparino a parlare. L’uccello che ha la voce più sgradevole, il pappagallo, è quello che parla meglio. Non si dica che egli non comprende quello che dice. Senza dubbio, ripeterà ciarliero tutto il suo patrimonio di parole per ore ed ore, per il semplice gusto di parlare e per il fatto che sta in compagnia di uomini. Ma entro i limiti delle cose che comprende può imparare anche a capire quello che dice. Si insegnino a un pappagallo delle ingiurie, in modo che si faccia una idea del loro significato (è uno dei sommi piaceri dei marinai che tornano veleggiando dai paesi tropicali); lo si stuzzichi, e si vedrà ben presto che sa far uso dei suoi insulti non meno appropriatamente di un’erbivendola berlinese. Lo stesso si dice per quel che riguarda la richiesta di leccornie.
In primo luogo il lavoro, dopo di esso e con esso il linguaggio: ecco i due stimoli più essenziali sotto la cui influenza il cervello di una scimmia si è trasformato gradualmente in un cervello umano, molto più grande e perfetto secondo ogni verosimile ipotesi. Al perfezionamento del cervello si accompagnò però di pari passo il perfezionamento dei suoi strumenti più immediati: gli organi sensoriali. Come il graduale sviluppo del linguaggio è necessariamente accompagnato da un corrispondente aumento dell’organo dell’udito, così più in generale lo sviluppo del cervello è accompagnato da quello di tutti i sensi. L'aquila vede molto più lontano dell'uomo, ma l'occhio dell'uomo scorge molto di più nelle cose che non quello dell'aquila. Il cane ha narici assai più penetranti dell'uomo, ma non distingue fra di loro la centesima parte degli odori che per l'uomo sono ben determinati indici di cose differenti. E il tatto, che nella scimmia esiste solo al suo più grezzo stato iniziale, si è andato formando solo con la formazione della mano umana, attraverso il lavoro.
Lo sviluppo del cervello e dei sensi al suo servizio, della coscienza che si andava facendo vieppiù chiara, della capacità di astrarre e di ragionare, esercitò di rimando la sua influenza sul lavoro e sul linguaggio, dando ad entrambi un nuovo impulso per un ulteriore sviluppo. Questo ulteriore sviluppo non arrivò davvero a una definitiva conclusione quando l'uomo arrivò a distinguersi in modo definitivo dalla scimmia. Tale sviluppo invece, nelle linee generali, è proseguito possente; certo in misura diversa a seconda dei popoli e delle epoche, qua e là perfino interrompendosi e subendo delle involuzioni in un dato posto e in una data epoca. Esso fu da un lato potentemente stimolato, dall'altro indirizzato in un senso determinato da un nuovo elemento che compare quando l’uomo diviene veramente tale: la società.
Sono certamente trascorsi centinaia di migliaia di anni (non più, per la storia della terra, di quel che sia un secondo per la vita umana [*1]) prima che dai branchi di scimmie arrampicatrici venisse fuori una società di uomini. Ma alla fine essa si trovò formata. E qual è la differenza che noi troviamo ancora una volta come differenza caratteristica tra il branco di scimmie e la tribù di uomini? Il lavoro. Il branco di scimmie si limitava a devastare il proprio territorio di pascolo, quel territorio i cui limiti erano segnati o dalla posizione geografica o dalla resistenza di un branco confinante. Il branco intraprendeva sì migrazioni e battaglie, per conquistare nuovo terreno di pascolo, ma era incapace di trar fuori dal suo territorio di pascolo più di quel che la natura stessa offriva (a prescindere dal fatto che inconsapevolmente lo concimava con i suoi escrementi).
Una volta che tutti i possibili territori di pascolo erano stati occupati non poteva più aver luogo nessun incremento della popolazione delle scimmie; il numero delle bestie poteva tutt'al più mantenersi costante. Ma presso tutte le bestie ha luogo, in misura elevata, lo spreco del nutrimento, e con esso l'uccisione in germe del nuovo nutrimento. Il lupo non risparmia, come fa il cacciatore, la femmina del capriolo, che gli deve fornire nel prossimo anno i piccoli. Le capre di Grecia, distruggendo con il loro pascolare i piccoli arbusti all'inizio della loro crescita, hanno spogliato di vegetazione tutti i monti del paese. Questa "depredazione" propria delle bestie riveste un importante ruolo nella graduale trasformazione delle specie animali, in quanto le costringe ad assuefarsi a un nutrimento diverso dal loro abituale: con ciò nuovi composti chimici entrano nel loro sangue, e tutta la costituzione dell'organismo si altera a poco a poco, finché si estinguono le vecchie specie nelle forme in cui si erano una volta fissate. Non v'è dubbio che tale depredazione ha potentemente contribuito all'umanizzazione dei nostri antenati. Una razza di scimmie, molto più avanti di tutte le altre per intelligenza e capacità di adattamento, dovette essere portata da questa depredazione ad allargare sempre di più il numero delle piante per il suo nutrimento, a scegliere di queste piante sempre di più le parti adatte alla nutrizione di modo che, insomma, il nutrimento divenne sempre più vario e più varie con esso le sostanze immesse nell'organismo, i presupposti chimici dell'umanizzazione. Tutto ciò non era però ancora vero e proprio lavoro. Il lavoro comincia con la preparazione di strumenti. E quali sono gli strumenti più antichi, quelli che ritroviamo per primi? Quelli che dobbiamo ritenere come i più antichi, stando a ciò che è stato scoperto del patrimonio degli uomini preistorici, e stando a ciò che ci dice tanto il modo di vivere dei primi popoli di cui ci tramanda notizia la storia, che il modo di vivere attuale dei selvaggi più arretrati? Sono strumenti per la caccia e per la pesca: i primi, al tempo stesso, armi. Ma la caccia e la pesca presuppongono il passaggio dall'alimentazione puramente vegetale al gusto della carne: e questo è un altro passo essenziale nel processo di umanizzazione. L'alimentazione carnea conteneva, quasi bell’e pronte, le sostanze più essenziali delle quali l'organismo ha bisogno per rinnovare i suoi tessuti; abbreviò i tempi della digestione e con essa di tutti gli altri processi vegetativi dell'organismo, cioè di quei processi che hanno il loro corrispondente nel regno vegetale; e portò con ciò un acquisto di tempo, di sostanze, di energia, per l'attivazione della vita più propriamente animale. E quanto più l'uomo in divenire si allontanava dalla pianta, tanto più si elevava anche al disopra della bestia. Come l'abitudine al cibo vegetale, accanto alla carne, ha trasformato il cane e il gatto selvaggio in servitori dell'uomo, così l'assuefazione alla carne come cibo, accanto ai vegetali, ha contribuito a dare all'uomo in divenire forza fisica e indipendenza. Ma la nutrizione carnea esercitò la sua influenza più importante sul cervello, al quale pervenivano, in copia molto maggiore di prima, le sostanze necessarie per il suo nutrimento e per il suo sviluppo, e che si poté quindi sviluppare in modo più rapido e più completo di generazione in generazione. Col permesso dei signori vegetariani, l’uomo non si sarebbe formato senza alimentazione carnea; e se è pur vero che l’alimentazione carnea ha prima o poi, per un certo periodo, condotto tutti i popoli a noi conosciuti all’antropofagia (gli antenati dei berlinesi, i Veletabi o Velsi, mangiavano i loro genitori ancora nel X secolo) la cosa ormai non ci tocca più.
L’alimentazione carnea portò a due nuovi progressi di importanza decisiva: l'uomo imparò a servirsi del fuoco e ad addomesticare le bestie. Il primo fatto abbreviò ancor di più il processo digestivo, portando alla bocca un cibo, potremmo dire, già per metà digerito; il secondo fatto rese più abbondante l'alimentazione carnea, aprendo, accanto alla caccia, una nuova regolare forma di rifornimento, e procurò inoltre, con il latte e i suoi prodotti, un nuovo nutrimento di valore certo non inferiore alla carne per composizione. I due fatti divennero così, già in modo diretto, nuovi mezzi di emancipazione per l’uomo; ci porterebbe ora troppo lontano il soffermarci nei dettagli sulla loro influenza indiretta, per quanto importante essa sia stata per lo sviluppo dell’uomo e della società.
L’uomo imparò a vivere sotto ogni clima, così come imparò a mangiare tutto ciò che era commestibile. L’uomo, l’unico animale che possedesse in sé la compiuta capacità di farlo, si espanse su tutta la terra abitabile. Gli altri animali che si sono assuefatti ad ogni clima - gli animali domestici e gli insetti - lo hanno fatto non da soli, con i propri mezzi, ma al seguito dell’uomo. Il passaggio dal clima uniformemente caldo della patria d'origine a quello di regioni più fredde, nelle quali l’anno si divideva in estate e inverno, creò nuovi bisogni: abitazione e vestiario per proteggersi dal freddo e dall’umidità. Nuovi campi di lavoro e con essi nuove attività, che allontanarono sempre di più l’uomo dall'animale.
Per l'azione congiunta della mano, degli organi vocali e del cervello, che esercitò la sua influenza non soltanto su ogni singolo individuo, ma anche sulla società, gli uomini divennero capaci di compiere operazioni sempre più complicate, di proporsi mete sempre più elevate e di raggiungerle. Il lavoro stesso, col passare delle generazioni, divenne altra cosa: divenne più completo, più multiforme. Alla caccia e alla pesca seguì l’agricoltura, a quest'ultima la filatura e la tessitura, la lavorazione dei metalli, la ceramica, la navigazione. Insieme al commercio e all'industria comparvero infine l'arte e la scienza; dalle "genti" vennero fuori le nazioni e gli stati. Si svilupparono il diritto e la politica, e con essi si sviluppò il riflesso fantastico delle cose umane nella mente umana: la religione. Di fronte a tutte queste creazioni, che si presentavano come prodotti diretti della mente e che sembravano dominare le società umane, i più modesti prodotti del lavoro manuale furono relegati in un secondo piano; tanto più che la mente organizzatrice del lavoro poté far eseguire da mani che non erano le proprie il lavoro ideato, e ciò sin dai primissimi stadi dello sviluppo sociale (per es., sin dal semplice stadio della famiglia). Tutto il merito dei rapidi progressi della civiltà venne attribuito alla mente, allo sviluppo e all’attività del cervello; gli uomini si abituarono a spiegare la loro attività con il loro pensiero invece che con i loro bisogni (che senza dubbio nel cervello si riflettono, e giungono alla coscienza). Sorse così, col tempo, quella concezione idealistica della vita, che ha dominato le menti sin dalla fine della civiltà antica. Essa è ancora tanto dominante, che persino gli scienziati materialisti della scuola darwinista non riescono ancora a farsi un'idea chiara delle origini dell'uomo, perché, essendo ancora sotto l'influsso ideologico dell'idealismo non riconoscono la funzione che ha avuto il lavoro in quel processo.
Come si è già accennato, anche gli animali, proprio come l'uomo, seppure non nella stessa misura, modificano con la loro attività la natura che li circonda. E le modificazioni da essi apportate all'ambiente reagiscono a loro volta, come abbiamo visto, su quegli animali stessi che ne sono stata la causa. Poiché nella natura non esistono avvenimenti isolati. Ogni fatto agisce sull'altro e viceversa. Il più delle volte, è proprio la dimenticanza di questo movimento in tutte le direzioni, di questa azione mutua, che impedisce ai nostri scienziati di veder chiaro nei più semplici fenomeni. Abbiamo osservato come le capre abbiano impedito il rimboschimento della Grecia; le capre e i maiali sbarcati a Sant’Elena dai primi naviganti che vi approdarono hanno quasi portato a termine la loro opera di distruzione dell'antica vegetazione e hanno così preparato il terreno adatto all'espansione delle piante portate più tardi da nuovi navigatori e da colonizzatori. Ma se gli animali esercitano un'influenza duratura sull'ambiente in cui vivono, la cosa avviene senza alcuna intenzione ed è, per gli animali stessi, qualcosa di casuale. Quanto più però l'uomo si allontana dall'animale, tanto più la sua influenza sulla natura assume l'aspetto di attività premeditata, svolta secondo un piano indirizzato a ben determinati scopi, anticipatamente noti. L'animale distrugge la vegetazione di una regione senza sapere quello che fa. L'uomo la distrugge per seminare sul terreno così sgombrato e per piantarvi alberi e viti, e sa che egli riavrà la semente moltiplicata. Egli trasferisce da una regione all’altra piante utili e animali domestici, e modifica così la flora e la fauna di interi continenti. Ma v'è di più. Con l'allevamento, ad arte, tanto le piante che gli animali vengono modificati in modo tale dalla mano dell'uomo, da divenire irriconoscibili. Le piante selvagge, dalle quali discende la varietà del nostro grano, si cercano ancora invano. E' ancor sempre in discussione da quali bestie selvagge derivino i nostri cani, che tante differenze hanno tra loro stessi, o le nostre altrettanto varie razze di cavalli.
E' del resto ovvio che a noi non viene in mente di contestare agli animali la capacità di agire secondo un piano, in maniera premeditata. Al contrario. Attività orientata secondo un piano esiste già, in germe, dovunque protoplasma, albume vivente, esiste e reagisce: compie cioè dei movimenti, sia pur semplici, in conseguenza di determinati stimoli esterni. Tali reazioni hanno luogo là dove ancora non ci sono addirittura cellule, per non parlare di cellule nervose. Il modo in cui le piante che divorano insetti afferrano la loro preda appare sotto un certo aspetto come un’azione predisposta secondo un piano, per quanto del tutto inconsapevole. Negli animali, nella misura in cui si sviluppa il sistema nervoso, si sviluppa la capacità di un’azione preordinata e cosciente, capacità che raggiunge già un alto livello nei mammiferi.
Nella “caccia alla volpe” inglese si può osservare ogni giorno con quanta precisione la volpe sappia impiegare la sua grande conoscenza dei luoghi, per sfuggire ai suoi persecutori, e quanto ben conosca e utilizzi tutte le particolarità del terreno atte a interrompere la traccia. Nel caso dei nostri animali domestici più altamente sviluppatisi nella consuetudine con l’uomo, possiamo osservare ogni giorno atti di scaltrezza che stanno assolutamente allo stesso livello di quelli che fanno i piccoli dell'uomo. Poiché, come la storia dello sviluppo del seme umano nel grembo materno non rappresenta altro che un’abbreviata ripetizione della storia dello sviluppo, lunga milioni di anni, degli organismi degli animali nostri antenati, a partire dai vermi, così lo sviluppo spirituale del piccolo dell’uomo non rappresenta che una ripetizione, ma solo ancor abbreviata, dello sviluppo intellettuale di quegli antenati, perlomeno dei più recenti. Ma nessuna preordinata azione di nessun animale è riuscita a imprimere sulla terra il sigillo della sua volontà. Ciò doveva essere proprio dell’uomo.
Insomma, l’animale si limita a usufruire della natura esterna, e apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l'uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina. Questa è l’ultima, essenziale differenza tra l’uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza.
Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze. Le popolazioni che sradicavano i boschi in Mesopotamia, in Grecia, nell'Asia Minore e in altre regioni per procurarsi terreno coltivabile, non pensavano che così facendo creavano le condizioni per l'attuale desolazione di quelle regioni, in quanto sottraevano ad esse, estirpando i boschi, i centri di raccolta e i depositi dell’umidità. Gli italiani della regione alpina, nell'utilizzare sul versante sud gli abeti così gelosamente protetti al versante nord non presentivano affatto che, così facendo, scavavano la fossa all'industria pastorizia sul loro territorio; e ancor meno immaginavano di sottrarre, in questo modo, alle loro sorgenti alpine per la maggior parte dell'anno quell'acqua che tanto più impetuosamente quindi si sarebbe precipitata in torrenti al piano durante l'epoca delle piogge. Coloro che diffusero in Europa la coltivazione della patata, non sapevano di diffondere la scrofola assieme al bulbo farinoso. Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato.
E, in effetti, comprendiamo ogni giorno più esattamente le sue leggi e conosciamo ogni giorno di più quali sono gli effetti immediati e quelli remoti del nostro intervento nel corso abituale della natura. In particolare, dopo i poderosi progressi compiuti dalla scienza in questo secolo, siamo sempre più in condizione di conoscere, e quindi di imparare a dominare anche gli effetti naturali più remoti, perlomeno per quello che riguarda le nostre abituali attività produttive. Ma quanto più ciò accada, tanto più gli uomini non solo sentiranno, ma anche sapranno, di formare un’unità con la natura, e tanto più insostenibile si farò il concetto, assurdo e innaturale, di una contrapposizione tra spirito e materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è penetrato in Europa dopo il crollo del mondo dell’antichità classica e che ha raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo.
Ma se è stato necessario il lavoro di millenni sol perché noi imparassimo a calcolare, in una certa misura, gli effetti remoti della nostra attività rivolta alla produzione, la cosa si presentava come ancor più difficile per quanto riguarda i più remoti effetti sociali di tale attività. Abbiamo citato il caso delle patate e della scrofola, diffusasi col loro diffondersi. Ma cos’è la scrofola di fronte agli effetti che provocò sulle condizioni di vita delle masse popolari di interi paesi il fatto che i lavoratori fossero ridotti a cibarsi di sole patate? Di fronte alla carestia che colpì l’Irlanda nel 1847 in conseguenza della malattia che distrusse le patate, e fece finire un milione di irlandesi che si nutrivano di patate e quasi esclusivamente di patate, sotto terra, altri due milioni al di là del mare? Quando gli arabi impararono a distillare l’alcool non si sognavano neppure di aver creato la principale tra le armi destinate a cancellare dalla faccia della terra gli aborigeni della ancor non scoperta America. E quando Colombo scoprì questa America non sapeva che, così facendo, risvegliava a nuova vita la schiavitù già da lungo tempo superata in Europa e gettava le basi per il commercio dei negri. Gli uomini, che con il loro lavoro produssero la macchina a vapore, tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, non avevano affatto il presentimento di costruire lo strumento che più d'ogni altro era destinato a rivoluzionare la situazione sociale di tutto il mondo, a procurare in particolare alla borghesia, in un primo tempo, il predominio sociale e politico, attraverso la concentrazione della ricchezza nelle mani della minoranza e la totale espropriazione della stragrande maggioranza, per generare poi tra borghesia e proletariato una lotta di classe, che può aver fine solo con l’abbattimento della borghesia e l’abolizione di tutti i contrasti di classe. Ma anche in questo campo noi riusciamo solo gradualmente ad acquistare una chiara visione degli effetti sociali mediati, remoti, della nostra attività produttiva, attraverso una lunga e spesso dura esperienza, e attraverso la raccolta e il vaglio del materiale storico; e così ci è data la possibilità di dominare e regolare anche questi effetti.
Ma per realizzare questa regolamentazione, occorre di più che non la sola conoscenza. Occorre un completo capovolgimento del modo di produzione da noi seguito fino ad oggi, e con esso di tutto il nostro attuale ordinamento sociale nel suo complesso.
Tutti i modi di produzione fino ad oggi esistiti si sono sviluppati avendo di mira i risultati pratici più vicini, più immediati, del lavoro. Le ulteriori conseguenze manifestantisi solo in un tempo successivo, operanti solo per graduale accumulazione e ripetizione, rimanevano del tutto trascurate. L’iniziale proprietà collettiva del suolo corrispondeva da una parte a uno stadio di sviluppo dell’uomo, che limitava in generale il suo orizzonte alle cose più vicine, e presupponeva d’altra parte una certa abbondanza di terreno a disposizione, che consentiva un certo giuoco di fronte ad eventuali cattivi risultati di quell'economia primitiva di tipo forestale. Esauritasi questa sovrabbondanza di terreno, si disgregò anche la proprietà collettiva. Ma tutte le forme superiori di produzione hanno portato alla divisione della popolazione in diverse classi e con ciò al contrasto tra classi dominanti e classi oppresse; con ciò però l'interesse della classe dominante diveniva l'elemento che dava impulso alla produzione, nella misura in cui quest'ultima non si limitava alle più indispensabili necessitò di vita degli oppressi. Questo processo si è sviluppato, nella maniera più completa nel modo di produzione capitalistico oggi dominante nell’Europa occidentale. I singoli capitalisti, che dominano la produzione e lo scambio, possono preoccuparsi solo degli effetti pratici più immediati della loro attività. Anzi questi stessi effetti – per quel che concerne l’utilità dell'articolo prodotto o commerciato – vengono posti completamente in secondo piano: l’unica molla della produzione diventa il profitto che si può realizzare nella vendita.
La scienza borghese della società, l’economia politica classica, si occupa soprattutto degli effetti sociali immediatamente visibili dell’attività umana rivolta alla produzione e allo scambio. Ciò corrisponde completamente all’organizzazione sociale, di cui essa è l’espressione teorica. In una società in cui i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto immediato, possono esser presi in considerazione solo i risultati più vicini, più immediati. Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vende la merce fabbricata o comprata con l’usuale profittarello e non lo preoccupa quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore. Lo stesso si dica per gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una generazione di piante di caffè altamente remunerative. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l’ormai indifeso "humus" e lasciassero dietro di sé solo nude rocce? Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato. E poi ci si meraviglia ancora che gli effetti più remoti delle attività rivolte a un dato scopo siano completamente diversi e per lo più portino allo scopo opposto; che l’armonia tra la domanda e l’offerta si trasformi nella sua opposizione polare, come mostra l'andamento di ogni ciclo industriale decennale (e anche la Germania, nel "crac", ne ha esperimentato un piccolo preludio); ci si meraviglia che la proprietà privata basata sul lavoro personale porti come necessaria conseguenza del suo sviluppo alla mancanza di ogni proprietà per i lavoratori, mentre tutti i possessi si concentrano sempre di più nelle mani di chi non lavora; che... [Qui il manoscritto si interrompe.]
Note
*1. Sir W. Thomson, un’autorità di primo rango in questo senso, ha calcolato che devono essere trascorsi all'incirca cento milioni di anni dall'epoca in cui la terra è giunta a un tal punto del suo raffreddamento da permettere la vita su di essa a piante ed animali.
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