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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 14 aprile 2011

I RISCHI PER I LAVORATORI NELL'ATTUALE FASE DEL CAPITALISMO ITALIANO

di Riccardo Achilli



Il capitalismo italiano è al crocevia dell'ennesimo cambiamento camaleontico di pelle, per sopravvivere alla crisi economica ed all'eclissi della seconda repubblica, la forma politica che ne ha rappresentato gli interessi. E' infatti di tutta evidenza che la discesa in campo di Berlusconi, fra le sue principali degenerazioni, ha impresso una radicale personalizzazione e spettacolarizzazione in chiave pubblicitaria della politica, il cui sbocco è stato quello di costruire un bipolarismo non basato su posizioni politiche opposte, ma su una semplice contrapposizione personalistica fra “amici” e “nemici” di Berlusconi. L'evidente declino fisico e di carisma di Berlusconi, che anche i mitici sondaggi (altro prodotto di una politica sempre più vicina al marketing) hanno iniziato a registrare, sottrae alla seconda Repubblica il perno fondamentale sul quale ha poggiato. Naturalmente, i ceti che in questi anni hanno beneficiato degli assetti di potere della seconda Repubblica (e ci sono pochi dubbi su quali siano questi ceti: mentre, secondo l'Istat, fra 1999 e 2008, il reddito lordo delle famiglie cresce, nominalmente, del 12,2%, il margine lordo di gestione delle società non finanziarie, una proxy dei profitti, cresce del 25,3%) sono alla ricerca frenetica di nuovi assetti di potere che ne tutelino gli interessi nel post-berlusconismo. I movimenti nel quadro politico sono già in atto: la destrutturazione dei due grandi partiti (PDL e PD) con una riaggregazione al centro, guidata dai democristiani dell'UDC, è già oggetto di discussione. Nuove leadership, che raccolgono un consenso ampio, anche se nel nome poco comprensibile dell'emergenza nazionale, stanno emergendo. Tali ipotesi sembrano vedere Tremonti e Casini in pole position, ora che l'astro di Fini sembra in declino, con però la pesante discesa in campo di Montezemolo, fortemente sponsorizzato dagli industriali, che potrebbe ridisegnare la scelta della leadership politica del nuovo blocco di potere dei prossimi anni.
La ricomposizione dei rapporti politici ha ovviamente un profondo riflesso sugli assetti di potere economico. La defenestrazione di Geronzi dalla presidenza di Generali dei giorni scorsi va letta proprio in questo contesto. La componente del management di Mediobanca (ente da sempre al centro del capitalismo italiano) ostile a Berlusconi, probabilmente con il tacito assenso di Tremonti, ne ha silurato un alleato, nel quadro di un riassetto degli equilibri di potere, condotto da tradizionali avversari di Berlusconi nel mondo degli affari, in primis Diego Della Valle. Oggi Confindustria inizierà delle assise segretissime (caso rarissimo, neanche i giornalisti saranno invitati), una riunione che è quindi molto delicata, probabilmente mirata a decidere la sua strategia politica post berlusconista.
La nuova strategia d'assalto degli industriali passa per il definitivo smantellamento di ciò che resta dei diritti dei lavoratori. Il cosiddetto statuto dei lavori, che dovrebbe sostituire lo statuto del lavoro scritto da Gino Giugni, rovescia di 180 gradi il principio, sinora vigente, secondo il quale la legge regolamenta, nell'interesse generale, i diritti e doveri di lavoratori e datori di lavoro. La proosta di statuto dei lavori invece demanda la regolamentazione di tali diritti alla contrattazione territoriale e aziendale, in funzione di parametri quali l'andamento economico della singola azienda, del territorio o del settore, oppure la volontà delle imprese di incrementare la propria redditività tramite programmi di investimento, che ovviamente si traducano in una riduzione del costo del lavoro in relazione alla sua produttività, anche riducendo diritti fondamentali, quali lo sciopero o la malattia (come nel modello di Fabbrica Italia), o ancora l'implementazione di programmi di emersione dal nero (che in questo modo verrebbero fatti pagare ai lavoratori regolari). E' ovvio il potenziale di creazione di disparità nei diritti dei lavoratori, da azienda ad azienda e da territorio a territorio, che tale provvedimento contiene.
Ma vi è di più: già si parla di opzionalità (ovviamente solo a favore dell'impresa) nella scelta fra stipulare il contratto collettivo o un contratto aziendale, di introduzione di un contratto di lavoro unico che apra alla totale flessibilità in uscita. Si torna a parlare di cogestione, ovviamente mutuando il modello americano, nel quale i lavoratori partecipano alla distribuzione degli utili ma non alla gestione, e non quello tedesco, dove invece i lavoratori partecipano alle decisioni strategiche dell'azienda. In questo modo, si pensa di eliminare il dissenso sociale, legando indissolubilmente una quota della retribuzione dei lavoratori all'andamento economico dell'impresa, al contempo mantenendo saldo il controllo della gestione dell'impresa in capo ai padroni (che peraltro in tal modo decideranno se, come e quando redistribuire parte degli eventuali utili ai lavoratori stessi), e quindi non realizzando alcuna forma di democrazia economica, con buona pace della Cisl, che da sempre sostiene il modello renano. Peraltro anche i benefici economici per i lavoratori sono molto aleatori, specie in una fase di recessione, nella quale di utili se ne fanno pochi.
Nel frattempo la nuova ideologia, abbracciata anche dal centro sinistra, di coincidenza di interessi fra lavoratori e padronato (una ideologia pericolosa, tipica del corporativismo, tendenzialmente alla base di fascismi, peronismi e populismi autoritari) giustifica l'eliminazione progressiva del diritto allo sciopero ed a qualsiasi dissenso sociale, cristallizzando la lotta di classe in un vuoto senza speranze, senza prospettiva, foriero di nuove fasi di distruzione dei diritti. Esemplificativo è il disegno di legge sulla rappresentanza sindacale frettolosamente presentato dal PD dopo l'accordo di Mirafiori che ha estromesso la FIOM. Tale disegno di legge, se afferma il diritto di rappresentanza per tutte le organizzazioni sindacali, anche quelle non firmatarie degli accordi, d'altro canto prevede la possibilità di non applicare il contratto collettivo, qualora si stipuli un contratto aziendale sottoscritto da una “coalizione” di sindacati che rappresenti la maggioranza dei lavoratori. E' evidente l'intento di emarginare i sindacati più combattivi, che spesso però sono minoritari, in un contesto di grave crisi economica ed occupazionale in cui i lavoratori si sentono ricattati dal loro datore di lavoro (perché se perdono il posto non possono più trovarne un altro) e quindi, per paura e non certo per convinzione, tendono a non esprimere, né sostenere posizioni antagonistiche.
Volgendo lo sguardo fuori dall'Italia, è chiaro che anche a livello internazionale si stiano creando condizioni di regresso dei diriti e della libertà. In Europa, la stabilità delle banche che hanno accumulato crediti spericolati verso i Governi o i sistemi bancari dei Paesi indebitati, e la sopravvivenza dell'euro, una chiara costruzione monetarista utile solo ai mercati finanziari (perché a fronte di una politica monetaria governata dalla Bce su impulso ideologico della Bundesbank, uno dei templi mondiali del monetarismo, non esiste alcun contrappeso in termini di politiche europee per il settore reale dell'economia), vengono fatte pagare ai consumatori dei Paesi indebitati, caricati dell'onere di piani di rientro dal debito sanguinosi.
Debiti pubblici che si sono spesso accumulati, in Paesi come la Grecia ed il Portogallo, nel contesto di regimi dittatoriali, e poi scaricati sulle giovani democrazie, o alimentati da interessi affaristici esterni ai Paesi stessi (esemplare è il caso della Grecia, in cui istituti bancari generalmente controllati da gruppi tedeschi, francesi e britannici, si sono enormemente indebitati per finanziare colossali opere infrastrutturali, quali quelle legate alle Olimpiadi del 2004, per poi chiedere l'aiuto pubblico del governo. Ciò ha ingrossato il debito pubblico, mascherato da operazioni di window dressing delle quali Eurostat e la Commissione erano sostanzialmente consapevoli, ma su impulso dei governi francese, tedesco e britannico, tacevano). Tali quote di debito pubblico (generate da governi non democratici, quindi senza la volontà della maggioranza dei cittadini, o generate da operazioni di traslazione del debito, da privato a pubblico, effettuate da imprese extranazionali), secondo la dichiarazione di Quito sono illegittime, e potrebbero quindi essere ripudiate. Tuttavia, i Governi di tali Paesi, ricattati dalla prospettiva di non poter più rinnovare il loro debito estero a scadenza, accettano di imporre piani di rientro sanguinosi ai loro popoli, a fonte di prestiti del meccanismo europeo di solidarietà che, per unire al danno anche la beffa, sono a titolo oneroso (e comportano tassi di interesse sostanzialmente allineati con quelli dei prestiti di mercato), e quindi dimostrano chiaramente la natura pelosa della solidarietà europea.
Gli assetti di potere economico vengono difesi con politiche dal sapore protezionistico (guerre valutarie fra Usa e Cina, slogan come quello del “buy american” di Obama, creazione di fondi, come quello francese e quello italiano, di nazionalizzazione di imprese minacciate da operazioni di buy out esterne). Come dimostra la lezione della crisi del 1929, tali rigurgiti protezionistici sono pericolosissimi: approfondiscono la crisi, segmentando i mercati e bloccando i processi di accumulazione, e generano spinte aggressive che possono trovare espressioni politiche di tipo nazionalistico e guerrafondaio. Una nuova fase di pericolosa tensione fra gli Stati è alimentata anche da un risorgente imperialismo, come dimostra il caso della Libia, ma anche quello del Bahrein, dove la rivoluzione viene soffocata dagli USA edall'Arabia Saudita, sua alleata, o quello della Costa d'Avorio, dove un ex economista del FMI viene insediato alla presidenza con l'appoggio di Francia e Stati Uniti. Senza parlare della crescente aggressività russa verso gli Stati dell'ex impero sovietico (sfociata nel 2009 in una invasione militare della Georgia), o del mantenimento di una occupazione militare internazionale in Afghanistan (per non parlare di Bosnia, Kosovo, Libano, Repubblica Democratica del Congo, Paesi che di fatto sono protettorati internazionali).
Con queste premesse, il secondo tempo della crisi economica globale rischia di portare una crescita delle diseguaglianze economiche, dell'autoritarismo politico, delle guerre, di cui l'Italia potrebbe essere l'avanguardia. In questo scenario apocalittico, ogni tanto vi sono segnali positivi, sia pur piccolissimi. Oggi in un'azienda ligure gli operai a tempo indeterminato hanno fatto scipopero non per proteggere se stessi, ma per difendere i loro colleghi precari che l'azienda si rifiuta di stabilizzare, nonostante accordi presi in tal senso. Come generalizzare tali fenomeni troppo episodici? Come contrastare la catastrofe imminente?

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