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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 14 aprile 2011

Discorso in morte di Antonio Gramsci (3 maggio 1937) di Camillo Berneri

Camillo Berneri
Discorso in morte di Antonio Gramsci
3 maggio 1937

“Lavoratori! Compagni!
Antonio Gramsci è morto, dopo undici anni di carcere, in una clinica, guardato a vista dai poliziotti e negato alla famiglia fino negli spasmi dell’agonia. Mussolini è un tiranno che ha buon fiuto per individuare i nemici più temibili: e tra questi egli teme le intelligenze solide ed i caratteri inflessibili. Mussolini colpisce alla testa le opposizioni: scagliando la Ceka del Viminale contro Matteotti, facendo linciare dagli squadristi Amendola, rendendo la vita impossibile a Gobetti, gettando in carcere Riccardo Bauer, Ernesto Rossi ed altri intellettuali di prim’ordine. Mussolini ha voluto la morte di Gramsci. Non gli bastò saperlo al confino, tubercolotico. Lo volle sepolto vivo in carcere, dove lo tenne pur sapendolo soggetto ad emotisi, a svenimenti prolungati, a febbri altissime.
Il prof. Arcangeli, che visitò Gramsci nel maggio 1933, dichiarò in un rapporto scritto che <<il detenuto Gramsci non potrà sopravvivere a lungo in condizioni simili. Il suo trasferimento si impone in un ospedale civile o in una clinica, a meno che sia possibile accordargli la libertà condizionale>>.
Mussolini, pensando che un avversario avvilito è preferibile ad un avversario morto in piedi, gliela avrebbe accordata, la libertà condizionale, ma in calce ad una domanda di grazia. Ma Gramsci non era un qualsiasi Bombacci e, rifiutò la grazia, che sarebbe stata, secondo come egli ebbe a definirla <<una forma di suicidio>>.
Il martirio, già settennale, continuò. Passarono ancora degli anni. Le condizioni del recluso si fecero così gravi da far temere prossima la morte. Un’agitazione internazionale reclamò la liberazione. Quando fu ordinato il trasferimento in clinica, la concessione era fatta ad un moribondo.
Gramsci era un intellettuale nel senso intero della parola, troppo sovente usata abusivamente per indicare chiunque abbia fatto gli studi. Lo dimostrò in carcere: continuando a studiare, conservando sino all’ultimo le sue eccezionali facoltà di critica e di dialettica. E lo aveva dimostrato come capo del Partito Comunista Italiano, rifuggendo da qualsiasi lenocinio retorico, rifuggendo dalle cariche, sapendo isolarsi.
Piero Gobetti scriveva di lui, nel suo saggio La rivoluzione liberale:
<<La preparazione e la fisionomia spirituale di Antonio Gramsci invece apparivano profondamente diverse da queste tradizioni, già negli anni in cui egli compiva i suoi studi letterari all’Università di Torino e si era iscritto al Partito Socialista, probabilmente per ragioni umanitarie maturate nel pessimismo della sua solitudine di sardo emigrato.
Pare venuto dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l’eredità malata dell’anacronismo sardo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino. Porta nella persona fisica il segno di questa rinuncia alla vita dei campi, e la sovrapposizione quasi violenta di un programma costruito e ravvivato dalla forza della disperazione, dalla necessità spirituale di chi ha respinto e rinnegato l’innocenza nativa.
Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità intima, che dovette essere accettata senza discussione: il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale, e serba dello sforzo una rude serietà impenetrabile; solo gli occhi mobili e ingenui ma contenuti e nascosti dall’amarezza interrompono talvolta con la bontà del pessimista il fermo vigore della sua razionalità. La voce è tagliente come la critica dissolutrice, l’ironia toglie la consolazione dell’umorismo. C’è nella sua sincerità aperta il peso di un corruccio inaccessibile; dalla condanna della sua solitudine sdegnosa di confidenze sorge l’accettazione dolorosa di responsabilità più forti della vita, dure come il destino della storia; la sua rivolta è talora il risentimento e talora il corruccio più profondo dell’isolano che non si può aprire se non con l’azione, che non può liberarsi dalla schiavitù secolare se non portando nei comandi e nell’energia dell’apostolo qualcosa di tirannico. L’istinto e gli affetti si celano ugualmente nella riconosciuta necessità di un ritmo di vita austera nelle forme e nei nessi logici; dove non vi può essere unità serena e armonia supplirà la costrizione, e le idee domineranno sentimenti e espansioni. L’amore per la chiarezza categorica e dogmatica, propria dell’ideologo e del sognatore, gli interdicono la simpatia e la comunicazione, sicché sotto il fervore delle indagini e l’esperienza dell’inchiesta diretta, sotto la preoccupazione etica del programma, sta un rigorismo arido e una tragedia cosmica che non consente un respiro di indulgenza. Lo studente conseguiva la liberazione dalla retorica propria della razza negando l’istinto per la letteratura e il gusto innato nelle ricerche ascetiche del glottologo; l’utopista detta il suo imperativo categorico agli strumenti dell’industria moderna, regola colla logica che non può fallire i giri delle ruote nella fabbrica, come un amministratore fa i suoi calcoli senza turbarsi, come il generale conta le unità organiche apprestate per la battaglia: sulla vittoria non si calcola e non si fanno previsioni perché la vittoria sarà il segno di Dio, sarà il risultato matematico del rovesciamento della praxis. Il segno epico è dato qui dal freddo calcolo e dalla sicurezza silenziosa: c’è la borghesia che congiura per la vittoria del proletariato>>.
Per coloro, i più giovani, che nulla o poco sapessero dell’opera politica di Gramsci, ricorderemo che egli cominciò a prendere parte attiva alla vita del Partito Socialista nel corso della guerra, come collaboratore della stampa socialista di Torino, nella quale fu tra i primi a seguire con cura e a valutare gli sviluppi teorici e pratici della rivoluzione russa.
Nel 1919 fondò la rivista L’Ordine Nuovo, che fu una delle migliori, e sotto certi aspetti la migliore rivista di avanguardia. Gramsci, che aveva preparazione di glottologo, fu uno dei pochi socialisti dalla cultura filosofica moderna ed aggiornata.
Del pensiero politico di Gramsci dell’epoca de L’Ordine Nuovo così scriveva Umberto Calosso, nell’agosto 1933, in un quaderno di Giustizia e Libertà:
<<L’Ordine Nuovo rivelava fin dal titolo un indirizzo originale, un programma di serietà costruttiva, lontano dalla retorica rivoluzionaria, quasi di un organo ufficialeavant lettre di uno stato socialista, in qualche modo già fondato.
Esso non concepiva la rivoluzione come un attacco frontale, ma come un esplodere di germi interni. Questi germi ricchi di tutto il futuro, Gramsci li vedeva nelle commissioni interne di fabbrica.
Allo sviluppo delle commissioni interne, create come intermediarie tra i sindacati operai e la direzione padronale in organi di autogoverno del proletariato, Gramsci dedicò tutta la sua anima, tanto nel giornale che personalmente. Lì era, secondo lui, l’anticipo attuale del governo di domani, lì l’incarnazione concreta del nuovo ordine, lì il prezioso “sancta sanctorum” davanti a cui Gramsci si mise a guardia con l’intransigenza feroce della chioccia sulla sua covata o del pastore sardo in difesa della sua donna. Tutto quello che poteva parere una minaccia allo sviluppo dell’organizzazione di fabbrica, Gramsci lo sentiva attraverso una gelosia che poteva sembrare settaria a chi non ne afferrava il motivo profondamente obiettivo.
Le organizzazioni sindacali soprattutto gli erano sospette perché troppo vicine agli interessi immediati degli operai, troppo impegnate nella difesa longitudinale di categoria o generica di massa, troppo burocratiche e sperimentali di fronte alle nuove cellule appena in via di nascita.
I “mandarini”, i bonzi, tutte le code dell’immobilità cinese furono mobilitate contro i funzionari sindacali; e la camera del lavoro, istituto topografico organico del proletariato, venne contrapposta ai sindacati come nell’anatomia umana l’organo vivente si contrappone al tessuto convenzionale.
Anche il partito ufficiale, il Barnum, era guardato con ostilità di giorno in giorno più aperta, fino allo scoppio della scissione. E come contropartita a questa intransigenza specifica, l’Ordine Nuovo adottava la più larga comprensione e la più spregiudicata libertà di fronte alle correnti culturali che si agitavano nel paese e il suo atteggiamento verso il liberalismo gobettiano, verso le ricerche filosofiche e religiose, verso gli sperimentalismi letterari, non aveva nulla di superficialmente partigiano e politico, tanto che il giornale nella sua povertà, si collocò molto in alto nel concetto del pubblico colto e si impose all’attenzione degli osservatori della vita italiana. Sorel ne parlò prestissimo sul Resto del Carlino di Missiroli e più tardi Croce, pur lontanissimo dalle idee del giornale, non ebbe paura di camminare attraverso i passaggi obbligati e i blindamenti per porgere una visita alla ridotta di via Arcivescovado.
In questo ordine di idee l’Ordine Nuovo fu il giornale più libero che l’Italia abbia avuto dopo la Voce e l’Unità, un foglio dove si poteva veramente discutere tutto e di tutto, senza residui della meschinità culturale, tanto comune agli uomini politici italiani che fanno entrare il loro catechismo di destra o di sinistra persino nell’abbottonamento dei pantaloni>>.
Gobetti e Calosso ci hanno aiutato a lumeggiare i tratti salienti e centrali della personalità di Gramsci.
L’uomo che aveva suscitato l’interesse di Sorel, di Croce e di altri pensatori è stato ucciso lentamente. Per undici anni è stato mantenuto fuori della circolazione culturale ed impedito perfino nell’attività di cultore di glottologia.
Noi salutiamo dalla radio della CNT-FAI di Barcellona, l’intellettuale valoroso, il militante tenace e dignitoso che fu il nostro avversario Antonio Gramsci, convinti che egli ha portato la sua pietra all’edificazione dell’ordine nuovo, ordine che non sarà quello di Varsavia o quello carcerario e satrapesco attualmente vigente in Italia, bensì un moderno assetto politico-sociale in cui il sociale e l’individuale si armonizzeranno fecondamente in un’economia collettivista e in un ampio ed articolato federalismo politico”.


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