di Michele Nobile
Quella che segue è la terza parte di un testo titolato:
La postdemocrazia internazionale e la crisi di legittimità strisciante del sistema dei partiti in Italia.
Tutto il testo integrale si può trovare anche nel sito:
http://ilmarxismolibertario.wordpress.com/
«L’Italia, in ciò al pari della sola Russia fra i maggiori Stati europei, ha visto il succedersi di diversi regimi opposti tra loro per aspetti decisivi, ma tutti fondati su sistemi politici bloccati: vale a dire sulla mancanza di alternative di governo».
Da ciò il blocco e poi la crisi dei diversi regimi. Oltre alla mera «chiusura della classe dirigente in se stessa fino alla reazione», continua Salvadori, la negazione dell’alternanza di governo è stata praticata secondo due strategie:
«La prima è stata l’assimilazione nell’area di governo delle frazioni secondarie provenienti dalle opposizioni sia di destra sia di sinistra disposte a “trasformarsi”»;
la seconda è stata la formazione di blocchi temporanei
«ad opera di forze che, pur tra loro in contrapposizione, hanno costruito alleanze transitorie per far fronte a “nemici terzi” o a situazioni di emergenza nazionale».
La prima strategia venne sperimentata per la prima volta nel 1852 con il «connubio» tra Cavour e il leader del «centrosinistra» dell’epoca, Urbano Rattazzi, all’insegna del programma «Monarchia, Statuto, Indipendenza e Progresso civile e politico». Così Cavour liberava il governo dall’ipoteca della «destra» e, con l’avvio dell’assorbimento di parte della «estrema» dell’epoca, pose le basi per l’egemonia liberale sul processo di unificazione nazionale. Tra le conseguenze a breve vi fu la partecipazione del piccolo Piemonte alla lontana guerra di Crimea.
Il «compromesso storico» berlingueriano-moroteo e i governi detti di «unità nazionale» rientrano invece nell’ambito della seconda strategia; da notarsi che allora il Pci appoggiò governi presieduti da Giulio Andreotti, l’«anima nera» della Dc.
Dopo aver contribuito a neutralizzare la conflittualità sociale in nome della «partecipazione» e dei necessari «sacrifici» per le generazioni a venire, a riabilitare come partito «popolare» una Dc scossa dagli scandali, a creare le condizioni per la controffensiva padronale, segnata dai 15 mila licenziamenti Fiat del settembre 1980, a promuovere la legislazione di emergenza antiterrorismo, a criminalizzare il movimento universitario del 1977, al termine dell’«emergenza» il Pci venne «scaricato» e riconfinato. Con ciò veniva però invalidata la più che trentennale strategia togliattiana dell’incontro tra i grandi partiti «popolari» e costituzionali, precipitando il partito in un vuoto strategico e ideale di cui la «bolognina» fu l’esito finale.
Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica è stato contrassegnato dal ritorno del trasformismo e del gattopardismo, direi su scala senza eguali.
Come individuo Silvio Berlusconi è il nuovo Principe dei gattopardi italiani, il loro capo per «diritto di nascita», probabilmente l’incarnazione storicamente meglio riuscita del principio che il saggio nipote Tancredi spiegò al Principe di Salina:
«Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?» (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, Feltrinelli, Milano 1959, p. 42, corsivo mio).
Ma se ragioniamo in termini di quadri dirigenti di partiti, la palma d’oro per capacità trasformistica spetta agli allora relativamente giovani dirigenti berlingueriani del Pci, seguiti a ruota dai pupilli di Almirante e a distanza dagli ex «nuovi sinistri». A questo proposito sembrano calzare bene le osservazioni di Gramsci sul trasformismo come «”documento storico reale” della reale natura dei partiti che si presentavano come estremisti nel periodo dell’azione militante», e sui due momenti del «trasformismo molecolare», come prima fase d’incorporazione di singole personalità nella «”classe politica” conservatrice-moderata», e del trasformismo «di interi gruppi di estrema che passano al campo moderato» (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975. Vol. II, p. 962).
Come i loro padri politici, ma senza essere passati attraverso la scuola della Resistenza e dello stalinismo, i giovani berlingueriani contribuirono efficacemente a garantire l’esito di una «crisi di regime». Questa volta, però, assicurandosi il pieno diritto di governare lo Stato.
2. Si parla tanto di «regime berlusconiano», dell’«oltranzismo eversivo di una destra che attacca la democrazia e il lavoro» (Paolo Ferrero, il Manifesto del 3 aprile 2010), e chi più ne ha più ne metta. A volte pare che il fascismo sia alle porte, o che Berlusconi faccia rima con Perón
Per mettere le cose nella giusta prospettiva, chiediamoci: chi ha governato l’Italia negli ultimi quindici anni?
Questi i conti della durata dei governi del cosiddetto centrosinistra» del cosiddetto centrodestra. Con un criterio stretto, considerando cioè solo le coalizioni oggi dette di centrosinistra e di centrodestra:
- il primo governo Berlusconi durò 226 giorni, dall’11 maggio al 22 dicembre 1994; sostenuto da Forza Italia, Lega Nord, Alleanza nazionale, CCD, UDC;
- il governo Dini durò 395 giorni, dal 17 gennaio 1995 al 16 febbraio 1996; composto da «tecnici», ma la fiducia venne votata da PDS, Lega Nord e PPI; in quell’occasione gli ingraiani doc, Lucio Magri in testa, lasciarono il Prc per appoggiare il governo, creando il Movimento dei comunisti unitari;
- il primo governo Prodi durò 873 giorni, dal 17 maggio 1996 al 9 ottobre 1998; nel governo ministri di PDS, PPI, Rinnovamento italiano, Verdi, UD; sottosegretari dei Socialisti italiani, AD, Movimento dei comunisti unitari, PRI, Patto Segni, Sinistra repubblicana; appoggio esterno di PRC, Südtiroler Volkspartei, Union Valdôtaine, La Rete;
- il primo governo D’Alema durò 423 giorni, dal 21 ottobre 1998 al 18 dicembre 1999; nel governo ministri di DS, PDCI, Verdi, UDR, PPI, SDI, RI, UDR, Indipendenti. Parte della corrente cossuttiana, con Cossutta in testa, si è staccata dal Prc per fondare il PDCI ed inizia la sua partecipazione organica ai governi di centrosinistra.
- il secondo governo D’Alema durò 119 giorni, dal 22 dicembre 1999 al 19 aprile 2000; nel governo ministri di DS, PDCI, Verdi, Udeur, PPI, RI, SDI, Indipendenti, Union Valdôtaine;
- il secondo governo Amato durò 401 giorni, dal 26 aprile 2000 al 31 maggio 2001; governo con ministri di DS, PDCI, Verdi, Udeur, PPI, RI, Union Valdôtaine.
Dunque, da maggio 1994 a maggio 2001 Berlusconi governò per 226 giorni; il nuovo «centrosinistra» governò per 2211 giorni, quasi dieci volte più a lungo del «centrodestra», contando il governo «tecnico» Dini; oppure 1816 giorni, ovvero circa otto volte più a lungo, escludendo Dini. Si può però ricordare che i governi «tecnici» Amato I (298 giorni) e Ciampi (353 giorni), negli anni più critici di «tangentopoli» (1992-1994), furono sì governi «del Presidente della Repubblica» (Scalfaro) ma riconducibili ad un’area larga di centrosinistra. A partire dall’ampio rimpasto del governo Amato nei primi mesi del 1993, causa di forza maggiore le indagini giudiziarie su ben cinque ministri, fu il nuovo centrosinistra che iniziò a farsi avanti.
Il momento di gloria del governo nazionale per il centrodestra venne solo con l’inizio del nuovo secolo. Dal giugno 2001 al maggio 2006 il centrodestra governò, con il secondo e il terzo governo Berlusconi, per 1787 giorni. Nonostante questo, nel 2006 la durata dei governi di centrodestra era ancora inferiore di 226 giorni alla durata complessiva dei governi di centrosinistra.
Il secondo governo Prodi rimase in carica dal 17 maggio 2006 al 6 maggio 2008, 23 mesi e 19 giorni, con ministri DS, Prc, PDCI, Verdi, DL-La margherita, Italia dei valori, Rosa nel pugno, UDEUR, Socialisti italiani, DCU, LAL, e l’appoggio esterno di svariate formazioni minori; il successivo quarto governo Berlusconi è in carica dall’8 maggio 2008. E solo adesso i conti delle durate relative dei governi di centrosinistra e di centrodestra si pareggiano.
Chi nel 2010 ha venti anni, e quindi ne aveva 10 nel 2000, può essere scusato per non aver vissuto i fatti, almeno fino a quando non mostra l’arroganza impettita e saputella dell’aspirante burocrate.
Ma per chi a metà dei Novanta era già maggiorenne, e magari negli anta, le cose stanno diversamente: in tal caso si dovrebbe ricordare, se non le durate esatte dei diversi governi, almeno il fatto elementare che nell’ultimo decennio del XX secolo in Italia governò quasi esclusivamente il centrosinistra, il cui nucleo è costituito dai partiti eredi del Pci berlingueriano.
Cosa significò questo concretamente? L’elenco delle normative «di destra» introdotte dal «centrosinistra» sarebbe lungo e noioso: fu il centrosinistra a riorientare decisamente le politiche sociali ed economiche in senso «liberistico» ed a fare i danni maggiori e il grosso del lavoro sporco, dalle privatizzazioni all’introduzione delle forme «atipiche» di lavoro.
I tassi massimi di disoccupazione in Italia negli ultimi trenta anni si sono avuti durante i governi di centrosinistra, non di «destra»: tasso medio del 10,9% negli anni 1994-2000 (tassi standardizzati, dati Ocse), oltre l’11% nel 1995-1999; è il centrodestra, viceversa, che può vantare la più significativa riduzione del tasso di disoccupazione, nei anni del secondo e il terzo governo Berlusconi. Se è demagogia attribuire crescita e riduzione della disoccupazione ai esclusivamente ai governi nazionali prescindendo dalla congiuntura internazionale, e se è vero che la politica economica di Berlusconi non ha avuto meriti a questo riguardo, non ci sono invece dubbi sul fatto che, allineandosi zelantemente all’indirizzo della Banca centrale europea, i governi di centrosinistra portino gran parte della responsabilità degli elevati livelli di disoccupazione nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso.
Fu il centrosinistra, con ministri «comunisti» e verdi, a fare la guerra alla Serbia. Furono uomini del centrosinistra a far «convergere» l’Italia nei parametri del nodo scorsoio del Trattato di Maastricht. Il principale merito del prof. democristiano Romano Prodi, ciò che gli valse il ruolo di leader del centrosinistra, fu la lunga presidenza dell’Iri, nel 1982–1989 e nel 1993–1994, ovvero la svendita, specialmente nel secondo mandato, dell’industria statale italiana, il più grande progetto di «privatizzazioni» nei paesi a capitalismo avanzato e anche il meno redditizio per le finanze pubbliche. Ovviamente, con questo venne anche meno la possibilità di una seria politica industriale.
Indico un termine di paragone: la Nota aggiuntiva allegata alla Relazione generale sulla situazione economica del paese del ministro del Bilancio Ugo La Malfa, anno 1962. In quella Nota si proponeva di correggere, attraverso riforme strutturali, i fondamentali squilibri della società capitalistica italiana: tra agricoltura e industria, tra Nord e Mezzogiorno, tra consumi pubblici e privati e all’interno dei consumi privati. Da lì iniziò un ampio dibattito, il cui approdo politico fu il Programma di sviluppo economico nazionale per quinquennio 1966-1970. Del piano quinquennale 1966-1970 solo la spesa per abitazioni e consumi privati superò gli obiettivi, l’investimento nell’industria fu di poco inferiore al previsto, gli investimenti sociali pubblici complessivamente realizzati equivalenti al 57,8% della spesa prevista (risultato conseguito con un fortissimo contributo del potenziamento del trasporto aereo e delle telecomunicazioni, mentre la spesa per istruzione, edilizia pubblica e sanità fu pari a ca. 1/3 del previsto) (tabella con obiettivi e realizzazioni del Piano in Gisele Podbielski, Italy: development and crisis in the post-war economy, Oxford University press, 1974, Laterza, Bari 1975, pp. 213-214; si vedano anche L'economia italiana 1945-1970, il Mulino, Bologna 1972, a cura di Augusto Graziani, e l’Introduzione ristampata e aggiornata da Bollati Boringhieri nel 1998, Lo sviluppo dell’economia italiana.).
Quello era il centrosinistra storico, che in realtà nacque morto, già con il discorso di Moro al Consiglio nazionale Dc del novembre 1963. In quel consesso, l’artefice dell’allargamento della maggioranza al Psi (altra grande operazione trasformistica) pose con forza la necessità di «ristabilire il contatto e di ricostituire la fiducia degli interessi capitalistici e anche speculativi a suo tempo minacciati dai progetti riformatori»: e si trattava della nazionalizzazione dell’industria elettrica e della creazione dell’Enel, le uniche grandi riforme del centrosinistra.
Il confronto storico è interessante per due ragioni:
a) le «riforme di struttura» connesse alla «programmazione economica» furono le bandiere del riformismo di sinistra del secondo dopoguerra e, sulla carta, anche del primo centrosinistra. Sul piano programmatico il centrosinistra attuale è molto più a destra di quello d’un tempo;
b) le ragioni del fallimento del centrosinistra storico, quel venire a patti con l’insieme della classe dominante, incluse le frazioni «parassitarie» e «speculative», quella non volontà e quell’incapacità di affrontare e risolvere i macroscopici dualismi e squilibri della società italiana, quella combinazione inestricabile e, paradossalmente, funzionale di sviluppo e arretratezza che sono i tratti strutturali distintivi del capitalismo latecomer italiano, sono, in definitiva, le stesse ragioni del fallimento del «compromesso storico» berlingueriano, dell’involuzione programmatica e etico-politica del Pci e dell’approdo definitivo al sostegno aperto del capitalismo realmente esistente.
Se si ricorda che gli ex «comunisti» furono indispensabili per il cambiamento del sistema elettorale, che lede l’elementare principio democratico una testa-un voto e rafforza il potere delle direzioni dei partiti a danno della libera espressione della volontà degli elettori, e se si ricorda, per essere brevi, i «bombardamenti umanitari» sul Kosovo e la Serbia, in spregio anche del dettato costituzionale, e gli interventi militari, orwellianamente ridefiniti «missioni di pace», si può ben dire che quanto a «oltranzismo eversivo» nell’attaccare «la democrazia e il lavoro» il centrosinistra non è stato da meno del centrodestra. Anzi.
Il centrosinistra si differenzia dal centrodestra nell’apparenza del «guanto di velluto», grazie alla collaborazione delle confederazioni sindacali e, in subordine, del Pdci e dei Verdi e del Prc: è questa la modalità più importante di controllo e riduzione del conflitto sociale e di quella «privatizzazione della società» che si lamenta a sinistra. D’altra parte, il centrosinistra può ringraziare il centrodestra per aver preso decisioni al suo posto, riducendo il conflitto intracoalizionale: è il caso, ad es., della legge Biagi, della riforma Moratti, dell’intervento militare in Iraq, del trattamento di fine rapporto di lavoro. Tanto è vero che, una volta al governo, il centrosinistra non ha abrogato le normative del centrodestra.
3. Quanto ai nuovi partiti a denominazione comunista, essi non hanno alcuna possibilità di occupare una posizione equivalente a quella che, a suo tempo, aveva il Pci, o anche il Psi nel primo centrosinistra storico. Non è semplicemente una questione di numeri, che pure conta. Il motivo fondamentale è rivelato dallo stesso richiamo nostalgico ai «vecchi tempi» del Pci, al togliattismo e all’ingraismo, senza parlare del nostalgismo più o meno critico nei confronti dell’Unione sovietica, complementare a una condanna ipocrita perché non va a fondo dell’esperienza dello stalinismo, di cui Togliatti fu uno degli agenti ed i fronti popolari una delle varianti. Lungi dal poter «rifondare» una strategia anticapitalistica, questi partiti oscillano tra nostalgia ed eclettismo, tra richiamo identitario e inseguimento dei modi politici della società dello spettacolo, il tutto funzionale a un orizzonte politico che si riduce alla tattica ed ai tempi della collaborazione subordinata al centrosinistra, per essi assolutamente vitale.
Si tratta di partiti nati come operazioni d’apparato che non hanno mai avuto alcuna possibilità di svolgere nella lotta di classe un ruolo analogo a quello che valse al Pci la conquista del consenso di ampia parte dei lavoratori italiani. Possono continuare a frantumarsi in fazioni divise sulla tattica e lo «stile politico» e a ricomporsi in cartelli o in federazione o in un’unica organizzazione, ma non importa. Al di là delle fluttuazioni dei risultati elettorali, essi sono nati troppo tardi, sul piano storico sono nati morti.
E’ significativo il fatto che, dopo la rottura dell’unità antifascista del 1947, al Psi occorsero 16 anni per tornare al governo, e che per rientrare a far parte di una maggioranza di governo e, comunque, senza disporre di ministri nel governo nazionale, al Pci occorsero tre decenni, mentre Prc e Pdci, oltre ovviamente, i verdi, hanno invece avuto immediatamente la possibilità di far parte della maggioranza parlamentare e addirittura del governo; il Pdci nacque, come il vecchio Psdi, proprio per poter accedere al governo (governo D’Alema, quello della «guerra umanitaria» contro la Serbia, Diliberto ministro di Grazia e giustizia, Bellillo ministro agli Affari Regionali, più tre sottosegretari). Certamente, è caduto il vincolo escludente che derivava ai partiti comunisti dall’esistenza dell’Unione Sovietica; ma nulla come la partecipazione governativa dei «comunisti» in una situazione che non richiede alcun «compromesso di classe» dimostra chiaramente che da gran parte del gruppo dirigente del centrosinistra questi partiti siano considerati come degli «utili idioti», utili per raccogliere voti in una nicchia identitaria che ha ancora una certa consistenza, e sostanzialmente innocui, ma di cui si sbarazzerebbero volentieri se solo potessero assorbirne o sostituirne il contributo in voti. Nulla come la partecipazione di questi partiti a maggioranze e governi in un contesto in cui l’iniziativa politica è tutta nelle mani della borghesia dimostra quanto essi siano profondamente integrati e subordinati al sistema dei partiti di governo e che, tra una giravolta movimentista e un’altra governista, essi non sono in grado di sopravvivere a lungo senza una presenza parlamentare che ha poco a che fare con la «rappresentazione» dei bisogni popolari e molto con il finanziamento pubblico e la riproduzione di un ceto di professionisti della politica. Si tratta del trionfo dei mezzi e delle opportunità professionali della «democrazia rappresentativa» sui fini professati. E’ anche per questo che essi sono stati duramente puniti dall’astensione nelle ultime elezioni politiche: un’astensione politica, non «qualunquistica». Non vedere in questo la necessità di un’etica politica nella quale mezzi e fine siano congrui è da orbi, e da masochisti, perché così si apre veramente la strada alla demoralizzazione e alla «privatizzazione».
La strategia politica della sinistra «comunista» italiana si riduce alla «strategia per il successo elettorale»: il che significa, concretamente, che si tratta di tattica di basso livello, la cui variabile indipendente è l’inserimento nelle istituzioni e nel gioco del sistema dei partiti, con la definizione di alleanze con il Pd e il centrosinistra: cosa che realisticamente, con il sistema elettorale esistente è del tutto inevitabile, se un qualche significativo risultato come presenza nelle istituzioni si vuole ottenere. Gli appelli «movimentisti» e identitari sono strumentali alla partecipazione elettorale.
Sintomo di questo elettoralismo, magari travestito, è anche l’appello alla unità organizzativa dei comunisti. Intendiamoci: è vero che tra Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Sel non esistono differenze fondamentali, tali da giustificare l’esistenza di tre organizzazioni separate. Le divisioni sono state determinate esclusivamente da divergenze tattiche circa la partecipazione al governo e il rapporto con il centrosinistra. Cossutta e Bertinotti non hanno affatto «tradito» il loro partito: in momenti diversi ne sono stati gli artefici; Bertinotti, in particolare, è stato un vero maestro nell’arte della navigazione tra Piazza e Palazzo, dell’alternarsi tra poltrone istituzionali e cortei-spettacolo, ed è il «padre spirituale» di un’intera generazione politica di militanti di base che, in perfetta buona fede, appare incapace di pensare oltre «campagne» di propaganda, cortei-spettacolo e scadenze elettorali.
Questo orientamento strategico delle direzioni e dell’apparato dei partiti «comunisti» italiani all’inserimento nel sistema dei partiti, all’acquisizione di posizioni istituzionali come obiettivo prioritario, alla necessaria alleanza con il centrosinistra, e, infine, al sostegno dei governi nazionali e locali di centrosinistra, è la ragione per cui Utopia rossa li ha qualificati come «forchettoni rossi» (si veda a cura di Roberto Massari, "I Forchettoni rossi. La sottocasta della «sinistra radicale», Massari editore, Bolsena 2007, che spiega e documenta storicamente, sociologicamente, linguisticamente e politicamente il «forchettonismo rosso»). L’epiteto non è moralistico: indica una logica obiettiva delle burocrazie «rosse» (e «verdi») italiane. Ma sia la vecchia «nuova sinistra» che, a maggior ragione, i nuovi partiti, sono del tutto privi degli strumenti politici e teorici per comprendere il fenomeno della burocrazia «comunista».
Lo testimoniano i richiami nostalgici a Berlinguer, non di rado incongruamente accostato a Guevara, e che Rifondazione e il Pdci abbiano scelto come propri segretari ex ministri, o che l’animatore di Sel sia Presidente di una regione: fatti elementari, incompatibili con una seria autocritica circa l’operato di questi partiti e l’orientamento prioritario all’inserimento istituzionale
Così può anche intendersi perché non solo le valutazioni politiche dei partiti «naturali» candidati alla direzione del governo nazionale e locale ma anche dei partiti a denominazio.ne comunista si basino sulle percentuali calcolate sui voti validi e su chi ha vinto o perso le elezioni. E’ questo fatto significativo del loro congenito elettoralismo e che la loro reale preoccupazione sia, al di là dei proclami «movimentisti» o volti al radicamento territoriale» o al coordinamento sulla base di una qualche «lista della spesa», la capacità di conseguire visibilità e rappresentanza e potere nelle e attraverso le istituzioni.
Si possono scontare le obiezioni, ma a queste si può opporre una semplice prova: Prc, Pdci e Verdi hanno mai preso in considerazione di non presentarsi a una qualche elezione? Si è mai pensato di valutare caso per caso quale sia la funzionalità, rispetto alla costruzione di una prospettiva anticapitalista, della presentazione elettorale? La risposta ovvia è che il partito deve presentarsi per rappresentare nelle istituzioni i bisogni popolari. Ma questo è diventato un alibi, perché quella «rappresentazione», per avere successo passa attraverso accordi, elettorali e di governo, con il centrosinistra.
4. Insieme al Partito liberal-democratico giapponese, al Partido Revolucionario Institucional messicano (detentore del record di durata al governo nei paesi capitalistici, con una denominazione che è tutto un programma), e al Partito socialdemocratico svedese (al potere per 65 anni dal 1932 al 2006 (ininterrottamente dal 1932 al 1976), la Dc italiana è stata per decenni un esempio da manuale di «partito dominante di massa» in uno Stato capitalistico (per i partiti al potere nei socialismi di Stato occorre un discorso diverso).
Quello di «partito dominante di massa» è un concetto che riprendo da Nicos Poulantzas e che va oltre la fenomenologia italiana: interessa, invece, l’evoluzione dello Stato capitalistico nel suo insieme (L'état, le pouvoir, le socialisme, Presses universitaries de France, Paris 1978).
La prima funzione di un «partito dominante di massa» organico allo Stato consiste nel conferire una unitarietà di direzione politica all’insieme degli apparati statali. Questo è il necessario prodotto dell’ampliarsi strutturale delle funzioni economiche e sociali dello Stato capitalistico dopo le guerre mondiali, la depressione degli anni Trenta, le resistenze (in Europa), le necessità imposte dalla guerra fredda e dalla gestione delle trasformazioni socio-economiche nel boom postbellico, prima, e dalla concorrenza internazionale successivamente. Le funzioni economiche e sociali, che sono sempre anche politiche (nel senso che hanno effetti sul consenso e la legittimazione, comportano modi di gestione del conflitto e di organizzare interessi ecc.) possono essere esercitate con strumenti e orientamenti diversi (più o meno «keynesiani» o «liberisti») ma, con buona pace degli ideologi dell’obsolescenza dello Stato territoriale e della globalizzazione, sono irreversibili.
Quel che ne risulta non è solo la politicizzazione delle funzioni statali (con quella crescita delle «domande» popolari allo Stato, il cui ridimensionamento è, da almeno tre decenni, parte integrante del discorso sulla necessità di rafforzare la «governabilità» riducendo la «democraticità»), ma anche della stessa amministrazione, nel senso dell’osmosi tra apparati dirigenti di partito (e sindacati) e amministrazione statale.
E’ in questa trasformazione di lungo periodo della statualità che risiedono le ragioni strutturali e tuttora operanti della crisi latente del parlamentarismo «liberaldemocratico» come luogo di direzione politica: questa è spostata fuori dal parlamento, in seno alla combinazione di burocrazie amministrative e partitiche (ed eventualmente sindacali) e verso i vertici delle stesse. E’ dalla statalizzazione dei partiti, dalla loro fusione con l’amministrazione pubblica che consegue l’elevato, e crescente, livello di corruzione degli stessi.
Altra caratteristica necessaria di un «partito dominante di massa» in regime parlamentare è che esso debba essere in grado di esercitare un’ampia egemonia politico-ideologica nella società, tale che la legittimità del governo non sia messa in discussione. In questa prospettiva i partiti svolgono il ruolo di cinghia di trasmissione verso il popolo «sovrano» degli orientamenti presenti in seno all’amministrazione statale.
Se nei casi citati inizialmente di una lunga permanenza al governo il «partito dominante di massa» si identifica, appunto, con un partito, l’argomento fondamentale di Poulantzas non cambia qualora si verifichi l’alternanza: perché dentro l’amministrazione si costruiscono reti interpartitiche, «la cristallizzazione di una trama permanente di circuiti formati dalla mescolanza delle forze, di personale e di dispositivi appartenenti ai due partiti dominanti che funzionano in qualche modo come foyer di partito unico». E si chiedeva:
«Ora, di quale alternanza si può trattare, quando l’intercambiabilità delle equipes tra i partiti dominanti si inscrive in questa rete di partito unico di tipo nuovo, che sembra ben consolidarsi, un poco dappertutto nei paesi occidentali, anche nei casi di bipartitismo?»
E in un altro testo, del 1979:
«L’evoluzione contemporanea tende a generare un nucleo di partito unico attraverso la mistura istituzionale di forze del partito maggioritario e del principale partito di opposizione.
Quanto agli altri partiti socialisti ed eurocomunisti, lontani dal governo, non ne restano immuni; la legittimazione plebiscitaria e la personalizzazione del potere rafforzano il loro carattere burocratico tradizionale spingendo le loro direzioni a fare uso dei grandi organi di informazione per irregimentare la base» («La crise des partis», in Le Monde diplomatique, settembre 1979, ora in Poulantzas, Il declino della democrazia, a cura di Enrico Melchionda, Mimesis, Milano 2009, p. 213).
Questa analisi risale a più di trenta anni fa: da allora molte cose sono cambiate, e cambiate nella direzione qui indicata, ma con un salto di qualità. L’eurocomunismo è svanito nel nulla e la legittimazione plebiscitaria e la personalizzazione del potere dei leaders hanno fatto passi da gigante, tanto che la natura stessa dei partiti «socialisti» non è più quella tradizionale dei «partiti operai».
E’ la convergenza programmatica tra le coalizioni candidate al governo, risultante dal mutamento qualitativo del sistema dei partiti consistente nell’estinzione di una rappresentanza riformista della classe dei salariati, a sua volte conseguente proprio dal pluridecennale orientamento riformista, che esprime la chiusura oligarchica dell’istituzione parlamentare e la compiuta unificazione del personale politico, diviso al suo interno in fazioni competitive ma unito come casta nei confronti del «popolo sovrano». In questa prospettiva, il determinarsi di un assetto elettorale bipartitico non impedisce di concepire i poli come ali competitive all’interno di un «partito dominante di massa». Questo è il dato da cui partire, prima di prendere in considerazione la competizione tra i poli e la possibilità che uno di essi possa conquistare più volte di seguito la maggioranza dei seggi parlamentari (che non corrisponde necessariamente, dato il sistema elettorale, alla maggioranza dei voti validi e, ancor meno, alla maggioranza dei cittadini adv) e quindi il governo.
E’ questa situazione che riduce il grado di «democraticità» e di «rappresentatività» del sistema politico italiano, in linea con la tendenza internazionale alla postdemocrazia, fase terminale di quell’ossimoro che è la liberaldemocrazia.
Se non si ha ben chiaro questo punto, allora la lotta per la difesa e l’espansione dei diritti democratici e dei diritti socio-economici risulterà priva di un orientamento strategico ed esposta a gravi errori tattici, che si compendiano nella logica elettoralistica del voto per il «meno peggio» e nella suicida ricerca di una sponda nel centrosinistra. Si finirà, paradossalmente, per idealizzare la Costituzione o l’epoca del «regime democristiano» e nella nostalgia per il Pci togliattiano e berlingueriano, non cogliendo la dinamica che dal Pci dei «vecchi tempi» ha portato al Pds e infine al Pd.
Infine, non si potrà comprendere la specificità italiana del «berlusconismo» nel quadro dell’evoluzione internazionale dei sistemi politici dei paesi a capitalismo avanzato.
Affermare l’esistenza di un «regime berlusconiano» analogo a quel che fu il «regime democristiano» implica che in Italia si sia ri-costituito un partito dominante di massa che, sia pure nella forma del «partito leggero», svolga funzioni analoghe a quelle della Dc; e che, dall’altra parte, esista un partito o una coalizione che sia politicamente alternativa al «regime». E che per questa sua «alternatività» il partito o la coalizione risultino di fatto esclusi dall’accesso al governo nazionale.
5. L’evidenza circa l’obsolescenza reale del potere legislativo e della divisione dei poteri, pur all’interno di un regime parlamentare, può prodursi nel modo più semplice e chiaro considerando quale sia la fonte primaria di produzione di norme. La risposta è inoppugnabile e, a ben considerare i dati, impressionante: è il governo, il vertice dell’amministrazione. Dati caratteri e finalità di questo scritto, mi limito a questi dati.
Nella tabella sono riportate le leggi approvate secondo l’iniziativa, governativa, parlamentare o mista, per i 23 anni dal 1987 al maggio 2010, corrispondenti alle legislature dalla X (1987-1992) alla XVI in corso, e all’alternanza di governi di centrodestra e di centrosinistra.
Iniziativa legislativa, 1987-2010.
Governativa Parlamentare Mista Totale
1987-1992 704 (65,4%) 287 (26,7%) 85 (7,9%) 1076
1992-1994 231 (73,6%) 75 (23,9%) 8 (2,5%) 314
1994-1996 261 (88,5%) 28 (9,5% ) 6 (2,0%) 295
1996-2001 697 (76,9%) 170 (18,8%) 39 (4,3%) 906
2001-2006 539 (78,6%) 136 (18,8%) 11 (1,6%) 525
2006-2008 99 (88,4%) 13 (11,6%) 0 112
2006 79 (73,8%) 27 (25,2%) 1 (0,09%) 107
2007 59 (86,8%) 9 (13,2%) 0 68
2008 43 (100%) 0 0 43
2009 70 (87,5%) 6 (7,5%) 4 (5%) 80
2010 33 (82,5%) 7 (17,5%) 0 40
Fonte: Osservatorio sulla legislazione della Camera dei deputati, Rapporto sullo stato della legislazione, vari anni. I dati relativi al 2010 sono aggiornati al 14 maggio.
Tra la X legislatura e la XII la percentuale di leggi di iniziativa governativa aumenta di quasi 20 punti di percentuale, attestandosi su una media complessiva di circa l’85%. Considerando solo questo dato grezzo, ci si deve chiedere in cosa consistano il «potere» dell’assemblea legislativa e la capacità d’iniziativa dei parlamentari, «rappresentanti» del popolo.
Come nota l’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei deputati, la crescita costante dell’iniziativa legislativa da parte del governo è «in linea con gli altri ordinamenti europei»: nel 2007 il governo di centrosinistra italiano fu secondo in Europa solo ai governi di centrodestra francesi (che potevano vantare il 92% dell’iniziativa legislativa; passaggio da Chirac a Sarkozy).
Lo spostamento della produzione di norme verso l’esecutivo avviene attraverso diversi canali.
Quello dei decreti-legge, e delle relative leggi di conversione è il canale di cui più spesso si parla, a proposito dell’abuso dello strumento, la cui reiterazione, dopo i record toccati negli anni cruciali della «transizione», 1992-1996 (pari al 37,6% e 41,3% delle leggi approvate nella XI e XII legislatura) è stata limitata in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 360 del 1996; nelle legislature successive la produzione media mensile di decreti legge è stata di 3,36 nella XIII (centrosinistra) 3,72 nella XIV (centrodestra), 2 nella XV (centrosinistra), 3,75 nei primi 8 mesi della XVI. Sia il governo Prodi che il governo Berlusconi in carica hanno posto la questione di fiducia su un terzo delle leggi di conversione dei decreti-legge; nel caso di Prodi ciò corrisponde a metà delle questioni di fiducia complessive, per Berlusconi al 70,8%.
Un’altra modalità è quella prevista dalla legge 400 del 1988 che attraverso legge delega dal Parlamento al governo permette al secondo di sostituire propri regolamenti alle leggi del primo, rilevanti proprio per materie di carattere amministrativo ma non solo (è il caso della «riforma» Gelmini della scuola, materia non propriamente urgente né tecnica: Croce e Gentile si staranno rivoltando nelle tombe, a ragione, giacché i loro pronipoti non supererebbero il più banale esame di pedagogia). E’ il caso delle tre leggi Bassanini del 1997-1998, di «Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa». Non sfuggirà, dal titolo della prima Bassanini, l’enorme ampiezza della delega al governo. Protagonista delle riforme dell’amministrazione di questi decenni, parte essenziale della mutazione della costituzione materiale dello Stato, è l’amministrazione stessa. E’ in corso un processo di delegificazione, all’insegna anche della «semplificazione», che non esprime solo la complessità delle funzioni tecniche dello Stato ma che, attraverso le riforme amministrative, incide politicamente sui rapporti socio-economici: 6 delle 12 leggi delega della trascorsa legislatura riguardavano la sicurezza sul lavoro, l’attuazione del Protocollo sul welfare, gli enti di ricerca, e l’ordinamento giudiziario. Nel 2009 sono state approvate 7 leggi delega al governo Berlusconi, di cui 4 collegate alla manovra finanziaria e una sulla pubblica sicurezza.
I decreti legge si usano anche per modificare la stessa legge delega parlamentare o per attribuire al governo una nuova delega, per eludere («per non rispettare i limiti posti dalla legge delega o, addirittura, per modificarli o per riprodurre decreti legislativi annullati dalla Corte Costituzionale», Osservatorio sulla legislazione, Rapporto 2001, Camera dei Deputati, p. 71) o per sostituire la legge delega.
La partecipazione all’Unione europea ha rafforzato le preesistenti tendenze nazionali favorevoli all’esecutivo e, all’interno di questi, dei capi di governo: il 60-70% delle deleghe «primarie» attribuite al governo riguarda l’attuazione del diritto comunitario.
La politica economica e sociale delle due coalizioni si è differenziata nei dettagli, nei modi e nella retorica, tutti aspetti che possono essere praticamente rilevanti ma nel quadro dello stesso orientamento di fondo.
Medesima valutazione può farsi per la politica internazionale: Berlusconi ha mandato truppe in Iraq, ma con il patriottico appoggio del centrosinistra che aveva partecipato all’aggressione alla Serbia e già iniziato la partecipazione alla guerra in Afghanistan e che, durante il secondo Prodi, inviò truppe in Libano (di fatto appoggiando Israele) e concesso l’estensione della base Usa di Vicenza. Occorreva molta fantasia e un’enorme ipocrisia da parte dei parlamentari sedicenti «non violenti» per cogliere nella politica estera di Prodi un qualche segnale di «discontinuità» con la politica del centrodestra.
Programmaticamente, centrosinistra e centrodestra sono due frazioni politiche del capitalismo italiano e dell’imperialismo internazionale.
Sotto un altro punto di vista, non sono neanche sostanzialmente distinguibili come «destra» e «sinistra», se a questi termini si dà un ancoraggio storico.
Dovrebbe essere logicamente chiaro che il contenuto politico di nozioni spaziali quali «destra» e «sinistra» dipende dal punto di riferimento e che i contenuti di ciò che concretamente sono la «destra» e la «sinistra» parlamentari possono variare completamente insieme al punto di riferimento. I termini destra e sinistra senza ulteriori precisazioni sono sempre stati generici ma di una certa utilità perché indicavano approssimativamente delle realtà; ora, quando applicati ai partiti di governo sono assai meno utili: anzi, coprono ciò che è essenziale.
Nel contesto internazionale e nazionale contemporaneo questa semplicissima osservazione logica ha enormi e assai concrete implicazioni.
Un tempo, un monopolista che avesse fatto fortuna intrallazzando con la politica e montando una fabbrica televisiva di volgarità avrebbe fatto inorridire qualsiasi autentico liberal-liberista, guadagnandosi anche l’anatema dei sinceri clericali; viceversa, i paladini di «sinistra» delle privatizzazioni, delle «liberalizzazioni», del lavoro «flessibile» e della «guerra umanitaria», sarebbero stati considerati pericolosi reazionari da ogni buon riformatore di sinistra (senza virgolette o aggiunte tipo «europea» o «arcobaleno» o «plurale»). Sulla base dei criteri politici degli anni Sessanta del secolo scorso, ad esempio del centrosinistra storico di Aldo Moro e di Pietro Nenni, la politica del «centrosinistra» odierno sarebbe stata senza dubbio giudicata di destra anti-sociale. In sede storiografica queste sono constatazioni obiettive e indipendenti dalla desiderabilità di questa o quella prospettiva politica.
Due fenomeni concorrono all’uso mistificante contemporaneo dei termini destra e sinistra:
a) la connotazione di misure politiche e politico-economiche, attuate sia dai governi di centrosinistra che da quelli di centrodestra, che in altro momento storico sarebbero state qualificate di destra e controriformistiche, nei termini della riforma e del progresso, del «Risorgimento» se non della «rivoluzione» (la «rivoluzione federalista»);
b) la frequente connotazione dell’avversario politico non solo in base alla dicotomia «destra»/«sinistra» ma secondo le sue varianti più estreme: tipica l’attribuzione a Berlusconi o alla Lega della patente di «fascista» o criptofascista, equivalente alla patente di «comunista» o criptocomunista abbondantemente distribuita da Berlusconi & C. alle figure più impensabili, dai magistrati ai corrispondenti dell’Economist, periodico economico con alle spalle una tradizione più che secolare di liberismo e liberalismo. Lo scopo evidente è la drammatizzazione spettacolare della scena politica e l’attribuzione all’avversario di caratteristiche inerenti ai «totalitarismi», al «male assoluto».
A sinistra, il richiamo al pericolo autoritario o di tipo fascista è demagogia strumentale ai più concreti appelli a votare, come sempre, per il «male minore», o a stringere le fila, sulla base di una «identità comunista» che si risolve, in definitiva, nel raccogliere voti sufficienti a superare lo sbarramento elettorale e/o a contrattare con il Pd.
«Fascista» o «eversivo» sono insulti, ma il fascismo è un fenomeno storico ben connotato che è ridicolo proporlo come categoria caratterizzante un partito di governo in uno dei capitalismi più avanzati del mondo, membro dell’Unione Europea ed esportatore di democrazia a forza di armi. Almeno, non confondiamo la propaganda di bassa lega con l’analisi.
Non c’è alcun bisogno della distruzione dei sindacati quando sono questi a farsi garanti dell’ordine sociale; non c’è alcun bisogno di distruggere il parlamentarismo quando esso è svuotato «dall’interno», per processi strutturali di portata internazionale. Non è questione che meriti discussione.
PD e PdL, «centrodestra» e «centrosinistra» attuali, non sono affatto né di destra né di sinistra nel senso storico e determinato che queste parole avevano fino trent’anni fa, o poco meno. Nello spettacolo politico si tratta di parole che possono essere indossate e tolte a seconda delle occasioni come i vestiti delle soubrettes o usate come epiteti diffamatori.
Connotare le due coalizioni con termini che sono anacronistici è una operazione di manipolazione dell’opinione pubblica e di motivazione dei rispettivi supporters ai fini della creazione di pseudo-identità e del compattamento dell’elettorato di riferimento, razionali nella loro strumentalità ma agenti sulla psicologia di massa in modo del tutto irrazionale.
dal sito http://ilmarxismolibertario.wordpress.com/
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